FUNZIONE
PUBBLICA
RIVISTA QUADRIMESTRALE
ANNO IX
- N.N.
2-3 / 2003
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
Foto di copertina: Palazzo Vidoni.
Elaborazione grafica di Romualdo Chiesa
FUNZIONE PUBBLICA
Periodico della Presidenza del Consiglio
dei ministri
Dipartimento della Funzione pubblica
Anno IX – N.N. 2-3/2003 – Nuova serie
Proprietà |
- Presidenza del Consiglio dei
ministri - Dipartimento della Funzione pubblica, in persona del
ministro per la Funzione pubblica, LUIGI MAZZELLA |
Direttore responsabile |
- MARIA CASTRIANNI – Capo dell’Ufficio
stampa |
Comitato scientifico |
- GIACOMO AIELLO – Avvocato dello
Stato – Consigliere giuridico
- ENRICO ARENA - Avvocato dello Stato
- Capo dell’Ufficio legislativo
- SERGIO BARBANTI – Consigliere
diplomatico
- FEDERICO BASILICA - Avvocato dello
Stato – Capo del Dipartimento
- FRANCO CARINCI - Ordinario di
diritto del lavoro
- ANTONIO CATRICALA' - Consigliere di
Stato
- CARLO D'ORTA - Consigliere della
Camera dei deputati
- RENATO GRIMALDI – Consigliere
giuridico
- MASSIMO MASSELLA DUCCI TERI -
Avvocato dello Stato - Capo di Gabinetto
- ROSARIO SCALIA - Consigliere della
Corte dei conti
– Consigliere giuridico |
Comitato tecnico di redazione |
- RUGGIERO FERRARA - Direttore
dell’Ufficio per la semplificazione delle norme e delle procedure
- ADRIANA JANIRI – Responsabile per la
Comunicazione istituzionale
- PIA MARCONI - Direttore dell’Ufficio
per l'innovazione delle pubbliche amministrazioni
- ANTONIO NADDEO
- Direttore dell’Ufficio per le
relazioni sindacali delle pubbliche amministrazioni
- FRANCESCA RUSSO - Direttore
dell’Ufficio per la formazione
del personale delle pubbliche amministrazioni
- FERRUCCIO SEPE - Direttore
dell’Ufficio per gli affari generali e per il personale
- FRANCESCO VERBARO – Direttore
dell’Ufficio per il personale delle pubbliche amministrazioni |
Coordinatore |
- ANTONIO BIGI - Dirigente
dell’Ufficio legislativo |
Coordinatore della segreteria di
redazione |
- ROMUALDO CHIESA - Funzionario dell’Ufficio stampa e
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Ricerca giuridica ed elaborazione
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- ROSSELLA BOCCI, ROMUALDO
CHIESA - Funzionari dell’Ufficio
stampa e documentazione |
Direzione e redazione |
- Corso Vittorio Emanuele, 116 - 00186
Roma - Tel. 06.6899.7565, fax 06.6899.7196 |
Stampa e distribuzione |
- Istituto Poligrafico e Zecca dello
Stato |
Registrazione presso il Tribunale civile
di Roma n. 263/86 del 18 maggio 1995.
Si autorizzano riproduzioni complete o parziali degli elaborati con
citazione della fonte, con esclusione del caso in cui l’articolo
contenga la clausola “riproduzione riservata” richiesta dall’autore.
La responsabilità delle opinioni espresse negli articoli firmati è
assunta dagli autori.
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Pag. |
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Editoriale
di Maria
Castrianni |
7 |
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Impegnarsi per una nuova amministrazione pubblica
di Luigi
Mazzella, ministro per la Funzione Pubblica |
9 |
u
Un progetto politico da governare:
la riforma della Pubblica Amministrazione
di Learco
Saporito, sottosegretario di Stato per la Funzione Pubblica |
13 |
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CONTRIBUTI
E
INTERVENTI |
21 |
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u
Il coordinamento delle politiche comunitarie: problemi attuali e
prospettive di riforma
di Francesco
Astone, professore associato di diritto amministrativo |
23 |
u
La definizione di nuovi strumenti e
metodi per migliorare il rapporto tra Pubblica Amministrazione e
cittadini
di
Federico Basilica, avvocato dello Stato, capo Dipartimento della
funzione pubblica |
46 |
u
Ruolo
della “governance”
e politiche di inclusione
di Giuseppe
Cogliandro,
consigliere della Corte dei conti |
50 |
u
Rapporti tra pubbliche amministrazioni e imprese
di Carlo D’Orta,
direttore generale del CNIPA, Centro Nazionale Informatica
Pubblica Amministrazione |
55 |
u
Empowerment delle amministrazioni. La strategia di
cantieri per un cambiamento tangibile
di Pia Marconi, direttore dell’ufficio per l’innovazione delle
pubbliche amministrazioni |
59 |
u
La competenza delle sezioni
regionali di controllo della Corte dei conti, dopo la legge n. 131
del 2003
di Rosario
Scalia, consigliere della Corte dei conti |
65 |
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DOCUMENTI |
105 |
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u
Convenzione tra la Presidenza del Consiglio dei Ministri -
Dipartimento della Funzione Pubblica e il FORMEZ - Centro di
formazione e studi- per l’attuazione del “Progetto a sostegno
dell’informazione pubblica e della formazione del personale degli
uffici stampa della pubblica amministrazione”. |
107 |
u
Protocollo d’intesa
tra la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della
funzione pubblica nella persona del Ministro per la Funzione
Pubblica e il FIABA (Fondo italiano abbattimento barriere
architettoniche)” |
113 |
u
Memorandum di intesa tra la Scuola superiore della Pubblica
Amministrazione, Repubblica italiana e la Graduate School, United
States Department of Agriculture |
115 |
u
DPCM 12 settembre 2003: “Fissazione, per le amministrazioni
provinciali e comunali, di criteri e limiti per le assunzioni di
personale a tempo indeterminato per l’anno 2003” |
117 |
u
DPCM 12 settembre 2003: “Fissazione, per le amministrazioni
regionali e per gli enti e le aziende appartenenti al servizio
sanitario nazionale, di criteri e limiti per le assunzioni di
personale a tempo indeterminato per il 2003.” |
122 |
u
DPR 31 luglio 2003: “Autorizzazione
alle assunzioni di personale nelle pubbliche amministrazioni.” |
125 |
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ESPERIENZE AMMINISTRATIVE |
131 |
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u
Alcuni esempi di “buone pratiche” nel piano di azione nazionale
per l’occupazione dell’anno 2000 |
133 |
u
La valutazione delle politiche pubbliche: l’esperienza della
Francia |
147 |
RUBRICHE |
157 |
_______________________________________ |
|
u
Risposte ai quesiti |
159 |
u
Circolari |
241 |
u
Giurisprudenza |
255 |
u
Normativa |
279 |
EDITORIALE
di
Maria Castrianni,
direttore responsabile
Con questo numero si è ritenuto opportuno
focalizzare l’attenzione su alcuni temi di notevole rilevanza
politico-istituzionale: da un lato si sta vivendo l’impegno della
Presidenza italiana dell’Unione europea con un forte senso di
responsabilità dato che si è ritenuto condividere la tesi
dell’elaborazione di una Costituzione degli Stati Uniti d’Europa;
dall’altro, prosegue incessante l’azione di ammodernamento del sistema
istituzionale da parte del Governo, in modo da renderlo il più
coerente possibile con i principi posti dalla nuova Carta
costituzionale europea.
Tutti i cittadini, così come il sistema
delle imprese, avvertono l’esigenza di confermare i propri
comportamenti, sia quelli che si esprimono secondo una prassi
individuale, sia quelli che sono il risultato di processi decisionali
di competenza dei diversi livelli di governo, ai nuovi principi
costituzionali contenuti nella legge n. 3 del 2001 e che solo nel 2003
sono stati esplicitati in modifiche ordinamentali di indubbia
rilevanza con la legge n. 131.
Con le riflessioni assicurate da studiosi
dei diversi aspetti della funzione pubblica si è cercato di offrire al
dibattito in corso un contributo sostanziale per lo sviluppo della
comunicazione delle innovazioni istituzionali a quanti, nel nostro
Paese e all’estero, siamo interessati a valutare i cambiamenti posti
in essere .
Dall’altra parte le indicazioni di natura
politica si dimostrano utili per fissare i traguardi che le pubbliche
amministrazioni, ciascuna per la propria sfera di competenza e
responsabilità, sono chiamate di volta in volta a perseguire.
Il volume intende, poi, rendere
testimonianza della complessa attività di supporto che il Dipartimento
della Funzione Pubblica ha assunto in questi ultimi due anni
posizionandosi tra le istituzioni di coordinamento a seguito delle
innovazioni istituzionali introdotte dalla legislazione, assicurando
così il rispetto della “voluntas
legislatoris” quale è ricavabile dal dibattito parlamentare sulle
scelte strategiche che il Governo ha ritenuto di dover effettuare nel
settore delle pubbliche istituzioni.
IMPEGNARSI PER UNA NUOVA AMMINISTRAZIONE
PUBBLICA
ministro per la Funzione
pubblica
La Pubblica Amministrazione in Italia ha già cambiato pelle; lo dicono
i sondaggi tra gli utenti dei servizi, lo dicono gli “Awards”
conquistati a livello internazionale (ONU e OCSE), lo dice
l’attenzione che ho riscontrato da parte di tutti i Ministri della
Funzione Pubblica incontrati nei paesi europei e non solo europei.
L’introduzione delle nuove tecnologie informatiche ha migliorato la
Pubblica Amministrazione.
L’efficienza, la qualità dei servizi, gli effetti delle politiche
pubbliche non sono più quelle che un tempo attiravano strali critici o
commenti ironici. Abbiamo un’Amministrazione che sa dialogare con la
Società. Certamente non siamo all’optimum ma siamo sulla strada
buona.
Il passo con cui le Amministrazioni pubbliche si muovono in direzione
del cambiamento è divenuto deciso e sostenuto. Dai dati raccolti nelle
indagini – presentati nei vari convegni sull’innovazione nella P.A. –
emerge un quadro interessante.
Grazie al contributo determinante delle nuove tecnologie elettroniche,
sono stati realizzati efficaci strumenti di gestione per recuperare
efficienza ed al tempo stesso risorse adeguate. Per la definizione e
per l’attuazione delle strategie di intervento sono stati immaginati
supporti idonei ed efficaci.
Ed ancora: analisi di impatto, operazioni di monitoraggio del sistema
organizzativo, assestamento del quadro gestionale, attraverso il
cambiamento e l’adattamento anche di modelli “privatistici”,
interventi volti a migliorare la qualità del lavoro sono strumenti
ampiamente utilizzati nel settore pubblico come e forse più che in
quello privato.
Per valorizzare le esperienze condotte dalle Amministrazioni pubbliche
nel quadro dell’innovazione, il Dipartimento della Funzione Pubblica
ha avviato iniziative che sono state tutte coronate da lusinghiero
successo.
Mi limito a citare la “Banca dati Buoni Esempi” ed i “Cantieri”,
ideato, quest’ultimo, per “accompagnare” le singole Amministrazioni
nei percorsi di adeguamento tecnologico e comunque innovativo.
Ben 80 Amministrazioni pubbliche che hanno elaborato soddisfacenti
piani integrati hanno ricevuto riconoscimenti per le attività
intraprese.
La presenza degli esperti dell’innovazione e della Comunicazione ai
tanti Convegni sulla modernizzazione della pubblica amministrazione, è
un segno evidente delle nuove potenzialità a disposizione del Sistema
pubblico per affrontare i problemi legati al suo ammodernamento.
Forse è proprio sul piano della comunicazione che va recitato qualche
“mea culpa”. Non tutto quello che si è realizzato è stato
trasmesso alla collettività. Ancora non v’è nella opinione dei
cittadini un’immagine del lavoro pubblico adeguata al ruolo che la
P.A. effettivamente svolge.
Ovviamente, non tutto quello che in questo settore non va, dipende
dalla pubblica amministrazione. V’è anche chi con spirito fazioso e
forse anche interessato continua a soffiare sul fuoco di vecchie
critiche ed a
minimizzare il valore del servizio pubblico. E soprattutto il ruolo
fondamentale cui la Pubblica Amministrazione, in generale, per lo
stesso fatto di esistere, adempie, garantendo la tutela dell’interesse
generale della collettività contro le spinte egoistiche e talora
anarchiche presenti nella società.
Ricordiamoci che prima della nascita di una vera e propria Pubblica
Amministrazione c’erano gli scontri furiosi degli interessi
contrapposti dell’epoca feudale. Nessuno, quindi, oggi può pensare di
ridurre oltre certi limiti la funzione pubblica, senza fare correre al
paese il rischio della prevalenza di nuove “baronie” orientate al
perseguimento di ben precisi interessi.
Sul piano comunicazionale, quindi, occorrerà procedere ulteriormente
ad operazioni sistematiche e non episodiche di presentazione
dei risultati spesso veramente eccellenti delle singole
specifiche unità operative pubbliche.
Ovviamente, anche in questo settore, le iniziative
non sono mancate.
La legge 150 del 2000 ha avviato una diffusa sperimentazione della
comunicazione anche interna per il cambiamento sostanziale
dell’Amministrazione. Si tratta di uno strumento legislativo
particolare, suscettibile di ulteriori utilizzazioni.
Il rapporto con le Università al fine di orientare giovani laureati
qualitativamente eccellenti verso il lavoro pubblico è stato
felicemente avviato.
Si è programmato un premio per il migliore cortometraggio che metta in
luce gli aspetti positivi del lavoro del pubblico dipendente come
“cittadino al servizio di altri cittadini”.
Un’altra priorità assoluta resta quella di
restituire motivazione e senso di appartenenza ai pubblici dipendenti.
L’applicazione alla Pubblica Amministrazione delle metodologie
classiche nel mondo delle aziende (si pensi soprattutto al competitivo
bench-marking) che hanno l’obbiettivo di identificare le realtà
più innovative per copiarne gli aspetti salienti,
non deve mai essere intesa come strumento punitivo. E soprattutto non
deve mai andare disgiunta né da una visione antropologica anche dei
fenomeni dell’innovazione né da una visione etica dell’impegno del
cittadino nel pubblico impiego.
Il pubblico dipendente, rispetto al dipendente privato, è bene
ricordarlo, ha una funzione in più: salvaguardare l’interesse di tutti
e contenere le spinte particolaristiche dei consociati. E’ un ruolo
oggettivamente etico che gli impone di restare in posizione centrale
di imparzialità e di neutralità quali che siano i processi evolutivi
della Pubblica Amministrazione. Per valutare nel pubblico dipendente
la sua idoneità al ruolo, la sua capacità di essere e porsi a
differenza di ogni altro impiegato, al servizio esclusivo della
Nazione e della collettività organizzata occorrono strumenti specifici
alla Pubblica Funzione.
Non potrei concludere questo
mio intervento senza accennare ad un importante appuntamento che
imporrà alla nostra Pubblica Amministrazione di cambiare ancora di più
nel settore dell’innovazione. L’appuntamento molto importante, già
scritto nella sua Agenda, è l’incontro “prossimo venturo”con il
Digitale Terrestre.
Intanto, c’è da dire che due importanti
iniziative già assunte renderanno particolarmente proficuo per i
cittadini e per la P.A. questo incontro. La prima è costituita dal
piano di e–Government elaborato dalla P.A. che con i suoi 138
progetti approvati e finanziati dal Governo, sembra essere stato fatto
apposta per consentire alla quasi totalità degli enti locali di
utilizzare al meglio il Digitale Terrestre, quando costituirà una
realtà operante.
Avere un proprio spazio in rete, dando
modo ai cittadini di aprire un dialogo con organi burocratici prima
raggiungibili solo con molte difficoltà, rappresenta il “prius”
per partire con il piede giusto nel recepire i vantaggi che
deriveranno dalla ulteriore e rivoluzionaria innovazione tecnologica.
La seconda iniziativa riguarda TELE-P.A.-il
primo TG on-line interamente dedicato a notizie ed informazioni della
Pubblica Amministrazione e voluto dal Dipartimento per la Funzione
pubblica. La testata si rivolge a tutti coloro che operano nella
pubblica Amministrazione ma anche e soprattutto a cittadini ed
imprese. Si tratta di un vero e proprio telegiornale quotidiano
realizzato da giornalisti specializzati cui si affiancano rubriche di
approfondimento particolarmente utili.
La televisione digitale terrestre per
effetto del lavoro già avviato dalla P.A. si innesterà quindi su una
rete già creata per rendere più agevole il dialogo con la P.A.
I cittadini potranno fruire di quei
servizi interattivi che oggi stanno muovendo i loro primi passi su
Internet attraverso un mezzo molto più semplice, diretto, immediato ed
efficace di quanto non sia oggi il personal computer.
La televisione digitale terrestre sembra
destinata a trasformare la vita dei cittadini: basterà accendere il
televisore e sarà possibile, come oggi con il personal computer,
navigare in Internet, mandare e mail, interagire con la Pubblica
Amministrazione.
La moltiplicazione dell’uso delle
tecnologie nel rapporto tra Pubblica Amministrazione ed utenti dei
suoi servizi
servirà in questo caso anche a diminuire se non ad annullare il “digital
divide” che oggi traccia un solco profondo tra chi sa fare uso del
personal computer e chi invece no, vuoi per ragioni anagrafiche, vuoi
per motivi culturali vuoi per difficoltà geografiche.
Le modalità di utilizzo dei televisori
sono oggi patrimonio di tutti. Ugualmente sembrano destinate a
diventarlo le applicazioni interattive connesse. Il digitale
terrestre, data la semplicità di accesso
al mezzo televisivo, sembra destinato a consentire un agevole
utilizzo di tutta una serie di servizi offerti a domicilio dalla
pubblica Amministrazione.
Su questa linea di tendenza,
paradossalmente il nostro paese, che oggi, sul piano della
telecomunicazione, si trova in posizione arretrata rispetto ad altri
paesi europei (per la limitata cablatura del territorio), può
ritrovarsi in “pole position”. Non vi sono ammortamenti di impianto di
cavi ad imporre attese. Si avvertirà, inoltre, come più urgente ed
impellente il bisogno di superare il gap esistente.
In questa linea, il DPEF 2003-2006 ha
puntualmente colto la grande opportunità che la situazione
offre all’Italia.
Esso, infatti, testualmente recita: “La
transizione verso la televisione digitale terrestre costituisce un
obiettivo di medio termine che richiede misure immediate di
sperimentazione, indirizzo e sostegno in vista della scadenza del
2006. L’obbiettivo prioritario è quello di sostenerne la pubblica
sperimentazione anche attraverso l’utilizzo del mezzo satellitare e di
indirizzarla verso un modello di offerta di contenuti che ne faccia lo
strumento universale per offrire ai cittadini i servizi resi dalla
pubblica amministrazione (la telemedicina, la teleprenotazione, la
posta, il fisco, i rapporti con le Amministrazioni locali).”
E più avanti il Documento aggiunge ancora:
“ L’obiettivo strategico (del Governo) sarà quello di portare la banda
larga nella quasi totalità delle sedi della pubblica amministrazione,
aumentandone la copertura dall’attuale 20% al 90% circa, in coerenza
con gli obiettivi previsti nel piano e - Europe 2005”.
Alcuni esempi interessanti di servizi
della pubblica amministrazione effettuabili con il digitale terrestre
sono stati illustrati nel COM-PA dell’anno scorso.
Altri
certamente verranno illustrati nel corso di questa manifestazione, che
interviene, mi sembra di poter dire conclusivamente, in un momento
particolarmente importante e significativo per la pubblica
amministrazione e per la sua comunicazione istituzionale.
UN PROGETTO POLITICO DA GOVERNARE
LA RIFORMA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
di
Learco Saporito,
sottosegretario di stato per la Funzione pubblica
Nell’affrontare i temi della “grande riforma”, di quella che è
considerata da tempo l’impresa più affascinante che possa essere
intrapresa da un Governo, dai diversi livelli di governo, per ridare
slancio alle politiche pubbliche che vanno gestite nell’esclusivo
interesse dei cittadini, non possiamo fare a meno, oggi, di guardare
ad esse da più angolazioni.
Da quella del decisore politico, da quella delle burocrazie, da quella
del cittadino, da quella dell’impresa.
E il diverso approccio alla definizione delle linee-guida che devono
presidiare i comportamenti dei responsabili dei diversi livelli di
governo viene richiesto, peraltro, dal mutato quadro costituzionale
dei poteri, dal sistema delle relazioni che la nuova Costituzione ha
inteso disegnare tra il “centro” e la “periferia” del sistema delle
istituzioni.
Dobbiamo abituarci, quindi, alla coesistenza di una pluralità degli
ordinamenti, ferma restando la responsabile condivisione di alcuni
principi fondamentali leggibili in Costituzione.
Del valore di questi principi fondamentali, purtroppo, ci siamo, a
volte, dimenticati, affascinati – come lo siamo stati e come
continuiamo, purtroppo, ad esserlo – che il miglioramento dei servizi
pubblici sia conseguibile solo ricorrendo al “privato”.
Se si continua a ragionare in questi termini, si finirà per rendere un
cattivo servizio all’intero sistema amministrativo nazionale.
Purtroppo, ci vuole un sostanziale coraggio morale per riprendere il
filo di un discorso che è stato inquinato da un atteggiamento di
acritica acquisizione di concetti, di metodi, di tecniche provenienti
da discipline diverse dal diritto amministrativo.
Nel passaggio da un sistema che aveva avuto, fin dal 1993, la pretesa
di ri-regolamentare il sistema del pubblico impiego a quello, invece,
che sta nascendo dal nuovo testo costituzionale e che la “devolution”,
sulla quale si sta discutendo ancora, con ragionate e ragionevoli
prese di posizione, può ancor meglio ridefinire, si coglie un
atteggiamento di sostanziale ripensamento dei confini tra l’area di
competenza del legislatore e l’area di competenza rilasciata
all’accordo privatistico (o pseudo-privatistico).
Non c’è alcun dubbio che per conseguire l’obiettivo del contenimento
del costo del lavoro – obiettivo che ci viene correttamente suggerito
dall’adesione al Patto di stabilità e di crescita (Trattato di
Maastricht) – i Governi di centro-sinistra hanno pensato che sarebbe
bastato costruire un “datore di lavoro” diverso dal Parlamento. Questa
finzione giuridica – l’ARAN – è stata accettata dal Parlamento, ma
alla distanza il sistema non ha retto: al posto della dirigenza, che
avrebbe dovuto decidere nel rispetto del principio del buon andamento
– che è la “sana gestione” delle risorse propria della cultura
amministrativa europea, e anche di quella americana – hanno finito per
assumere un ruolo determinante, nei luoghi dove si assicurano i
servizi al cittadino, gli apparati sindacali.
E il modello di responsabilità dirigenziale non poteva che impallidire
di fronte a un “potere forte”; un potere, tra l’altro, che si è venuto
a riposizionare, in moltissimi casi, anche nel ruolo del datore di
lavoro. In questo senso l’analisi sociologica fornisce il suo
contributo di conoscenze sulla realtà amministrativa come si è venuta
confermando.
L’avere lasciato al potere politico, poi, un ampio margine di
discrezionalità riguardo al destino professionale della dirigenza, a
tutti i livelli di governo, ha significato la perdita sostanziale
della c.d. “indipendenza” di essa; la privatizzazione del rapporto ha
finito per determinare una situazione di totale soggezione al decisore
politico al potere in quel determinato momento storico.
Eppure ai parametri dell’efficienza, dell’economicità, dell’efficacia
dell’azione amministrativa, che sono espressione del principio del
buon andamento di cui all’art. 97 Cost., aveva fatto riferimento, agli
inizi degli anni ’70, il d.P.R. n. 748… C’è da fare un grande sforzo
per vederli effettivamente applicati nei luoghi di lavoro, oggi, a
distanza di dieci anni dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 29/93.
Noi affermiamo, oggi, che quei parametri per diventare parte
integrante del sistema comportamentale delle diverse burocrazie si
possono rispettare inoculando nel sistema stesso un alto grado di
consapevolezza delle emergenze esprimibili dall’utenza, consapevolezza
che va nutrita da un sostanziale tasso di eticità che deriva dal
principio di imparzialità nella resa dei servizi.
Né possiamo dimenticare che ai posti di responsabilità – così come
avviene nella impresa privata, che, se malgovernata, chiude i battenti
– debbano andare coloro che lo meritano…
Riscrivere i percorsi di carriera significherebbe dare una speranza di
crescita professionale, significherebbe stimolare verso l’eccellenza
tanti operatori pubblici. E non c’è dubbio che la legislazione
regionale sarà in grado di operare su tale versante, rivelandosi
attenta a un tema che sta diventando cruciale.
Altro punto di interesse è la disponibilità che le istituzioni
pubbliche, nella loro veste di “datore di lavoro”, dimostreranno in
ordine al tema della qualificazioni professionale dei propri
dipendenti.
Sullo sfondo, e ancora alla luce della ridefinita sfera di competenza
legislativa tra Stato e Regioni, e alla luce dei rapporti di supporto
e di assistenza che le Province hanno nei riguardi degli enti locali,
c’è da verificare se e in che modo le diverse agenzie nazionali di
informazione, create dalla legislazione dei Governi di
centro-sinistra, risultino compatibili con la potestà legislativa
esprimibile in tale campo dalle Regioni stesse. C’è da verificare,
ancora, se debba sussistere, in quest’area, un ruolo di compresenza
del sistema universitario così come di quello autogenerato dallo
stesso sistema degli enti territoriali.
Anche in questa materia tra Stato e Regioni, tra Stato ed enti locali
c’è da marcare i rispettivi territori di intervento, nel rispetto del
principio della sussidiarietà orizzontale, salvaguardando l’iniziativa
privata.
Su quali temi si deve svolgere l’azione formativa, che deve assumere
le caratteristiche di un progetto culturale continuo, non possiamo che
concordare: come si realizza un’amministrazione pubblica più vicina al
modello di amministrazione europea; come si amministra per raggiungere
dei risultati; come si misura la soddisfazione degli utenti; come si
possa conseguire un più alto grado di produttività gestionale; come il
sistema dei controlli debba essere in grado di assistere il decisore
politico a migliorare il sistema amministrativo nell’interesse
esclusivo del cittadino, dell’impresa.
In sostanza, per realizzare questi obiettivi è necessario indicare i
percorsi, individuare le risorse disponibili, acquisire la
disponibilità al cambiamento.
E’ questo un progetto
politico realizzabile; in questo senso sono, innanzitutto, da
condividere i temi di base.
1. Amministrazione italiana e politica europea: legislazione e modelli
da applicare.
L'Amministrazione italiana è ormai il
terminale operativo dell'Ammini-strazione Europea.
Non c'è angolo della vita privata e
pubblica italiana che non sia regolato in sede comunitaria: dalle
dimensioni delle prese elettriche, fino al rumore del tosaerba.
L'Europa è una realtà, che ha unito le
Amministrazioni e sta unendo le società. Per questo motivo le
Amministrazioni devono avere la stessa capacità di reazione in tutti
Paesi.
È questa una altra "sfida" per
l'Amministrazione pubblica italiana.
Occorre, quindi, pensare ad innovare anche
da questo versante. Innanzitutto, occorre che i funzionari siano
preparati sotto il profilo linguistico.
In secondo luogo, tutte le Amministrazioni devono essere dotate di un
ufficio responsabile dei rapporti con la Comunità e con le altre
amministrazioni che ad essa fanno capo, con il compito di tenere
informato della sua attività l'apposito Dipartimento della Presidenza
del Consiglio dei Ministri.
2. Dalla amministrazione “per atti” a
quella anche “per risultati”.
L'Amministrazione italiana è attenta alle regole, alle procedure, ma
continua a dimostrare una certa quale propensione ad ignorare il
"prodotto".
Eppure ai cittadini interessano ambedue: sia il rispetto delle regole
sia l'assicurazione del risultato. D'altra parte, le attese in genere
del cittadino nei riguardi delle pubbliche istituzioni sono di due
tipi: attese di "protezione" e attese di "produzione".
Le prime sono, come si è detto, di tipo
difensivo: evitare, cioè, l'arbitrio e la discrezionalità delle
pubbliche istituzioni. Le attese di produzione, invece, sono "pretensive"
in quanto volte a prevenire tensioni: sanità efficiente e di qualità,
pensioni erogate rapidamente, istruzione efficace e così via.
Per soddisfare questi due tipi di attese i
cittadini si aspettano una Amministrazione con potestà autoritativa
limitata e una Amministrazione erogativa efficace e rapida che li
tratti come " clienti " e non come sudditi.
Per l'una e l'altra " Amministrazione "
deve valere il principio del risultato.
Perché ciò si realizzi è bene che gli utenti possano formulare giudizi
su questa o quella struttura amministrativa, prevedendo - sulla
falsariga di quanto avviene in Paesi a democrazia avanzata - periodici
controlli (interni-esterno) da svolgere nell'interesse dei
cittadini-utenti.
3. L’utenza va posta in cima ai pensieri
dell’operatore pubblico.
La legge 7 agosto 1990, n. 241, sul
procedimento amministrativo, ha dettato principi e stabilito regole
per i rapporti tra Pubblica Amministrazione e cittadini, introducendo
e garantendo nuovi diritti dei cittadini verso le amministrazioni:
emissione dei provvedimenti entro termini prestabiliti, motivazione
degli stessi, libero accesso ai documenti amministrativi.
Questi nuovi diritti possono essere fatti
valere nei riguardi delle Amministrazioni che esercitano poteri
autoritativi (tale è il provvedimento di espropriazione). Mentre non
sono esercitabili nei riguardi delle Amministrazioni che erogano
servizi (ad esempio l'ospedale fornisce assistenza sanitaria).
Non essendo applicabile la legge 241, i
rapporti fra le Amministrazioni che erogano servizi pubblici e i
fruitori degli stessi devono essere regolamentati dalle
Carte dei servizi pubblici.
Le
Carte indicano uno
standard qualitativo
e quantitativo dell'erogazione di servizi. Negli
standards è la garanzia per
il cittadino di ricevere servizi qualitativamente elevati: contatto
questo che è stato ripreso dall’art. 117, 2° c., lett.
m), della nuova
Costituzione (art. 3, legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3).
Su quali linee guida occorre mobilitare, in questo settore, gli
operatori pubblici? Potremmo indicarne alcune, nella convinzione che
altre e ben più interessanti proposte scaturiranno dalla voglia di
innovare che ogni operatore pubblico ha.
Eccole:
a)
da un lato, riavviare il progetto, articolato per grandi aree
istituzionali, della semplificazione dei procedimenti amministrativi
nel nuovo contesto della codificazione di alcune materie, di alcuni
settori della vita civile;
b)
dall'altro, moltiplicare, potenziandoli, gli
sportelli dei cittadini
quali centri informativi unificati della Pubblica Amministrazione e
interfaccia unici in
grado di dare contemporaneamente risposte diverse tra loro.
Il Parlamento, il Governo, il politico, il Sindacato devono riportare
il cittadino-utente al centro della Pubblica Amministrazione.
Infatti, la crisi di fiducia nelle
istituzioni, in Italia, non riguarda soltanto gli organi politici.
La rottura del circuito
governanti-governati è figlia dell'instabilità dei Governi, della
partitocrazia, della corruzione ed ha anche tanti padri: dalla
sproporzione tra costo e rendimento dei servizi pubblici, allo
squilibrio tra le Amministrazioni del Nord e quelle del Sud;
dall'arbitrio amministrativo alle scuole scadenti, agli ospedali male
organizzati, ai trasporti lenti.
A tanta disfunzione si può e si deve
ovviare, con il consenso degli operatori, se si fa strada la
consapevolezza che al primo posto nell’ambito delle pubbliche
istituzioni debbano essere posti gli interessi degli utenti.
L'idea è questa: prendere la
temperatura degli utenti ogni giorno, ponendoli in condizione
di capire le leggi e le circolari che sono da scrivere "in italiano",
con un linguaggio fondato sulla semplicità dello stile e sulla
chiarezza dei concetti.
4. Decentrare il potere di decisione
Non basta parlare di autonomia gestionale;
occorre, nei fatti, decentrare il potere decisionale, rafforzando le
autonomie locali e le competenze regionali, restando al “centro” il
potere di sollecitare e di controllare che le sperimentazioni di
decentramento abbiano il successo che meritano.
Ma non basta. Per quanto riguarda i
Ministeri, si deve procedere sulla strada della deconcentrazione. Non
partendo però dall'analisi delle funzioni centrali da trasferire,
bensì dalle attese dei cittadini. In merito, un ampio percorso è stato
fatto.
Comunque, non è neppure sufficiente solo
deconcentrare le funzioni. Occorre anche che chi ha responsabilità
decisionali possa fare leva sulle risorse di cui senta il bisogno.
È necessario - sulla base delle esperienze
maturate da chi vive la quotidianità - che si attui un serio programma
di analisi dei capitoli di bilancio, in modo da verificarne l’utilità.
Oggi sono quasi seimila i capitoli del solo bilancio-madre, quello
dello Stato, che assorbe meno della metà della finanza pubblica. Basti
pensare, ad esempio, che negli Stati Uniti, con 280 milioni di
abitanti, il bilancio di previsione del governo federale ha, dopo la
riforma Mc Namara, molti meno capitoli di quanti se ne ha nel nostro
Paese.
5. Costo ed efficienza della burocrazia
Ridurre il costo della burocrazia e migliorarne l'efficienza dev'essere
il concetto filosofico sotteso alla riforma che viene proposta.
Occorre eliminare i livelli di gestione inutili. In Italia, esistono
amministrazioni pubbliche che sono organizzate su diversi livelli di
decisione, da quella centrale, a quelle sovraregionale, regionale,
pluriprovinciale, provinciale, sovracomunale e comunale.
Occorre motivare il personale,
impegnandolo soprattutto nella
core mission della Pubblica
Amministrazione che va riorganizzata in modo non più autoreferenziale
ma per servire i cittadini.
A tale scopo sarebbe quanto mai utile
riconvertire chi, oggi, si trova impegnato nei settori del lavoro
strumentale per aumentare - senza costi aggiuntivi per l'Erario - il
personale da adibire alla gestione dei problemi (o funzioni) finali,
che sono quelli che interessano gli utenti.
6. Eguaglianza e merito
Questo concetto è stato posto in premessa:
nella nostra società opinione diffusa è che dipendente pubblico sia
sinonimo di inefficienza.
Per ribaltare questo luogo comune vanno
individuate linee guida lungo le quali muoversi.
Intanto, dobbiamo smettere di rincorrere
indiscriminatamente ed acriticamente il privato - cosa che ha
provocato e sta provocando danni incalcolabili sui dirigenti e i
quadri della Pubblica Amministrazione disaffezionandoli al proprio
ruolo - nell'illusione che solo nel privato si trovino le
professionalità per innovare.
L'esperienza degli ultimi anni ha
dimostrato che questo, nonostante numerosi tentativi, non è accaduto.
Altro discorso è, invece, introdurre nel pubblico criteri e parametri
propri del settore privato.
Occorre, invece, mettere ordine nel mondo
complesso degli impiegati:
a) eliminando le forme di rapporto di lavoro a tempo determinato
(precariato);
b) fondando la carriera sul merito, mediante ricorso a meccanismi di
premi e sanzioni;
c) riunificando poteri che siano frammentati in modo da
respon-sabilizzare il singolo sul risultato;
d) fissando parametri di produttività e di
carichi di lavoro, sulla base degli atti e delle operazioni, ponderati
con la loro complessità.
Imperativo categorico della riforma della
Pubblica Amministrazione è che questo programma ambizioso non sia
realizzato senza la diretta collaborazione dei destinatari della
riforma stessa; anzi, essa va fatta con il loro contributo di idee, di
progetti, di innovazioni.
Obiettivo fondamentale è quello di restituire dignità al pubblico
impiego, guadagnando sul campo il posto perduto nella società dovuta
all'insipienza e alla carica assistenziale e clientelare dei governi
che si sono succeduti negli ultimi decenni.
Una prima considerazione va fatta in ordine al tema decantato della
distinzione (non certo separazione) tra indirizzo politico e gestione
amministrativa: non si illudano i riformatori che l'indirizzo politico
si possa determinare in assenza di relazioni reciproche con gli
operatori.
Una simile concezione è errata sia nella
quotidiana gestione ministeriale, dove l'indirizzo politico e le
conseguenti direttive vanno, comunque, in qualche modo contrattate con
gli operatori per la realistica valutazione degli obiettivi e delle
risorse disponibili, sia nella determinazione degli indirizzi di
politica generale del governo; fermo restando, naturalmente, che le
grandi strategie politiche competono al vertice politico, che si
esprime attraverso la strategia di partito e di maggioranza.
Tuttavia, è bene ribadire la illusorietà
degli indirizzi politici attuativi delle direttive di alta
amministrazione elaborati dal vertice politico senza che vi siano lo
scambio costante e il confronto continuo con i referenti
amministrativi (alta e media dirigenza).
Il coinvolgimento preventivo della
dirigenza nelle scelte politiche, infatti, evita il pericolo della
eterogenesi dei fini, per cui alcuni obiettivi strategici politici di
fondo sono falliti per l'inadeguatezza degli indirizzi politici
concreti, quando essi sono stati elaborati senza la collaborazione
creativa della classe dirigente pubblica. Dobbiamo invece proporre e
costruire all’insegna del criterio della fattibilità degli interventi.
Per restituire alla Pubblica Amministrazione e ai suoi dirigenti la
dignità calpestata basterebbe, per dirla con una battuta, seguire a
ritroso il cammino fatto dai Governi di centro-sinistra. E questo
percorso va fatto perfezionando il disegno politico che è stato
esplicitato ormai nella legge n. 145/2002.
7. La produttività gestionale si può
conseguire.
Non bastano le leggi per cambiare i
comportamenti.
Dal 1980 sono state emanate centinaia di
leggi o di atti normativi in genere che dettano disposizioni sulla "produttività"
della Pubblica Amministrazione senza che si assistesse a qualche
incremento del livello produttivo della singola istituzione.
Continuiamo a riempirci la bocca di
produttività, eppure gli osservatori stranieri si meravigliano perché
la nostra Amministrazione non riesce a comunicare con i cittadini per
posta o con il telefono, evitando loro di accedere agli Uffici.
Si calcola che dei 365 giorni che ci sono
ogni anno, tra i 15 e i 20 ogni cittadino italiano li trascorre nei
rapporti con le istituzioni pubbliche.
La scarsa produttività delle pubbliche
istituzioni è da ricercare nello scarso impegno legato all'assenza di
reali incentivi, alle procedure obsolete, all'eccesso di interferenze,
alle gelosie, perché no?, tra amministratori.
Da qui la necessità di rendere il lavoro
di ogni dipendente pubblico il più razionale possibile. E poi non è
vero che i dipendenti pubblici in Italia sono troppi. In Francia, in
Inghilterra, in Germania sono ancora più numerosi ma rendono meglio
perché diversa è la distribuzione tra le varie funzioni rapportata
agli obiettivi da conseguire nel modo più rapido e più economicamente
conveniente.
Troppo spesso è accaduto che i fondi destinati alla produttività siano
stati distribuiti tra i dipendenti "a pioggia", senza alcun criterio,
mortificando e, quindi, demotivando chi lavora con dignità, con
dedizione, con professionalità. Da qualche tempo, attraverso la
contrattazione collettiva integrativa, ciò che era in principio
destinato all’incremento della produttività, si sta utilizzando per
remunerare gli avanzamenti di carriera. Non è forse questa una
distorsione del sistema?
8. La formazione continua, uno strumento
per creare cultura della sana gestione.
L'attività formativa si dimostra ancora
alquanto generica. In effetti, essa serve ad aggiornare, ad acquisire
nuove qualificazioni ma non ad aiutare i dipendenti, dato che manca la
sperimentazione pratica. L’obiettivo dovrebbe essere “meno lezioni,
più sperimentazioni”. Ed ogni intervento formativo sia eseguito dalla
valutazione di rendimento e di risultato.
Abbiamo, nel nostro Paese, scuole
pubbliche di formazione dei dipendenti pubblici che sembrano
atteggiarsi come una qualsiasi Facoltà universitaria. Non servono.
Così come non servono, ai fini di un corretto equilibrio con il
sistema formativo pubblico, gli istituti privati che si atteggiano a
centri universitari, con tanta teoria e poca sperimentazione
gestionale.
Le risorse dedicate alla formazione, poi,
sono ancora limitate.
Secondo gli
standards internazionali, bisognerebbe dedicare alla formazione
non meno del 2% del monte-salari. Se esso può apparire esagerato, si
pensi che la Francia dedica alla formazione quasi il 6% del
monte-salari.
Ai dirigenti deve essere affidato un vero
e proprio potere di gestione così articolato: indicazione di obiettivi
e di tempi; budget; poteri di spesa; controllo dei risultati.
Se tutto questo è già scritto nelle leggi,
va anche detto che non ci sono, oggi, i luoghi dove apprendere a "essere
dirigente", anche perché i contenuti dei corsi di quella che è
la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, che si dimostra
comunque fortemente disponibile al cambiamento, non riescono a
suscitare l'interesse di chi deve frequentarli.
Occorre, allora, consentire alla dirigenza
di scegliere corsi di formazione, anche ricorrendo ad agenzie private
di formazione manageriale.
Si tratta di avviare un sistema di formazione permanente che va esteso
alle qualifiche inferiori a quella dirigenziale (in particolare, alla
vice-dirigenza) per entrare a far parte del sistema di investimento
sulle risorse umane proprio di ogni organizzazione moderna e
funzionale. Solo aprendo alla concorrenza in questo campo, si adegua
la Pubblica Amministrazione all'evoluzione della società nazionale,
delle stesse comunità locali.
9. Controllare è anche governare e amministrare
La legge 14 gennaio 1994, n. 20, così
come, oggi, la legge 5.6.2003, n. 131, si sono proposte di incidere su
un antico pregiudizio, ancora saldamente radicato nella cultura sia
della dirigenza sia della dottrina amministrativistica sia dei
controllori professionali:
quello secondo cui il governare così come l'ammi-nistrare siano cose
diverse dal controllare.
Oggi, svolgere attività di controllo significa, oltre che verificare
la rispondenza dell'atto o provvedimento alla norma di legge
(controllo di legittimità), anche dare un giudizio sulle tre E:
1. Efficienza,
2. Efficacia,
3. Economicità.
In questo senso, il secondo dei doveri di
un dirigente pubblico è quello di sottoporre a monitoraggio
(controllo) permanente l'attività dei suoi collaboratori.
Come fare? Anche sotto questo profilo, lo
strumento della compartecipazione alla realizzazione dell'ambizioso
progetto è la formazione. Da qui la necessità di predisporre dei piani
di formazione/qualificazione di grande impegno.
Ma non basta controllare la legittimità
dell'atto, vanno controllati anche i risultati dell'azione
amministrativa. Occorre effettuare realmente i controlli dei costi e
dei rendimenti, oltre che dei controlli di
performance
(in italiano, produttività), cioè di risultato.
Tutto ciò presuppone una avvertita
disponibilità all'introduzione del calcolo economico come misura
dell'azione amministrativa.
La verifica della soddisfazione degli
utenti andrebbe fatta a campione, anche con l'assistenza di organismi
esterni, quando sia necessario e sia previsto, ormai, dalla normativa
comunitaria. Su tali basi si potrebbe avviare la costruzione di un
sistema degli incentivi basato sul grado di soddisfazione assicurato
agli utenti. Non solo: si potrebbero attribuire livelli salariali più
alti attraverso le promozioni per le singole persone, oppure mediante
la attribuzione di maggiori risorse agli Uffici.
Alla crisi dei controlli tradizionali si è
già fornito recentemente una risposta ridisegnando "il
sistema dei controlli", sia interni che esterni.
Se è poi vero che il controllo sul campo
lo effettua per primo e in presa diretta il dirigente, a costui non
può non essere fornita una adeguata cultura. La stessa va fornita ai
rappresentanti del sindacato, cui spetta l'onere di controllare
l'imparzialità dell'uso delle risorse umane, e che sono l’interfaccia
del datore di lavoro pubblico.
L'Amministrazione, in sostanza, ha
dimenticato che occorre autocontrollarsi. Deve tornare a farlo. Anche
perché c'è già chi formulerà un giudizio su tale delicato aspetto
della gestione: è la Corte dei conti cui è stata assegnata la funzione
di esercitare un controllo-guida, un controllo assistenza, un
controllo sollecitazione a ben gestire la "cosa pubblica", senza
dimenticare di colpire chi ha agito
contra legem.
In questo senso, il Governo ha posto le basi perché questo Organo
accentui, essendo stato approvato il testo “La Loggia” di adeguamento
del nostro sistema amministrativo ai principi posti dalla legge
costituzionale n. 3/2001, quelle funzioni di ausiliarietà nei
confronti di tutti gli organi rappresentativi della volontà popolare,
non solo del Parlamento nazionale. Si tratta di una scelta politica di
grande portata storica, che conferma la volontà del Governo di rendere
sempre più visibile l’importanza che esso annette al controllo
indipendente esterno affidato alla Corte dei conti, la quale è
chiamata, nello svolgimento della missione in questione, a formulare
un giudizio sulla funzionalità del sistema dei controlli interni.
CONTRIBUTI
ED INTERVENTI
IL COORDINAMENTO DELLE POLITICHE COMUNITARIE: PROBLEMI ATTUALI E
PROSPETTIVE DI RIFORMA.*
di
Francesco Astone,
professore associato di
diritto amministrativo
1. Italia ed Unione Europea:
un difficile dialogo
Il rapporto tra l’Italia e la Comunità
europea è stato a lungo condizionato da un originario difetto di
prospettiva: gli “affari comunitari” – anche alla luce dei ristretti
limiti a suo tempo imposti alla “costituzionalizzazione” del processo
di integrazione dall’art. 11 della Costituzione – sono stati a lungo
considerati come rientranti nel settore degli “affari esteri”. Da ciò
sono derivate inevitabili conseguenze anche sotto il profilo
organizzativo e nei rapporti interistituzionali dato che tutto quanto
riguardava i rapporti internazionali era tradizionalmente considerato
di competenza del Ministero degli affari esteri o comunque del
Governo, con la sostanziale pretermissione dal circuito decisionale
del Parlamento e di altri importanti soggetti istituzionali, come le
Regioni, in un contesto caratterizzato peraltro dalla assenza di una
autentica “cultura europea” in grado di agevolare la traduzione delle
“politiche comunitarie nel linguaggio e nei moduli procedurali,
organizzativi, funzionali tipici dell’amministrazione autonoma”.
Tuttavia l’incidenza delle norme
comunitarie sugli ordinamenti nazionali, parallela al progredire del
processo di integrazione europea, non poteva non porre con sempre
maggiore evidenza l’esigenza di un più efficace controllo parlamentare
sugli atti della Comunità.
Il problema del controllo parlamentare non
riguardava, peraltro, la sola fase di attuazione della normativa
comunitaria: in questa, infatti, il margine di discrezionalità
lasciato agli organi nazionali, quando pure c’è, è molto ristretto; si
trattava piuttosto, di garantire al Parlamento una precisa funzione
anche nella fase decisionale, attraverso una partecipazione -sia pur
indiretta- al “negoziato” a livello comunitario e più ampie
possibilità di partecipazione sia nella c.d. “fase ascendente”, cioè
di formazione della decisione a livello comunitario, sia per
l’attuazione delle norme comunitarie nella “fase discendente”.
2. Il ruolo del Parlamento.
In tal senso, una prima svolta si è avuta
con un complesso di leggi che hanno ampiamente modificato i rapporti
tra le Istituzioni nazionali e la Comunità.
Oltre alla legge sull’ordinamento della
Presidenza del Consiglio, n. 400 del 1988, la legge Fabbri n. 183/87 e
soprattutto la legge La Pergola n. 86/89, hanno profondamente innovato
i meccanismi di “partecipazione” nazionale al processo normativo
comunitario, ed i criteri di applicazione in sede nazionale degli atti
normativi e degli interventi, anche finanziari, approvati dalla
Comunità.
In particolare, la legge “La Pergola” (n.
86/89), ponendosi nella stessa ottica della legge Fabbri (protesa alla
ricerca di più adeguati rapporti tra l'Italia e la Comunità) ha
migliorato certamente gli strumenti di recepimento delle direttive
comunitarie, ma ha anche prefigurato un assetto definito delle forme
di partecipazione e delle modalità di intervento delle amministrazioni
nazionali nel processo normativo.
La pietra angolare del sistema è
costituita dalla “legge comunitaria”, con la quale si è cercato di
trovare una soluzione “a regime” predisponendo una serie di strumenti
per il tempestivo recepimento, delle direttive CEE ed EURATOM e delle
raccomandazioni CECA. Il “sistema” previsto pur facendo perno sulla
legge comunitaria, risulta piuttosto articolato: attuazione diretta
con norme della stessa legge; delega, se necessario (o addirittura
qualche intervento legislativo ad hoc); attuazione con regolamento del
Governo, con effetti anche delegificanti; attuazione da parte delle
Regioni (immediata da parte di quelle a statuto speciale nelle materie
di loro competenza esclusiva; nell'ambito delle disposizioni della
legge comunitaria da parte di tutte le altre Regioni, nelle materie di
competenza concorrente); recepimento mediante semplici atti
amministrativi (normalmente decreti ministeriali) per “materie
particolari”.
Tuttavia, malgrado i timidi progressi
registratisi con l’entrata in vigore della legge La Pergola, in
termini generali il problema della individuazione di adeguati
meccanismi di coordinamento nell’ambito delle singole amministrazioni
competenti in materia comunitaria è rimasto di fatto a lungo
irrisolto.
Può dirsi così che l’applicazione della
legge La Pergola seppur ha prodotto un miglioramento degli strumenti
di recepimento delle direttive comunitarie, non è tutto sommato
servita a definire un quadro organico e un assetto complessivo ed
ordinato dell’azione delle istituzioni nazionali nei confronti della
Comunità.
In particolare è quasi totalmente fallito
l’obiettivo di assicurare una significativa partecipazione del
Parlamento alla fase ascendente dei processi decisionali comunitari e,
conseguenzialmente, un maggiore spazio alla attività legislativa
rispetto a quella di controllo ed indirizzo: ciò del resto è
indirettamente confermato dal fatto che lo strumento della legge
comunitaria annuale, per come disciplinato dalla legge 9 marzo 1989,
n. 86 e per la sua concreta utilizzazione nella prassi legislativa è
stato in genere valutato con riferimento alla sua capacità di
assicurare un tempestivo adeguamento dell’ordinamento italiano alla
normativa comunitaria e di reinserire, nel contempo, le assemblee
parlamentari all’interno del circuito decisionale nazional-comunitario,
-qui visto nella sua “fase discendente”- e nei processi di attuazione
del diritto comunitario, che vedevano il Governo come naturale e
pressoché esclusivo protagonista. Né può dirsi certo che l’altro
obiettivo -quello di assicurare lo smaltimento dell’arretrato di
direttive già scadute e ancora da attuare nell’ordinamento italiano,
con ciò rimediando al poco lusinghiero primato italiano di ricorsi per
inadempienze e di condanne da parte della Corte di giustizia delle
Comunità europee e tentando altresì di garantire, in futuro, il
periodico adeguamento dell’ordinamento nazionale a quello comunitario-
sia stato centrato.
Infatti se con la legge La Pergola “viene
previsto che l’adeguamento periodico dell’ordinamento nazionale
all’ordinamento comunitario possa avvenire, a seconda di quanto
determinato dalla legge comunitaria annuale, non solo attraverso
disposizioni direttamente modificative-abrogative di leggi, o
attraverso il conferimento di deleghe legislative al Governo, o ancora
attraverso atti amministrativi, ma anche mediante l’autorizzazione al
Governo ad attuare in via regolamentare la normazione comunitaria,
previa (eventuale) delegificazione della materia…”, non può non
aderirsi a quella dottrina che giudica negativamente i meccanismi
introdotti che per un verso trasformano “la procedura comunitaria.…in
un vero procedimento di procedimenti”
per l’altro si caratterizzano per essere un insieme di disposizioni
normalmente “eterogenee e prive di collegamento strumentale
finalistico, accomunate esclusivamente dall’essere proposte in
adempimento dell’obbligo di adeguamento del diritto interno a quello
comunitario”.
3. Coordinamento delle politiche comunitarie e partecipazione delle
amministrazioni pubbliche nazionali alla formazione ed attuazione del
diritto comunitario.
I processi di integrazione in atto
manifestano una singolare attitudine ad attrarre nell’ambito
dell’influenza europea interessi pubblici tradizionalmente propri
degli stati nazionali: ciò implica per un verso una graduale
affermazione della tendenza a prevedere (in sede europea) obblighi di
facere e non di semplice astensione a carico degli stati membri; per
l’altro richiede l’instaurazione (e l’incentivazione) di rapporti
continuativi ed efficienti tra gli apparati statali e quelli europei.
Sul piano interno tuttavia a lungo è
rimasta senza riscontro l’esigenza di un rafforzamento delle strutture
del Dipartimento per le politiche
comunitarie e della funzione di coordinamento
effettivo da parte del Presidente del Consiglio o del ministro ad hoc
per le politiche comunitarie da lui delegato;
ove a ciò si aggiunga la scarsa incidenza dell’attività parlamentare
di indirizzo e controllo e, più in generale, il mancato tempestivo
coinvolgimento del Parlamento in materia comunitaria, non può certo
stupire il fatto che sia in fase ascendente che in fase discendente il
nostro paese si trovi costantemente in ritardo rispetto agli altri
partners europei.
Come già accennato infatti, la risposta
dello Stato italiano ai problemi connessi al processo di integrazione
è stata del tutto inadeguata e si è di fatto concretata in una (non
sufficientemente ponderata) creazione di nuove strutture e competenze,
le quali si sono aggiunte alle precedenti, per stratificazioni
successive, senza apprezzabili tentativi di razionalizzazione. Una
conferma esemplare di quanto appena segnalato è costituita dal modo in
cui è stato affrontato uno dei maggiori nodi del rapporto tra l’Italia
e l’Unione: quello del coordinamento dei diversi attori nazionali
coinvolti nei processi di formazione ed attuazione delle decisioni
comunitarie.
In questa materia, infatti, la
sovrapposizione e la confusione delle competenze costituisce la
regola, funzioni generali di indirizzo e coordinamento spettando,
oltre che al Presidente del Consiglio ed al Consiglio dei Ministri, al
Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie, al
Ministero degli affari esteri ed al CIPE.
E’ evidente che la pluralità dei titolari comporta nel migliore dei
casi dispersione delle responsabilità, ma spesso concreta il mancato
esercizio della funzione. E del resto alla tecnica della
sovrapposizione non si è rinunziato neppure quando esistevano tutte le
premesse oggettive per una razionalizzazione del sistema.
Esemplificativa in tal senso è la creazione del Dipartimento per il
coordinamento delle politiche comunitarie, un organismo, cioè, che,
essendo chiamato a funzioni di ordine tendenzialmente generale, non
avrebbe potuto -né dovuto- essere semplicemente giustapposto
all’esistente, ma ne avrebbe richiesto la riforma, che tuttavia è
mancata.
Con la conseguenza che il Dipartimento è stato costretto a ricercare
il proprio spazio operativo “concorrendo” con altri apparati, e, in
particolare, con il Ministero degli affari esteri, chiamato -dalla
normativa previgente- ad una serie di funzioni che avrebbero dovuto
essere assorbite dalla nuova struttura. Si è determinata, quindi, una
situazione la cui irrazionalità è manifesta: Dipartimento e Ministero
hanno condiviso senza una precisa distinzione di ruoli e con raccordi
confusamente definiti dalla normativa, la funzione di coordinare le
amministrazioni di settore interessate dall'azione comunitaria.
A ben guardare, peraltro, l’unico criterio
di effettiva distinzione tra le loro competenze può essere ricercato
lungo la linea che divide la fase ascendente da quella discendente del
processo di formazione-attuazione delle decisioni comunitarie. Si
tratta, tuttavia, di un criterio tutt'altro che soddisfacente. Per un
verso è, infatti, noto che la netta scissione tra i due momenti
costituisce una delle maggiori cause, oltre che dell'inefficacia della
politica comunitaria del nostro paese, dell'elevato tasso di
inadempienza che la contrassegna; per l’altro, va sottolineato come la
scarsa presenza delle istituzioni nazionali al procedimento normativo
comunitario (cioè la c.d. fase ascendente) ha prodotto i maggiori
insuccessi del nostro Paese nel rapporto con l’Unione europea,
determinando una “costituzionale” incapacità dell’Italia ad utilizzare
adeguatamente le risorse comunitarie. In realtà la distinzione di
ruoli su tale base risulta molto meno netta di quanto non potrebbe a
prima vista apparire. Non solo perché il Dipartimento non è
completamente estraneo alla fase ascendente (concorrendo
all'elaborazione della posizione negoziale dell'Italia ed essendo
l’interlocutore istituzionale di alcuni degli attori coinvolti nel
processo: il Parlamento e le Regioni); ma anche -e soprattutto- per il
ruolo che entrambe le strutture giuocano nei rapporti con le
amministrazioni di settore. Basti pensare che taluni uffici hanno
tradizionalmente intrattenuto relazioni con il Ministero degli affari
esteri, mentre altri hanno trovato il proprio referente principale nel
Dipartimento. E questo al di fuori di un disegno di cui sia dato
decifrare la logica interna.
4. Le prospettive di riforma: profili generali.
Da tempo ormai la modifica della legge La
Pergola (l. n. 86/89, recante norme sulla partecipazione dell’Italia
al processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione
degli obblighi comunitari)
è entrata stabilmente nella agenda delle riforme.
Da più parti infatti è stato sottolineato
come tra la “fase ascendente”, di formazione del diritto comunitario,
e quella “discendente”, di attuazione ed implementazione delle norme
poste dall’Unione europea, esista un intimo collegamento che va oltre
i profili strettamente procedimentali: la scarsa o inadeguata
partecipazione delle amministrazioni nazionali al processo di
formazione della norma comunitaria si ripercuote inevitabilmente in
fase attuativa.
Tale idea, ormai ampiamente diffusa,
merita tuttavia qualche ulteriore svolgimento anzitutto con
riferimento al rapporto tra le due “fasi” ed ai molti e complicati
problemi che l’attuale assetto delle fonti comunitarie determina.
In proposito si può osservare come le due
fasi presentino un’evidente differenza: la prima implica un’attività
degli organi dell’Unione, alla quale gli stati membri collaborano
mediante atti di vario genere, con la presenza dei propri
rappresentanti a Bruxelles e soprattutto attraverso le prese di
posizione dei ministri che siedono in quanto tali nel Consiglio; la
seconda implica soltanto attività degli organi dello Stato da
esercitare in base all’ordinamento costituzionale (ed eventualmente
suscettibili di determinare responsabilità per inadempimento degli
obblighi comunitari da parte dello Stato stesso).
Ciò ha fatto sì che la prassi si sia
sviluppata nel senso di lasciar sussistere una netta separazione delle
due fasi, la seconda delle quali si sviluppa come una fase autonoma,
in parte condizionata dai risultati della prima, ma rivolta al
perseguimento di obiettivi potenzialmente anche diversi, se non
addirittura opposti.
Sembra evidente, invece, che molti
inconvenienti sarebbero evitati se l’attività svolta nell’ambito della
fase ascendente dagli organi del Governo italiano per cercare di
influenzarne l’esito in senso conforme agli indirizzi politici da essi
adottati e l’attività di preparazione delle misure di attuazione delle
norme comunitarie si svolgessero nel modo più strettamente coordinato
possibile, dimodochè, già nel corso della fase ascendente e per ogni
singolo provvedimento comunitario, il Governo italiano avesse un
quadro aggiornato dei problemi che deriverebbero, sul piano interno,
dalle diverse ipotesi delineate e dalle possibili soluzioni, così da
arrivare al momento dell’approvazione dell’atto normativo comunitario
con un quadro già sufficientemente definito delle misure da adottare
in sede attuativa.
Soprattutto per quanto riguarda le
direttive, questo coordinamento delle attività proprie delle due fasi
appare per molti versi essenziale, in quanto consentirebbe, tra
l’altro, di tenere conto fin dalla fase della partecipazione alla
produzione degli atti comunitari del punto di vista di tutti quei
soggetti che hanno titolo ad essere consultati (o addirittura a
deliberare) nella fase discendente, attenuando così il rischio che
questa si risolva di fatto in un’attività tendente a disfare ciò che è
deciso a livello europeo.
Ove invece fosse possibile far sì che il
lavoro di predisposizione dei progetti di misure attuative progredisse
di pari passo allo sviluppo del lavoro di preparazione ed approvazione
degli atti comunitari, cosicché al momento in cui questi ultimi sono
emanati si avesse già un quadro sufficientemente preciso di ciò che
occorre per la loro attuazione, sarebbe possibile dedicare alla
preparazione delle relative misure il tempo corrispondente al termine
previsto per l’entrata in vigore (che nel caso delle direttive tiene
generalmente conto di questa esigenza), onde far sì che le misure
attuative entrino in vigore contemporaneamente alle norme comunitarie.
Naturalmente questa riorganizzazione
dell’attività di attuazione degli obblighi comunitari dovrebbe
avvenire senza ridurre in alcun modo le forme di consultazione già
attualmente previste, le quali comportano la partecipazione alla fase
ascendente, in varie forme, del Parlamento, delle Regioni e di altre
istituzioni. Alcune di queste forme di partecipazione dovrebbero anzi
essere certamente potenziate in corrispondenza della realizzazione dei
progetti di revisione costituzionale attualmente in corso di esame.
E’ necessario quindi operare modificazioni
nei meccanismi di trasposizione del diritto comunitario e di una
regolamentazione dei rapporti tra i diversi soggetti che partecipano
alla definizione e all'attuazione del diritto comunitario che trovi
una qualche forma di stabilizzazione costituzionale. A questo
proposito, non mancano gli esempi stranieri ai quali ispirarsi, sia
per quanto riguarda il coinvolgimento del Parlamento, sia per quanto
concerne il ruolo delle Regioni (ad esempio, Francia e Germania).
Ora non vi è dubbio che considerato nel
complesso, l'apparato normativo che disciplina, in Italia, la
partecipazione alla fase di elaborazione del diritto comunitario
appare non del tutto idoneo a garantire una sufficiente rappresentanza
di tutti gli interessi coinvolti. Esistono certamente margini di
miglioramento, soprattutto per quanto riguarda il diretto
coinvolgimento delle parti sociali, ma sotto l'aspetto normativo il
reale passo in avanti da compiere è anzitutto legato all'effettiva
attivazione delle disposizioni già esistenti, che potrebbero
eventualmente essere consolidate in un testo organico.
Il vero nodo da sciogliere per migliorare
la partecipazione dell'Italia alla fase ascendente del processo
normativo comunitario è certamente quello dell'individuazione di un
centro governativo che sia in grado di coordinare le indicazioni di
tutti gli attori interessati (Parlamento, amministrazioni centrali,
amministrazioni locali, parti economiche e sociali).
In tale ottica, occorre anzitutto porre
rimedio alla tradizionale scarsa rappresentatività delle delegazioni
italiane in sede comunitaria: tali delegazioni, infatti, sono di
regola pletoriche e generalmente disinformate.
Ciò vale in particolare nella fase
ascendente, dove occorre definire la posizione comune che sarà poi
presentata a Bruxelles: in questo modo il negoziatore della posizione
italiana avrebbe piena cognizione di tutti gli interessi coinvolti,
per rappresentarli e difenderli al meglio. La risoluzione di questo
nodo è tanto più necessaria se si considera che l'estensione del voto
a maggioranza qualificata renderà ancora più vulnerabili i paesi non
ben preparati a rappresentare i loro interessi, in quanto non avranno
più in seno al Consiglio il potere di veto oggi esistente, che dovrà,
dunque, essere compensato con una forte presenza nella fase
ascendente.
Bisogna peraltro considerare con
attenzione i tempi di definizione della posizione italiana sulle
proposte della Commissione. Il più delle volte le proposte normative
della Commissione, una volta formalizzate e presentate al Consiglio e
al Parlamento europeo, non presentano più margini effettivi di
intervento per una negoziazione. È quindi necessario che la posizione
italiana sia definita in tempo, per intervenire nell'elaborazione
delle proposte all'interno della Commissione. Ciò presuppone
essenzialmente l'esame da parte degli attori interessati - e la
correlata attività di coordinamento - sia del programma legislativo
annuale della Commissione (nel quale sono anticipate le intenzioni
legislative della Commissione), sia dei libri verdi e dei libri
bianchi, sui quali è sempre più spesso la Commissione stessa ad
avviare consultazioni.
La strada da seguire potrebbe essere
quella di affidare in via definitiva al Dipartimento per le politiche
comunitarie il compito di coordinare e definire la posizione italiana
fin dallo stato primario delle proposte normative della Commissione
europea, riservando agli organi del Ministero degli affari esteri la
conduzione del negoziato su di esse. Ciò garantirebbe la possibilità
di delineare comunque una posizione unitaria sul negoziato, superando
possibili divergenze tra i punti di vista dei diversi attori. D'altra
parte, la conduzione del negoziato da parte degli organi del Ministero
degli affari esteri - eventualmente integrati da rappresentanti del
Dipartimento - consentirebbe un corretto inquadramento del negoziato
stesso nel complesso delle politiche dell'Unione.
Va inoltre sottolineato come una definita
e tempestiva posizione consentirebbe al Ministero degli affari esteri
di esplicare con maggiore efficacia il proprio ruolo nella fase di
preparazione delle proposte normative della Commissione europea. E’
questo infatti un passaggio assai delicato rispetto al quale il
Governo italiano è spesso in forte ritardo e che implica contatti
continui e informali a livello sia di servizi sia di gabinetti della
Commissione. Partecipare efficacemente a queste trattative significa
non essere poi costretti ad un difficile recupero nella fase di vero e
proprio negoziato in seno al Consiglio.
Inoltre, sempre per quanto riguarda la
fase ascendente, appare necessario stabilire le forme di un
coinvolgimento attivo del Parlamento nella partecipazione alla
definizione delle norme comunitarie, attraverso una valorizzazione e
parziale integrazione dell'apparato normativo già esistente, che
peraltro è rimasto in gran parte inattuato; il Parlamento del resto è
il soggetto maggiormente legittimato a formulare indirizzi al Governo
per il negoziato, e per questo deve essere debitamente informato.
D'altra parte, nel contesto europeo è
ormai consolidata la tendenza a coinvolgere maggiormente i Parlamenti
nazionali nell'indirizzo politico e nella formazione degli atti
normativi comunitari: in particolare, il Protocollo sul ruolo dei
Parlamenti nazionali allegato al Trattato di Amsterdam prevede un
intervallo di sei settimane tra la data di presentazione di una
proposta legislativa al Parlamento europeo e al Consiglio da parte
della Commissione, e la data di iscrizione della proposta all'ordine
del giorno del Consiglio. Di più: il ruolo dei parlamenti nazionali
della riforma dell’Unione è ora ampliamente riconosciuto nel progetto
di costituzione europea predisposto dalla Convenzione attraverso il
miglioramento attraverso il miglioramento delle forme di controllo dei
Parlamenti sui Governi; il ruolo riconosciuto alle assemblee
parlamentari nel controllo sull’effettivo rispetto del principio di
sussidiarietà; la prefigurata introduzione dell’early warning system
(allarme preventivo).
In altri termini, si avverte forte
l'esigenza che il Parlamento sviluppi un interesse costante per le
norme comunitarie in fase di elaborazione, maturando una vera e
propria cultura di partecipazione alla fase ascendente. Se, infatti,
il Governo si è mostrato inadempiente nell'informare il Parlamento, è
anche vero che le Camere non hanno sfruttato gli strumenti previsti
dai rispettivi regolamenti per partecipare attivamente alla fase
ascendente.
Quanto, invece, alla fase discendente, le
proposte di riforma del quadro normativo riguardano gli strumenti
previsti dalla “legge La Pergola”. In particolare, se le direttive
sono obbligatorie per lo Stato e se queste, nella fase ascendente,
sono state direttamente ricevute dal Parlamento (così si esprime il
protocollo 2 allegato al trattato di Amsterdam), è possibile
addivenire ad un recepimento sistematico delle direttive in modo
semplificato mediante una estensione dei casi di attuazione in via
regolamentare, salvo casi di riserve assolute di legge o di
particolare importanza delle direttive da attuare.
Si potrebbero, pertanto, prevedere
modifiche della legge n. 86 del 1989 volte al potenziamento delle
modalità di attuazione rappresentate dalla normazione diretta e
dall'attuazione in via regolamentare, restringendo al massimo il
ricorso alle deleghe legislative cumulative, ossia alle deleghe
legislative con principi e criteri direttivi validi per una pluralità
di direttive, cui andrebbero preferite, semmai, puntuali deleghe
legislative per l'attuazione di singole direttive.
Sarebbe, inoltre, necessario introdurre
nella legge La Pergola una disposizione che affidi alle leggi
comunitarie annuali il compito di favorire, attraverso l'emanazione di
testi unici legislativi o regolamentari, il raccordo fra la normativa
che si introduce in attuazione di direttive comunitarie e
l'ordinamento interno, ponendo particolare attenzione ai profili della
semplificazione normativa e dell'analisi di impatto della
regolamentazione recata dalla normativa di derivazione comunitaria.
Quanto poi alle Regioni
esse hanno già notevoli possibilità di intervento nella fase
ascendente, pur se la scarsa conoscenza di tali norme da parte delle
amministrazioni regionali si traduce in una marcata debolezza della
partecipazione delle Regioni al negoziato comunitario, che però
potrebbe essere parzialmente ridotta con l'esercizio effettivo delle
prerogative previste dalla legge. Le soluzioni al problema quindi non
possono essere ricercate soltanto nel “nuovo” assetto costituzionale
delineatosi dopo la riforma del titolo V, ma implicano piuttosto
l’ammissione di un diverso costume nei rapporti comunitari delle
regioni.
In particolare, dovrebbe essere
incrementata la presenza di uffici di rappresentanza a Bruxelles, dove
non tutte le regioni sono presenti: la presenza diretta sul luogo del
negoziato rende infatti più incisiva la possibilità di rappresentare i
propri interessi. Peraltro, appare necessario un maggiore collegamento
e coordinamento tra gli uffici attualmente presenti a Bruxelles, la
cui azione risulta inefficace anche a causa dell’incapacità di
funzionare come sistema: ogni singola regione, ogni singolo ufficio
che negozi da solo si trova inevitabilmente in una situazione di
inferiorità. Non può sottacersi peraltro come spesso l'azione
unilaterale delle singole regioni rischia di portare alla
rappresentazione di interessi configgenti, non agevolmente
armonizzabili in una posizione comune.
Se, dunque, la presenza delle regioni a
Bruxelles ha una valenza positiva, perché consente loro di essere più
vicine ai problemi da affrontare, d'altro canto occorre pensare ad
un'organizzazione dell'azione di tali rappresentanze di modo che la
loro posizione presenti un profilo tendenzialmente comune sul piano
della rappresentazione degli interessi degli enti sub-statali, e si
configuri come raccordata - o quanto meno armonizzabile - con la
posizione italiana nel suo complesso.
Il luogo di naturale sintesi di tali
processi deve essere la sessione comunitaria della Conferenza
Stato-Regioni; ma in seno ad essa dovrebbe essere meglio elaborata la
posizione delle regioni da far valere nel negoziato. Questa soluzione
presenterebbe, tra l'altro, il vantaggio di riportare al coordinamento
del ministro per le politiche comunitarie le indicazioni delle
regioni, con ciò rafforzando il ruolo di definizione unitaria della
posizione negoziale italiana da affidare al Dipartimento per le
politiche comunitarie. Va rilevato tuttavia come la scarsa attitudine
mostrata sinora dalla Conferenza Stato-Regioni ad assolvere, in
materia comunitaria, alla funzione propria degli organismi cooperativi
vada forse ricercata nella assenza di una coesione interregionale, del
tipo di quella che, ad esempio, esiste nell’ordinamento tedesco, in
ragione delle peculiari strutture organizzative in esso esistenti e
della prassi di autocoordinamento tra i livelli regionali, che invece
in Italia o quasi del tutto assente.
L’assenza di coesione incide infatti con
tutta evidenza sul mancato sviluppo di un modello autenticamente
cooperativo e sulla conformazione dei rapporti intergovernativi nella
fase ascendente di formazione della volontà statale in materia
comunitaria, consentendo la permanenza, a livello statale, di una
posizione di netta supremazia, che va molto al di la di quella che
pure gli spetta, nei rapporti con le regioni, nelle questioni
internazionali e sopranazionali.
Sotto altro profilo, non vi è dubbio che
deve essere ulteriormente rafforzato il collegamento con i
rappresentanti italiani nelle istituzioni dell'Unione europea.
Una funzione essenziale, a questo
riguardo, deve svolgere il Parlamento, sia attraverso un rapporto
costante di scambio di indicazioni e informazioni tra i suoi organi e
gli europarlamentari italiani, sia attraverso contatti frequenti con
la Commissione europea: sotto questo profilo andrebbe incrementata la
prassi di svolgere incontri tra le Commissioni parlamentari e
rappresentanti italiani alle istituzioni comunitarie; e, sempre in tal
senso, va sottolineato come la Rappresentanza permanente, oltre a
svolgere un compito di legame organico con il Consiglio, dovrebbe
avere un peso decisivo nel riversare sia al Parlamento europeo sia
alla Commissione (soprattutto nella fase di predisposizione delle
proposte normative) la posizione negoziale definita in sede nazionale.
In linea generale, la descritta situazione di forte supremazia dello
Stato, nei confronti delle Regioni italiane - a mio avviso non
intaccata sostanzialmente dalla riforma del Titolo V della
Costituzione - dovrebbe ispirare le proprie attività ed il proprio
ruolo di coordinamento ad una filosofia maggiormente cooperativa,
nella fase di adempimento degli obblighi comunitari. Sul versante
statale, in particolare, il rispetto del principio di leale
collaborazione dovrebbe ispirare lo stato nella materiale redazione
delle leggi di recepimento, imponendo come contenuto obbligatorio di
tali leggi solo ed esclusivamente effettive norme di principio.
Sul versante regionale un comportamento
delle regioni realmente ispirato al principio di leale collaborazione
dovrebbe comportare innanzitutto una tempestiva ed efficiente
esecuzione delle norme comunitarie al fine precipuo di evitare
responsabilità dello stato nei confronti degli organi comunitari per
inadempimento. All’interno di questa impostazione cooperativa dei
rapporti tra stato e regioni troverebbe allora pieno fondamento il
riconoscimento allo stato dei poteri sostitutivi nei confronti delle
regioni che non adempissero prontamente agli obblighi comunitari
derivanti direttamente dalle norme comunitarie o dalle leggi statali
di recepimento.
Se è infine necessario migliorare la
presenza italiana negli apparati amministrativi della Commissione,
appare auspicabile anche un coinvolgimento diretto delle parti
economiche e sociali nella definizione della posizione negoziale
italiana, affidando al Dipartimento per le politiche comunitarie il
compito istituzionale di procedere ad una loro regolare consultazione.
A questo fine appare indispensabile individuare una rappresentanza
significativa, capace di dialogare in forma stabile con il
Dipartimento, per il necessario coordinamento delle posizioni
espresse, anche al fine di superare l'attuale situazione, in cui
soltanto taluni interessi - che spesso non rispondono a quelli
generali del sistema-Italia - trovano espressione nelle sedi del
negoziato comunitario.
Su tali possibili sviluppi è peraltro
ormai da tempo aperto il dibattito tra gli operatori del diritto. In
molti convergono ad esempio sulle utilità di una riforma che preveda
l’adozione, per l'attuazione delle direttive incidenti su settori di
particolare complessità normativa o strategici dal punto di vista
ordinamentale e socio-economico, di autonomi provvedimenti
legislativi. Un'interpretazione « virtuosa » della funzione propria
della legge comunitaria quale strumento di ordinario, ma non
esclusivo, recepimento delle direttive comunitarie avrebbe, oltre
tutto, il vantaggio di alleggerire tale strumento, liberandolo dalle
questioni che, per il grado di complessità o di rilevanza politica,
economica o sociale, potrebbero rallentarne l’iter parlamentare, con
effetti negativi sull'intero programma di recepimento delle restanti
direttive in scadenza.
5. I progetti di legge attualmente all’esame del Parlamento.
A cavallo tra la XIII e la XIV legislatura
sono state presentate in Parlamento tre distinte proposte di legge: la
n. 3310 (Modifiche alla legge 9 marzo 1989, n. 86, recante norme
generali sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo
comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari)
di iniziativa parlamentare e la n. 3123 (Modifiche ed integrazioni
alla legge 9 marzo 1989, n. 86, recante norme generali sulla
partecipazione dell'Italia al processo normativo comunitario e sulle
procedure di esecuzione degli obblighi comunitari), di iniziativa
governativa,
cui è stato affiancato il progetto di legge C 3071 recante
Modifiche alla legge 9 marzo 1989, n. 86, concernenti il rafforzamento
della partecipazione dell’Italia al processo di formazione delle
decisioni dell’Unione Europea. Delle proposte, per le quali
l’Assemblea ha ritenuto opportuno disporre la discussione congiunta, è
stato elaborato dalla Commissione permanente Politiche dell’Unione
Europea della Camera dei Deputati un testo unificato, approvato in
prima lettura alla Camera dei Deputati il 3 luglio 2003 e trasmesso al
Senato, ove è attualmente in discussione (S. 2386 - Norme generali
sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo dell'Unione
europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari).
Nelle linee generali, va rilevato come le
proposte di legge presentate in Parlamento si muovono in sintonia con
le conclusioni dell'Indagine conoscitiva sulla qualità e sui modelli
di recepimento delle direttive comunitarie svolta dalla XIV
Commissione della Camera dei deputati, approvata nella seduta dell'11
ottobre 2000, facendo proprie alcune soluzioni prefigurate nella
precedente legislatura (atti Camera nn. 7171, 7504 e 7546).
Le proposte continuano ad individuare nella legge comunitaria lo
strumento privilegiato per il sistematico recepimento delle direttive
in scadenza, alla luce della natura che essa riveste, che consente al
Parlamento di esercitare in via preventiva un controllo sui
presumibili effetti che la trasposizione di ciascuna direttiva potrà
produrre sull'ordinamento e di coordinare l'insieme dei procedimenti
attuativi cui è chiamato il Governo nella fase successiva.
La finalità comune dei vari interventi
legislativi prefigurati si riconnette in linea generale, alla esigenza
di definire una nuova cornice di riferimento relativamente alla
partecipazione del Parlamento, delle Regioni, degli enti locali e
delle parti sociali al processo decisionale dell’Unione ed alla fase
di attuazione degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia
all’Unione europea, per il tramite della introduzione di una normativa
di natura organizzatoria e procedimentale, che riconduca alla sede
parlamentare la visione unitaria del processo di adeguamento
dell'ordinamento nazionale all'ordinamento comunitario e che, in ogni
caso, non escluda la possibilità di attuazioni specifiche di singole
direttive con autonomi provvedimenti legislativi nell'esame dei quali
il Parlamento assuma in pieno il ruolo di legislatore “sostanziale”.
Di fondamentale importanza è la previsione di strumenti, comuni alle
proposte di legge, atti a soddisfare la necessità di rimarcare
maggiormente nell'impianto della legge La Pergola il nesso funzionale
tra partecipazione alla fase ascendente delle direttive e loro
successiva trasposizione nell'ordinamento nazionale, sulla scorta del
rilievo secondo cui una più incisiva partecipazione alla fase
ascendente consente di evitare che una debole rappresentazione degli
interessi nazionali nella fase di elaborazione delle norme comunitarie
si ripercuota criticamente sulla fase discendente, convogliando in
quest'ultima rivendicazioni e aspettative non soddisfatte dalla
normativa europea. I progetti tendono, quindi, a valorizzare il ruolo
del Parlamento nel recepimento e nell'attuazione della normativa
comunitaria attraverso il potenziamento del ruolo delle Commissioni
parlamentari, chiamate ad esprimere un parere vincolante sia sugli
atti normativi e di indirizzo dell'Unione europea e delle Comunità
europee sia sugli schemi di regolamento di attuazione delle direttive
comunitarie sia infine sulle decisioni delle Comunità europee:
strumentale alle previsioni richiamate è il rafforzamento degli
obblighi di comunicazione in capo al Governo, comune ai progetti dei
legge in esame.
Le proposte di legge disciplinano inoltre,
con previsioni in parte comuni, la partecipazione delle Regioni e
delle Province autonome alla procedura di formazione della normativa
comunitaria, ampliandone i contenuti e prevedendo la trasmissione
contestuale alle regioni, alle province autonome e al CNEL dei
medesimi documenti trasmessi alle Camere e, per altro verso,
riconoscendo un ruolo nella fase ascendente anche alle parti sociali,
benché condizionata alla convocazione, da parte del Presidente del
Consiglio o del Ministro per le politiche comunitarie, apposite
sessioni semestrali di confronto.
Allo scopo di definire una nuova cornice
normativa relativa, da una parte, alla partecipazione del Parlamento,
delle Regioni, degli enti locali e delle parti sociali al processo
decisionale dell’Unione europea e, dall’altra, alla fase di
recepimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia
all’Unione,
la Commissione Politiche dell’Unione Europea della Camera dei Deputati
ha elaborato un testo unificato delle proposte di legge in esame in
Parlamento che, in controtendenza con gli interventi legislativi degli
ultimi anni, non opera alcun intervento modificativo o integrativo
della legge La Pergola ma la abroga, sostituendosi ad essa. La
Commissione ha avviato l’esame dei progetti di legge nel novembre del
2002 deliberando di costituire un Comitato ristretto per
l’elaborazione di un testo unificato, che ha iniziato i propri lavori
in dicembre. Al fine di accompagnare la definizione di un testo
unificato ad un adeguato approfondimento istruttorio delle
problematiche affrontate, che prevedesse un coinvolgimento dei
soggetti maggiormente interessati dalle tematiche in esame, si è
convenuto di deliberare lo svolgimento di un’indagine conoscitiva
sulle «questioni inerenti al processo di formazione e di attuazione
delle politiche dell’Unione europea». Nel corso dell’esame svolto
dalla XIV Commissione, sia nell’ambito del Comitato ristretto sia in
sede referente, è stata posta una specifica attenzione anche alle
procedure ed ai meccanismi adottati negli altri Paesi membri
dell’Unione europea in modo da trarre spunti di riflessione per la
definizione del nostro «sistema di partecipazione» con particolare
riferimento alle best practices adottate.
Il provvedimento tende ad adeguare la
normativa vigente sia al nuovo assetto costituzionale conseguente
della Costituzione al nuovo Titolo V sia al processo di definizione di
una nuova architettura europea in un’Europa a venticinque Stati:
l’esigenza di interventi di modifica della legge La Pergola, infatti,
è oramai indilazionabile, per un verso, a seguito del cambiamento del
contesto istituzionale conseguente alle modifiche costituzionali - in
quel contesto, la relazione illustrativa che accompagna la più volte
citata legge 5 giugno 2003 n. 31, recante Disposizioni per
l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 rinvia il compiuto
“soddisfacimento della lettera del nuovo dettato costituzionale sul
ruolo delle Regioni nelle fasi cosiddetta ascendente e discendente del
diritto comunitario” alla emanazione di ulteriori norme attuative,
ravvisandone la naturale collocazione nei progetti di riforma della
legge La Pergola - per l’altro, in considerazione del processo di
riforma dell’Unione europea avviato con la Dichiarazione sul futuro
dell’Unione Europea di Nizza del novembre 2000 e che dovrebbe
concludersi quanto prima con l’adozione del Trattato che istituisce
una Costituzione per l’Europa, predisposta dalla Convenzione europea,
da parte della Conferenza intergovernativa che si è aperta -sotto la
presidenza italiana- a Roma il 15 ottobre 2003.
La relazione che accompagna il testo
unificato elaborato dalla Commissione permanente descrive i meccanismi
di partecipazione delle amministrazioni
nazionali alle procedure di formazione ed attuazione del
diritto comunitario: sotto il profilo della partecipazione alla
fase «ascendente», il testo unificato elaborato dalla Commissione
tende a rafforzare i meccanismi di informazione dei soggetti coinvolti
nelle procedure di formazione del diritto di fonte sovranazionale,
ponendo a carico del Governo obblighi di informazione - tempestiva ed
adeguata - sia sulle materie inserite all’ordine del giorno delle
riunioni del Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea sia sugli atti
presentati in sede comunitaria, in modo da assicurare alle Camere,
alle Regioni ed agli enti locali la possibilità di intervenire con più
efficacia nelle fasi di maggiore rilievo dell’iter per la loro
adozione.
In particolare, l’art. 2 prevede “al fine
di concordare le linee politiche del Governo” relativamente al
processo normativo comunitario la istituzione, presso la Presidenza
del Consiglio dei Ministri, di un Comitato interministeriale per gli
affari comunitari (il C.I.A.C.E.), che si avvale per la preparazione
delle riunioni di un comitato tecnico permanente composto da
funzionari di particolare qualificazione tecnica, individuati dal
comma 4 dell’art. 2 in “direttori generali o altri funzionari con
qualificata specializzazione in materia, designati dalle
amministrazioni del Governo e, per le materie di competenza delle
regioni e delle province autonome, della conferenza dei Presidenti
delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano….”.
Il C.I.A.C.E si caratterizza inoltre per
la sua composizione variabile: ciò nel senso che, a fianco di ministri
espressamente richiamati nel progetto di legge (il ministro per gli
affari regionali, il ministro per gli affari esteri), sono chiamati a
farne parte di volta in volta i ministri competenti nelle materie che
costituiscono l’oggetto dei provvedimenti da adottare ed all’ordine
del giorno delle riunioni del comitato.
L’istituzione del Comitato, ove
effettivamente il progetto dovesse tramutarsi in legge dello Stato, dà
risposta ad una esigenza fortemente avvertita cui, per un certo tempo,
ha cercato di dare parziale riscontro il Dipartimento per le politiche
comunitarie attraverso la indizione di riunioni e tavoli di
concertazione con i vari attori istituzionali e non interessati alla
partecipazione al processo decisionale comunitario: ed in effetti il
comitato si configura, per le funzioni ad esso attribuite, quale
“cabina di regia” governativa con compiti di coordinamento degli altri
soggetti in materia comunitaria (Parlamento, Consiglio dei Ministri e
Conferenza Stato-regioni), nel rispetto delle competenze delle singole
istituzioni ed organismi.
La proposta di istituzione del Comitato
interministeriale per gli affari comunitari europei e del comitato
tecnico di supporto conferma una linea di tendenza: quella di
salvaguardare la centralità del Governo nel contesto delle relazioni
con le istituzioni comunitarie. Tale orientamento -che peraltro
costituisce una inevitabile conseguenza della stessa struttura del
processo decisionale comunitario, basato come è noto sul Consiglio-
non mortifica tuttavia le istanze partecipative degli enti sub-statali
al processo normativo comunitario: è infatti abbastanza comprensibile
che in “un sistema definibile come “policentrico” delle autonomie” ed
in cui si palesa come indispensabile la definizione di maggiori
garanzie di partecipazione per le “articolazioni territoriali dello
Stato alle decisioni di formazione degli atti comunitari”,
venga mantenuta una regia unitaria del processo, anche se solo a fini
di coordinamento.
In secondo luogo, e come già attualmente
previsto dalla legge La Pergola, si prevede che sui progetti e sugli
atti comunitari e dell’Unione Europea i competenti organi parlamentari
possano formulare osservazioni ed adottare ogni opportuno atto di
indirizzo al Governo.
Il testo unificato introduce, altresì, - come previsto da ciascuno dei
progetti di legge unificati – un nuovo, rilavante, istituto
nell’ordinamento italiano: la riserva di esame dei progetti di atti
comunitari, prevedendo che, qualora il Parlamento abbia avviato
l’esame di un progetto di atto comunitario, il Governo non possa
procedere alle relative decisioni in sede comunitarie sino a che il
Parlamento stesso non ne abbia concluso l’esame.
Viene inoltre riconosciuta alle Regioni
una posizione per molti versi analoga a quella del Parlamento, sia per
quanto riguarda le procedure di informazione, sia per le modalità di
intervento, sia per l’applicazione dello strumento della riserva di
esame. Al tempo stesso, nelle materie di competenza regionale, e
tenuto conto delle novità introdotte dalla riforma della Titolo V
della Costituzione, sono previsti meccanismi e modalità di intervento
che consentono alle Regioni ed alle Province autonome di svolgere la
propria attività sempre nel rispetto del principio dell’unitarietà
della responsabilità dello Stato italiano di fronte alle decisioni
comunitarie.
Quanto, infine, alla Relazione annuale
sulla partecipazione dell’Italia all’Unione europea, il testo
unificato ne integra ampiamente i contenuti richiedendo, in
particolare, che in essa siano specificamente indicati anche i pareri,
le osservazioni e gli atti di indirizzo delle Camere, nonché le
osservazioni della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e dei
Consigli regionali, in linea con quanto più volte evidenziato anche
nell’ambito della XIV Commissione.
Per quanto riguarda la fase discendente,
la legge comunitaria annuale rimane lo strumento privilegiato di
recepimento del diritto di fonte comunitaria - specularmente a quanto
prospettato in ciascuna delle proposte di legge sottoposte all’esame
della Commissione permanente – in ragione dei risultati che lo
strumento ha consentito di perseguire, tradottisi in una sensibile
riduzione del gap di recepimento delle direttive comunitarie da parte
del nostro Paese. Tenuto però conto del fatto che, nel corso della sua
applicazione, sono emersi alcuni aspetti che potrebbero rendere
necessari interventi sia di carattere normativo sia regolamentare al
fine di rendere tale strumento ancor più rispondente alle sue
finalità, nel testo unificato si apportano modifiche sostanziali alla
disciplina legislativa della fase discendente (contenuto della legge
comunitaria, procedure urgenti per l’adeguamento degli obblighi
comunitari, attuazione regolamentare ed amministrativa delle direttive
comunitari) e si provvede ad adeguare il contenuto dell’articolo 9
della legge n. 86 del 1989 al nuovo dettato costituzionale.
Quanto al primo aspetto, si prevede una razionalizzazione del
contenuto della legge comunitaria annuale definendo una sorta di
«contenuto proprio», alla stregua di quanto avviene per la legge
finanziaria, così da circoscrivere l’intervento normativo di tale
legge e fornire un’adeguata base normativa di riferimento per
l’ammissibilità degli emendamenti che risulti conforme presso i due
rami del Parlamento. Inoltre viene introdotta una procedura di urgenza
per l’adeguamento dell’ordinamento ad obblighi comunitari, attivabile
al di fuori delle procedure della legge comunitaria annuale nel caso
di scadenze che risultino anteriori alla data presunta di entrata in
vigore della legge comunitaria annuale.
Nel testo unificato viene, inoltre,
disciplinato l’esercizio del potere sostitutivo dello Stato, in
attuazione di quanto previsto dall’articolo 117, quinto comma, della
Costituzione. La disposizione prevede un intervento suppletivo
anticipato e cedevole da parte dello Stato, in caso di inerzia delle
Regioni nell’attuazione delle direttive: le disposizioni
aventi ad oggetto le materie rimesse alla competenza
legislativa – concorrente o residuale generale – delle Regioni o delle
province autonome si applicano, per le Regioni e le province autonome
nelle quali non sia ancora in vigore la prima normativa di attuazione,
a decorrere dalla scadenza del termine stabilito per l’attuazione
della normativa comunitaria e fino alla data di entrata in vigore
della normativa di attuazione adottata da ciascuna Regione e provincia
autonoma. Tale previsione viene in tale modo «istituzionalizzata» ed
estesa anche ai casi di attuazione regolamentare da parte dello Stato,
richiedendo, in tal caso, che sugli schemi si esprima la Conferenza
Stato-Regioni.
Nel progetto di legge si prevede altresì
la convocazione ogni sei mesi, anche su richiesta delle Regioni e
delle province autonome, della sessione comunitaria della Conferenza
Stato-Regioni nonché, almeno una volta all’anno o anche su richiesta
degli enti locali interessati, di una sessione speciale della
Conferenza Stato-città ed autonomie locali, dedicata alla trattazione
degli aspetti delle politiche comunitarie di rispettivo interesse; e
che il Governo informi le Camere e la Conferenza dei Presidenti delle
Regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano sui risultati
emersi durante tale sessione. Quanto infine al ruolo attribuito alle
Regioni, per quelle a statuto speciale si rinvia a quanto previsto nei
rispettivi statuti speciali e nelle relative norme di attuazione per
quanto riguarda la disciplina e le modalità di attuazione della
normativa comunitaria. Difficilmente percorribile evidentemente è
apparsa la possibilità di introdurre, ricorrendo ad una fonte diversa
dall’ordinaria legge dello Stato, specifiche (e differenziate) forme
di partecipazione alla formazione degli atti ed agli organi comunitari
per le Regioni a statuto speciale e le province autonome. Dagli
statuti speciali, infatti, non emerge la previsione di forme
particolari di autonomia direttamente collegabili alla «fase
ascendente» degli atti normativi comunitari; le attribuzioni
costituzionali in materia appaiono pertanto riconducibili, così come
per tutte le Regioni, al quinto comma dell’articolo 117 Cost., la cui
formulazione testuale («Le Regioni e le province autonome di Trento e
di Bolzano»), include espressamente gli enti territoriali ad autonomia
speciale e in tale comma la definizione delle norme di procedura (e le
modalità di esercizio del potere sostitutivo) sono rimesse a una legge
dello Stato.
____________________
A.S. 2386 -
Norme generali sulla partecipazione
dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle
procedure di esecuzione degli obblighi comunitari.
Art. 1.
(Finalità).
1. La presente legge disciplina il processo di formazione della
posizione italiana nella fase di predisposizione degli atti comunitari
e dell’Unione europea e garantisce l’adempimento degli obblighi
derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, sulla base
dei principi di sussidiarietà, di proporzionalità, di efficienza, di
trasparenza e di partecipazione democratica.
2. Gli obblighi di cui al comma 1 conseguono:
a)
all’emanazione di ogni atto comunitario e dell’Unione europea che
vincoli la Repubblica italiana ad adottare provvedimenti di
attuazione;
b)
all’accertamento giurisdizionale, con sentenza della Corte di
giustizia delle Comunità europee, della incompatibilità di norme
legislative e regolamentari dell’ordinamento giuridico nazionale con
le disposizioni dell’ordinamento comunitario;
c)
all’emanazione di decisioni-quadro e di decisioni adottate nell’ambito
della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale.
Art. 2.
(Comitato interministeriale per
gli affari comunitari europei)
1. Al fine di concordare le linee politiche del Governo nel processo
di formazione della posizione italiana nella fase di predisposizione
degli atti comunitari e dell’Unione europea e di consentire il
puntuale adempimento dei compiti di cui alla presente legge, è
istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri il Comitato
interministeriale per gli affari comunitari europei (CIACE), che è
convocato e presieduto dal Presidente del Consiglio dei Ministri o dal
Ministro per le politiche comunitarie e al quale partecipano il
Ministro degli affari esteri, il Ministro per gli affari regionali e
gli altri Ministri aventi competenza nelle materie oggetto dei
provvedimenti e delle tematiche inseriti all’ordine del giorno.
2. Alle riunioni del CIACE, quando si trattano questioni che
interessano anche le Regioni e le province autonome, possono chiedere
di partecipare il presidente della Conferenza dei presidenti delle
Regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano o un
presidente di regione o di provincia autonoma da lui delegato e, per
gli ambiti di competenza degli enti locali, i presidenti delle
associazioni rappresentative degli enti locali.
3. Il CIACE svolge i propri compiti nel rispetto delle competenze
attribuite dalla Costituzione e dalla legge al Parlamento, al
Consiglio dei Ministri e alla Conferenza permanente per i rapporti tra
lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano.
4. Per la preparazione delle proprie riunioni, il CIACE si avvale di
un comitato tecnico permanente istituito presso il Dipartimento per le
politiche comunitarie, coordinato e presieduto dal Ministro per le
politiche comunitarie o da un suo delegato. Di tale comitato tecnico
fanno parte direttori generali o alti funzionari con qualificata
specializzazione in materia, designati da ognuna delle amministrazioni
del Governo. Quando si trattano questioni che interessano anche le
Regioni e le province autonome, il comitato tecnico, integrato dagli
assessori regionali competenti per le materie in trattazione o loro
delegati, è convocato e presieduto dal Ministro per le politiche
comunitarie, in accordo con il Ministro per gli affari regionali,
presso la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le
Regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano. Il
funzionamento del CIACE e del comitato tecnico permanente sono
disciplinati, rispettivamente, con decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri e con decreto del Ministro per le politiche
comunitarie.
5. Dall’attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o
maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Art. 3. (Partecipazione del Parlamento
al processo di formazione delle decisioni comunitarie e dell’Unione
europea)
1. I progetti di atti comunitari e dell’Unione europea, nonché gli
atti preordinati alla formulazione degli stessi, e le loro
modificazioni, sono trasmessi alle Camere dal Presidente del Consiglio
dei Ministri o dal Ministro per le politiche comunitarie,
contestualmente alla loro ricezione, per l’assegnazione ai competenti
organi parlamentari, con l’indicazione della data presunta per la loro
discussione o adozione.
2. Tra i progetti e gli atti di cui al comma 1 sono compresi i
documenti di consultazione, quali libri verdi, libri bianchi e
comunicazioni, predisposti dalla Commissione delle Comunità europee.
3. La Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le
politiche comunitarie assicura alle Camere un’informazione qualificata
e tempestiva sui progetti e sugli atti trasmessi, curandone il
costante aggiornamento.
4. Il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per le
politiche comunitarie informa tempestivamente i competenti organi
parlamentari sulle proposte e sulle materie che risultano inserite
all’ordine del giorno delle riunioni del Consiglio dei Ministri
dell’Unione europea.
5. Il Governo, prima dello svolgimento delle riunioni del Consiglio
europeo, riferisce alle Camere, illustrando la posizione che intende
assumere e, su loro richiesta, riferisce ai competenti organi
parlamentari prima delle riunioni del Consiglio dei Ministri
dell’Unione europea.
6. Il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per le
politiche comunitarie riferisce semestralmente alle Camere illustrando
i temi di maggiore interesse decisi o in discussione in ambito
comunitario e informa i competenti organi parlamentari sulle
risultanze delle riunioni del Consiglio dei Ministri dell’Unione
europea e del Consiglio europeo, entro quindici giorni dallo
svolgimento delle stesse.
7. Sui progetti e sugli atti di cui ai commi 1 e 2 i competenti organi
parlamentari possono formulare osservazioni e adottare ogni opportuno
atto di indirizzo al Governo. A tale fine possono richiedere al
Governo, per il tramite del Presidente del Consiglio dei Ministri
ovvero del Ministro per le politiche comunitarie, una relazione
tecnica che dia conto dello stato dei negoziati, delle eventuali
osservazioni espresse da soggetti già consultati nonché dell’impatto
sull’ordinamento, sull’organizzazione delle amministrazioni pubbliche
e sull’attività dei cittadini e delle imprese.
Art. 4.
(Riserva di esame parlamentare)
1. Qualora le Camere abbiano iniziato l’esame di progetti o di atti di
cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 3, il Governo può procedere alle
attività di propria competenza per la formazione dei relativi atti
comunitari e dell’Unione europea soltanto a conclusione di tale esame,
e comunque decorso il termine di cui al comma 3, apponendo in sede di
Consiglio dei Ministri dell’Unione europea la riserva di esame
parlamentare.
2. In casi di particolare importanza politica, economica e sociale di
progetti o di atti di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 3, il Governo
può apporre, in sede di Consiglio dei Ministri dell’Unione europea,
una riserva di esame parlamentare sul testo o su una o più parti di
esso. In tale caso, il Governo invia alle Camere il testo sottoposto
alla decisione affinché su di esso si esprimano i competenti organi
parlamentari.
3. Nei casi di cui ai commi 1 e 2, il Presidente del Consiglio dei
Ministri ovvero il Ministro per le politiche comunitarie comunica alle
Camere di avere apposto una riserva di esame parlamentare in sede di
Consiglio dei Ministri dell’Unione europea. Decorso il termine di
venti giorni dalla predetta comunicazione, il Governo può procedere
anche in mancanza della pronuncia parlamentare alle attività dirette
alla formazione dei relativi atti comunitari e dell’Unione europea.
Art. 5. (Partecipazione delle Regioni e
delle province autonome alle decisioni relative alla formazione di
atti normativi comunitari)
1. I progetti e gli atti di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 3 sono
trasmessi dal Presidente del Consiglio dei Ministri o dal Ministro per
le politiche comunitarie, contestualmente alla loro ricezione, alla
Conferenza dei presidenti delle Regioni e delle province autonome di
Trento e di Bolzano e alla Conferenza dei presidenti dell’Assemblea,
dei Consigli regionali e delle province autonome, ai fini dell’inoltro
alle Giunte e ai Consigli regionali e delle province autonome,
indicando la data presunta per la loro discussione o adozione.
2. Con le stesse modalità di cui al comma 1, la Presidenza del
Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le politiche comunitarie
assicura alle Regioni e alle province autonome un’informazione
qualificata e tempestiva sui progetti e sugli atti trasmessi che
rientrano nelle materie di competenza delle Regioni e delle province
autonome, curandone il costante aggiornamento.
3. Ai fini della formazione della posizione italiana, le Regioni e le
province autonome, nelle materie di loro competenza, entro venti
giorni dalla data del ricevimento degli atti di cui ai commi 1 e 2
dell’articolo 3, possono trasmettere osservazioni al Presidente del
Consiglio dei Ministri o al Ministro per le politiche comunitarie, per
il tramite della Conferenza dei presidenti delle Regioni e delle
province autonome di Trento e di Bolzano o della Conferenza dei
presidenti dell’Assemblea, dei Consigli regionali e delle province
autonome.
4. Qualora un progetto di atto normativo comunitario riguardi una
materia attribuita alla competenza legislativa delle Regioni o delle
province autonome e una o più Regioni o province autonome ne facciano
richiesta, il Governo convoca la Conferenza permanente per i rapporti
tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e di
Bolzano, ai fini del raggiungimento dell’intesa ai sensi dell’articolo
3 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, entro il termine di
venti giorni. Decorso tale termine, ovvero nei casi di urgenza
motivata sopravvenuta, il Governo può procedere anche in mancanza
dell’intesa.
5. Nei casi di cui al comma 4, qualora lo richieda la Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province
autonome di Trento e di Bolzano, il Governo appone una riserva di
esame in sede di Consiglio dei Ministri dell’Unione europea. In tale
caso il Presidente del Consiglio dei Ministri ovvero il Ministro per
le politiche comunitarie comunica alla Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e
di Bolzano di avere apposto una riserva di esame in sede di Consiglio
dei Ministri dell’Unione europea. Decorso il termine di venti giorni
dalla predetta comunicazione, il Governo può procedere anche in
mancanza della pronuncia della predetta Conferenza alle attività
dirette alla formazione dei relativi atti comunitari.
6. Salvo il caso di cui al comma 4, qualora le osservazioni delle
Regioni e delle province autonome non siano pervenute al Governo entro
la data indicata all’atto di trasmissione dei progetti o, in mancanza,
entro il giorno precedente quello della discussione in sede
comunitaria, il Governo può comunque procedere alle attività dirette
alla formazione dei relativi atti comunitari.
7. Nelle materie di competenza delle Regioni e delle province
autonome, la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per
le politiche comunitarie, nell’esercizio delle competenze di cui
all’articolo 3, comma 2, del decreto legislativo 30 luglio 1999, n.
303, convoca ai singoli tavoli di coordinamento nazionali i
rappresentanti delle Regioni e delle province autonome, individuati in
base a criteri da stabilire in sede di Conferenza dei presidenti delle
Regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano, ai fini
della successiva definizione della posizione italiana da sostenere,
d’intesa con il Ministero degli affari esteri e con i Ministeri
competenti per materia, in sede di Unione europea.
8. Dall’attuazione del comma 7 non devono derivare nuovi o maggiori
oneri a carico della finanza pubblica.
9. Il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per le
politiche comunitarie informa tempestivamente le Regioni e le province
autonome, per il tramite della Conferenza dei presidenti delle Regioni
e delle province autonome di Trento e di Bolzano, delle proposte e
delle materie di competenza delle Regioni e delle province autonome
che risultano inserite all’ordine del giorno delle riunioni del
Consiglio dei Ministri dell’Unione europea.
10. Il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per le
politiche comunitarie, prima dello svolgimento delle riunioni del
Consiglio europeo, riferisce alla Conferenza permanente per i rapporti
tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e di
Bolzano, in sessione comunitaria, sulle proposte e sulle materie di
competenza delle Regioni e delle province autonome che risultano
inserite all’ordine del giorno, illustrando la posizione che il
Governo intende assumere. Il Governo riferisce altresì, su richiesta
della predetta Conferenza, prima delle riunioni del Consiglio dei
Ministri dell’Unione europea, alla Conferenza stessa, in sessione
comunitaria, sulle proposte e sulle materie di competenza delle
Regioni e delle province autonome che risultano inserite all’ordine
del giorno, illustrando la posizione che il Governo intende assumere.
11. Il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per le
politiche comunitarie informa le Regioni e le province autonome, per
il tramite della Conferenza dei presidenti delle Regioni e delle
province autonome di Trento e di Bolzano, delle risultanze delle
riunioni del Consiglio dei Ministri dell’Unione europea e del
Consiglio europeo con riferimento alle materie di loro competenza,
entro quindici giorni dallo svolgimento delle stesse.
12. Resta fermo quanto previsto dall’articolo 5 della legge 5 giugno
2003, n. 131.
Art. 6.
(Partecipazione degli enti locali alle decisioni relative alla
formazione di atti normativi comunitari)
1. Qualora i progetti e gli atti di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 3
riguardino questioni di particolare rilevanza negli ambiti di
competenza degli enti locali, la Presidenza del Consiglio dei Ministri
– Dipartimento per le politiche comunitarie li trasmette alla
Conferenza Stato-città ed autonomie locali. Tali progetti e atti sono
altresì trasmessi, per il tramite della Conferenza Stato-città ed
autonomie locali, alle associazioni rappresentative degli enti locali.
Su tutti i progetti e gli atti di loro interesse le associazioni
rappresentative degli enti locali, per il tramite della Conferenza
Stato-città ed autonomie locali, possono trasmettere osservazioni al
Presidente del Consiglio dei Ministri o al Ministro per le politiche
comunitarie e possono richiedere che gli stessi siano sottoposti
all’esame della Conferenza stessa.
2. Nelle materie che investono le competenze degli enti locali, la
Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le politiche
comunitarie convoca alle riunioni di cui al comma 7 dell’articolo 5
esperti designati dagli enti locali secondo modalità da stabilire in
sede di Conferenza Stato-città ed autonomie locali. Dall’attuazione
del presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico
della finanza pubblica.
3. Qualora le osservazioni degli enti locali non siano pervenute al
Governo entro la data indicata all’atto di trasmissione dei progetti o
degli atti o, in mancanza, entro il giorno precedente quello della
discussione in sede comunitaria, il Governo può comunque procedere
alle attività dirette alla formazione dei relativi atti comunitari.
Art. 7.
(Partecipazione delle parti
sociali e delle categorie produttive alle decisioni relative alla
formazione di atti comunitari)
1. Il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per le
politiche comunitarie trasmette al Consiglio nazionale dell’economia e
del lavoro (CNEL) i progetti e gli atti di cui al comma 1
dell’articolo 3 riguardanti materie di particolare interesse economico
e sociale. Il CNEL può fare pervenire alle Camere e al Governo le
valutazioni e i contributi che ritiene opportuni, ai sensi degli
articoli 10 e 12 della legge 30 dicembre 1986, n. 936. A tale fine, il
CNEL può istituire, secondo le norme del proprio ordinamento, uno o
più comitati per l’esame degli atti comunitari.
2. Il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per le
politiche comunitarie, al fine di assicurare un più ampio
coinvolgimento delle categorie produttive e delle parti sociali,
organizza, in collaborazione con il CNEL, apposite sessioni di studio
ai cui lavori possono essere invitati anche le associazioni nazionali
dei comuni, delle province e delle comunità montane e ogni altro
soggetto interessato.
Art. 8.
(Legge comunitaria)
1. Lo Stato, le Regioni e le province autonome, nelle materie di
propria competenza legislativa, danno tempestiva attuazione alle
direttive comunitarie.
2. Il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per le
politiche comunitarie informa con tempestività le Camere e, per il
tramite della Conferenza dei presidenti delle Regioni e delle province
autonome di Trento e di Bolzano e della Conferenza dei presidenti
dell’Assemblea, dei Consigli regionali e delle province autonome, le
Regioni e le province autonome, degli atti normativi e di indirizzo
emanati dagli organi dell’Unione europea e delle Comunità europee.
3. Il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per le
politiche comunitarie verifica, con la collaborazione delle
amministrazioni interessate, lo stato di conformità dell’ordinamento
interno e degli indirizzi di politica del Governo in relazione agli
atti di cui al comma 2 e ne trasmette le risultanze tempestivamente, e
comunque ogni quattro mesi, anche con riguardo alle misure da
intraprendere per assicurare tale conformità, agli organi parlamentari
competenti, alla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le
Regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e alla
Conferenza dei presidenti dell’Assemblea, dei Consigli regionali e
delle province autonome, per la formulazione di ogni opportuna
osservazione. Nelle materie di loro competenza le Regioni e le
province autonome verificano lo stato di conformità dei propri
ordinamenti in relazione ai suddetti atti e ne trasmettono le
risultanze alla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento
per le politiche comunitarie con riguardo alle misure da
intraprendere.
4. All’esito della verifica e tenuto conto delle osservazioni di cui
al comma 3, il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per
le politiche comunitarie, di concerto con il Ministro degli affari
esteri e con gli altri Ministri interessati, entro il 31 gennaio di
ogni anno presenta al Parlamento un disegno di legge recante:
«Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti
dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee»; tale titolo è
completato dall’indicazione: «Legge comunitaria» seguita dall’anno di
riferimento.
5. Nell’ambito della relazione al disegno di legge di cui al comma 4
il Governo:
a)
riferisce sullo stato di conformità dell’ordinamento interno al
diritto comunitario e sullo stato delle eventuali procedure di
infrazione dando conto, in particolare, della giurisprudenza della
Corte di giustizia delle Comunità europee relativa alle eventuali
inadempienze e violazioni degli obblighi comunitari da parte della
Repubblica italiana;
b)
fornisce l’elenco delle direttive attuate o da attuare in via
amministrativa;
c)
dà partitamente conto delle ragioni dell’eventuale omesso inserimento
delle direttive il cui termine di recepimento è già scaduto e di
quelle il cui termine di recepimento scade nel periodo di riferimento,
in relazione ai tempi previsti per l’esercizio della delega
legislativa;
d)
fornisce l’elenco delle direttive attuate con regolamento ai sensi
dell’articolo 11, nonché l’indicazione degli estremi degli eventuali
regolamenti di attuazione già adottati;
e)
fornisce l’elenco degli atti normativi con i quali nelle singole
Regioni e province autonome si è provveduto a dare attuazione alle
direttive nelle materie di loro competenza, anche con riferimento a
leggi annuali di recepimento eventualmente approvate dalle Regioni e
dalle province autonome. L’elenco è predisposto dalla Conferenza dei
presidenti delle Regioni e delle province autonome di Trento e di
Bolzano e trasmesso alla Presidenza del Consiglio dei Ministri –
Dipartimento per le politiche comunitarie in tempo utile e, comunque,
non oltre il 25 gennaio di ogni anno.
Art. 9.
(Contenuti della legge comunitaria)
1. Il periodico adeguamento dell’ordinamento nazionale all’ordinamento
comunitario è assicurato dalla legge comunitaria annuale, che reca:
a)
disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali vigenti
in contrasto con gli obblighi indicati all’articolo 1;
b)
disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali vigenti
oggetto di procedure di infrazione avviate dalla Commissione delle
Comunità europee nei confronti della Repubblica italiana;
c)
disposizioni occorrenti per dare attuazione o assicurare
l’applicazione degli atti del Consiglio o della Commissione delle
Comunità europee di cui alle lettere
a) e
c) del comma 2
dell’articolo 1, anche mediante il conferimento al Governo di delega
legislativa;
d)
disposizioni che autorizzano il Governo ad attuare in via
regolamentare le direttive, sulla base di quanto previsto
dall’articolo 11;
e)
disposizioni occorrenti per dare esecuzione ai trattati internazionali
conclusi nel quadro delle relazioni esterne dell’Unione europea;
f)
disposizioni che individuano i principi fondamentali nel rispetto dei
quali le Regioni e le province autonome esercitano la propria
competenza normativa per dare attuazione o assicurare l’applicazione
di atti comunitari nelle materie di cui all’articolo 117, terzo comma,
della Costituzione;
g)
disposizioni che, nelle materie di competenza legislativa delle
Regioni e delle province autonome, conferiscono delega al Governo per
l’emanazione di decreti legislativi recanti sanzioni penali per la
violazione delle disposizioni comunitarie recepite dalle Regioni e
dalle province autonome;
h)
disposizioni emanate nell’esercizio del potere sostitutivo di cui
all’articolo 117, quinto comma, della Costituzione, in conformità ai
princìpi e nel rispetto dei limiti di cui all’articolo 16, comma 3. 2.
Gli oneri relativi a prestazioni e controlli da eseguire da parte di
uffici pubblici, ai fini dell’attuazione delle disposizioni
comunitarie di cui alla legge comunitaria per l’anno di riferimento,
sono posti a carico dei soggetti interessati, secondo tariffe
determinate sulla base del costo effettivo del servizio, ove ciò non
risulti in contrasto con la disciplina comunitaria. Le tariffe di cui
al precedente periodo sono predeterminate e pubbliche.
Art. 10.
(Misure urgenti per l’adeguamento agli obblighi derivanti
dall’ordinamento
comunitario)
1. Il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per le
politiche comunitarie può proporre al Consiglio dei Ministri
l’adozione dei provvedimenti, anche urgenti, necessari a fronte di
atti normativi e di sentenze degli organi giurisdizionali delle
Comunità europee e dell’Unione europea che comportano obblighi statali
di adeguamento solo qualora la scadenza risulti anteriore alla data di
presunta entrata in vigore della legge comunitaria relativa all’anno
in corso.
2. Il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per i
rapporti con il Parlamento assume le iniziative necessarie per
favorire un tempestivo esame parlamentare dei provvedimenti di cui al
comma 1.
3. Nei casi di cui al comma 1, qualora gli obblighi di adeguamento ai
vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario riguardino materie di
competenza legislativa o amministrativa delle Regioni e delle province
autonome, il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per
le politiche comunitarie informa gli enti interessati assegnando un
termine per provvedere e, ove necessario, chiede che la questione
venga sottoposta all’esame della Conferenza permanente per i rapporti
tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano
per concordare le iniziative da assumere. In caso di mancato
tempestivo adeguamento da parte dei suddetti enti, il Presidente del
Consiglio dei Ministri o il Ministro per le politiche comunitarie
propone al Consiglio dei Ministri le opportune iniziative ai fini
dell’esercizio dei poteri sostitutivi di cui agli articoli 117, quinto
comma, e 120, secondo comma, della Costituzione, secondo quanto
previsto dagli articoli 11, comma 8, 13, comma 2, e 16, comma 3, della
presente legge e dalle altre disposizioni legislative in materia.
4. I decreti legislativi di attuazione di normative comunitarie o di
modifica di disposizioni attuative delle medesime, la cui delega è
contenuta in leggi diverse dalla legge comunitaria annuale, sono
adottati nel rispetto dei principi e criteri direttivi generali
previsti dalla stessa legge per l’anno di riferimento, su proposta del
Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro per le politiche
comunitarie e del Ministro con competenza istituzionale prevalente per
la materia, di concerto con i Ministri degli affari esteri, della
giustizia, dell’economia e delle finanze e con gli altri Ministri
interessati.
5. La disposizione di cui al comma 4 si applica, altresì,
all’emanazione di testi unici per il riordino e l’armonizzazione di
normative di settore nel rispetto delle competenze delle Regioni e
delle province autonome.
Art. 11.
(Attuazione in via regolamentare e amministrativa)
1. Nelle materie di cui all’articolo 117, secondo comma, della
Costituzione, già disciplinate con legge, ma non coperte da riserva
assoluta di legge, le direttive possono essere attuate mediante
regolamento se così dispone la legge comunitaria. Il Governo presenta
alle Camere, in allegato al disegno di legge comunitaria, un elenco
delle direttive per l’attuazione delle quali chiede l’autorizzazione
di cui all’articolo 9, comma 1, lettera
d).
2. I regolamenti di cui al comma 1 sono adottati ai sensi
dell’articolo 17, commi 1 e 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e
successive modificazioni, su proposta del Presidente del Consiglio dei
Ministri o del Ministro per le politiche comunitarie e del Ministro
con competenza istituzionale prevalente per la materia, di concerto
con gli altri Ministri interessati. Sugli schemi di regolamento è
acquisito il parere del Consiglio di Stato, che deve esprimersi entro
quarantacinque giorni dalla richiesta. Sugli schemi di regolamento è
altresì acquisito, se così dispone la legge comunitaria, il parere dei
competenti organi parlamentari, ai quali gli schemi di regolamento
sono trasmessi con apposite relazioni cui è allegato il parere del
Consiglio di Stato e che si esprimono entro quaranta giorni
dall’assegnazione. Decorsi i predetti termini, i regolamenti sono
emanati anche in mancanza di detti pareri.
3. I regolamenti di cui al comma 1 si conformano alle seguenti norme
generali, nel rispetto dei principi e delle disposizioni contenuti
nelle direttive da attuare:
a)
individuazione della responsabilità e delle funzioni attuative delle
amministrazioni, nel rispetto del principio di sussidiarietà;
b)
esercizio dei controlli da parte degli organismi già operanti nel
settore e secondo modalità che assicurino efficacia, efficienza,
sicurezza e celerità;
c)
esercizio delle opzioni previste dalle direttive in conformità alle
peculiarità socio-economiche nazionali e locali e alla normativa di
settore;
d)
fissazione di termini e procedure, nel rispetto dei principi di cui
all’articolo 20, comma 5, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e
successive modificazioni.
4. I regolamenti di cui al comma 1 tengono conto anche delle eventuali
modificazioni della disciplina comunitaria intervenute sino al momento
della loro adozione.
5. Nelle materie di cui all’articolo 117, secondo comma, della
Costituzione, non disciplinate dalla legge o da regolamento emanato ai
sensi dell’articolo 17, commi 1 e 2, della legge 23 agosto 1988, n.
400, e successive modificazioni, e non coperte da riserva di legge, le
direttive possono essere attuate con regolamento ministeriale o
interministeriale, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23
agosto 1988, n. 400, o con atto amministrativo generale da parte
del Ministro con competenza prevalente per la materia, di concerto con
gli altri Ministri interessati. Con le medesime modalità sono attuate
le successive modifiche e integrazioni delle direttive.
6. In ogni caso, qualora le direttive consentano scelte in ordine alle
modalità della loro attuazione, la legge comunitaria o altra legge
dello Stato detta i principi e criteri direttivi. Con legge sono
dettate, inoltre, le disposizioni necessarie per introdurre sanzioni
penali o amministrative o individuare le autorità pubbliche cui
affidare le funzioni amministrative inerenti all’applicazione della
nuova disciplina.
7. La legge comunitaria provvede in ogni caso, ai sensi dell’articolo
9, comma 1, lettera
c), ove l’attuazione
delle direttive comporti:
a)
l’istituzione di nuovi organi o strutture amministrative;
b)
la previsione di nuove spese o minori entrate.
8. In relazione a quanto disposto dall’articolo 117, quinto comma,
della Costituzione, gli atti normativi di cui al presente articolo
possono essere adottati nelle materie di competenza legislativa delle
Regioni e delle province autonome al fine di porre rimedio
all’eventuale inerzia dei suddetti enti nel dare attuazione a norme
comunitarie. In tale caso, gli atti normativi statali adottati si
applicano, per le Regioni e le province autonome nelle quali non sia
ancora in vigore la propria normativa di attuazione, a decorrere dalla
scadenza del termine stabilito per l’attuazione della rispettiva
normativa comunitaria, perdono comunque efficacia dalla data di
entrata in vigore della normativa di attuazione di ciascuna regione e
provincia autonoma e recano l’esplicita indicazione della natura
sostitutiva del potere esercitato e del carattere cedevole delle
disposizioni in essi contenute. I predetti atti normativi sono
sottoposti al preventivo esame della Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e
di Bolzano.
Art. 12.
(Attuazione delle modifiche alle direttive comunitarie recepite in via
regolamentare)
1. Fermo quanto previsto dall’articolo 13, la legge comunitaria può
disporre che, all’attuazione di ciascuna modifica delle direttive da
attuare mediante regolamento ai sensi dell’articolo 11, si provveda
con la procedura di cui al comma 2 del medesimo articolo 11.
Art. 13.
(Adeguamenti tecnici)
1. Alle norme comunitarie non autonomamente applicabili, che
modificano modalità esecutive e caratteristiche di ordine tecnico di
direttive già recepite nell’ordinamento nazionale, è data attuazione,
nelle materie di cui all’articolo 117, secondo comma, della
Costituzione, con decreto del Ministro competente per materia, che ne
dà tempestiva comunicazione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri
– Dipartimento per le politiche comunitarie.
2. In relazione a quanto disposto dall’articolo 117, quinto comma,
della Costituzione, i provvedimenti di cui al presente articolo
possono essere adottati nelle materie di competenza legislativa delle
Regioni e delle province autonome al fine di porre rimedio
all’eventuale inerzia dei suddetti enti nel dare attuazione a norme
comunitarie. In tale caso, i provvedimenti statali adottati si
applicano, per le Regioni e le province autonome nelle quali non sia
ancora in vigore la propria normativa di attuazione, a decorrere dalla
scadenza del termine stabilito per l’attuazione della rispettiva
normativa comunitaria e perdono comunque efficacia dalla data di
entrata in vigore della normativa di attuazione di ciascuna regione e
provincia autonoma. I provvedimenti recano l’esplicita indicazione
della natura sostitutiva del potere esercitato e del carattere
cedevole delle disposizioni in essi contenute.
Art. 14.
(Decisioni delle Comunità
europee)
1. A seguito della notificazione di decisioni adottate dal Consiglio o
dalla Commissione delle Comunità europee, destinate alla Repubblica
italiana, che rivestono particolare importanza per gli interessi
nazionali o comportano rilevanti oneri di esecuzione, il Ministro per
le politiche comunitarie, consultati il Ministro degli affari esteri e
i Ministri interessati e d’intesa con essi, ne riferisce al Consiglio
dei Ministri.
2. Il Consiglio dei Ministri, se non delibera l’eventuale impugnazione
della decisione, emana le direttive opportune per l’esecuzione della
decisione a cura delle autorità competenti.
3. Se l’esecuzione della decisione investe le competenze di una
regione o di una provincia autonoma, il presidente della regione o
della provincia autonoma interessata interviene alla unione del
Consiglio dei Ministri, con voto consultivo, salvo quanto previsto
dagli statuti speciali.
4. Il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per le
politiche comunitarie trasmette il testo delle decisioni adottate dal
Consiglio o dalla Commissione delle Comunità europee alle Camere per
la formulazione di eventuali osservazioni e atti di indirizzo ai fini
della loro esecuzione. Nelle materie di competenza delle Regioni e
delle province autonome le stesse decisioni sono trasmesse altresì
agli enti interessati per il tramite della Conferenza dei presidenti
delle Regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano e della
Conferenza dei presidenti dell’Assemblea, dei Consigli regionali e
delle province autonome, per la formulazione di eventuali
osservazioni.
Art. 15.
(Relazione annuale al
Parlamento)
1. Entro il 31 gennaio di ogni anno il Governo presenta al Parlamento
una relazione sui seguenti temi:
a)
gli sviluppi del processo di integrazione europea, con particolare
riferimento alle attività del Consiglio europeo e del Consiglio dei
Ministri dell’Unione europea, alle questioni istituzionali, alle
relazioni esterne dell’Unione europea, alla cooperazione nei settori
della giustizia e degli affari interni e agli orientamenti generali
delle politiche dell’Unione;
b)
la partecipazione dell’Italia al processo normativo comunitario con
l’esposizione dei principi e delle linee caratterizzanti della
politica italiana nei lavori preparatori in vista dell’emanazione
degli atti normativi comunitari e, in particolare, degli indirizzi del
Governo su ciascuna politica comunitaria, sui gruppi di atti normativi
riguardanti la stessa materia e su singoli atti normativi che
rivestono rilievo di politica generale;
c)
l’attuazione in Italia delle politiche di coesione economica e
sociale, l’andamento dei flussi finanziari verso l’Italia e la loro
utilizzazione, con riferimento anche alle relazioni della Corte dei
conti delle Comunità europee per ciò che concerne l’Italia;
d)
i pareri, le osservazioni e gli atti di indirizzo delle Camere, nonché
le osservazioni della Conferenza dei presidenti delle Regioni e delle
province autonome di Trento e di Bolzano, della Conferenza permanente
per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di
Trento e di Bolzano e della Conferenza dei presidenti dell’Assemblea,
dei Consigli regionali e delle province autonome, con l’indicazione
delle iniziative assunte e dei provvedimenti conseguentemente
adottati;
e)
l’elenco e i motivi delle impugnazioni di cui all’articolo 14, comma
2. 2. Nella relazione di cui al comma 1 sono chiaramente distinti i
resoconti delle attività svolte e gli orientamenti che il Governo
intende assumere per l’anno in corso.
Art. 16.
(Attuazione delle direttive comunitarie da parte delle Regioni e delle
province autonome)
1. Le Regioni e le province autonome, nelle materie di propria
competenza, possono dare immediata attuazione alle direttive
comunitarie. Nelle materie di competenza concorrente la legge
comunitaria indica i principi fondamentali non derogabili dalla legge
regionale o provinciale sopravvenuta e prevalenti sulle contrarie
disposizioni eventualmente già emanate dalle Regioni e dalle province
autonome.
2. I provvedimenti adottati dalle Regioni e dalle province autonome
per dare attuazione alle direttive comunitarie, nelle materie di
propria competenza legislativa, devono recare nel titolo il numero
identificativo della direttiva attuata e devono essere immediatamente
trasmessi in copia conforme alla Presidenza del Consiglio dei Ministri
– Dipartimento per le politiche comunitarie.
3. Ai fini di cui all’articolo 117, quinto comma, della Costituzione,
le disposizioni legislative adottate dallo Stato per l’adempimento
degli obblighi comunitari, nelle materie di competenza legislativa
delle Regioni e delle province autonome, si applicano, per le Regioni
e le province autonome, alle condizioni e secondo la procedura di cui
all’articolo 11, comma 8, secondo periodo.
4. Nelle materie di cui all’articolo 117, secondo comma, della
Costituzione, cui hanno riguardo le direttive, il Governo indica i
criteri e formula le direttive ai quali si devono attenere le Regioni
e le province autonome ai fini del soddisfacimento di esigenze di
carattere unitario, del perseguimento degli obiettivi della
programmazione economica e del rispetto degli impegni derivanti dagli
obblighi internazionali. Detta funzione, fuori dai casi in cui sia
esercitata con legge o con atto avente forza di legge o, sulla base
della legge comunitaria, con i regolamenti previsti dall’articolo 11,
è esercitata mediante deliberazione del Consiglio dei Ministri, su
proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro per
le politiche comunitarie, d’intesa con i Ministri competenti secondo
le modalità di cui all’articolo 8 della legge 15 marzo 1997, n. 59.
Art. 17.
(Sessione comunitaria della
Conferenza Stato-Regioni)
1. Il Presidente del Consiglio dei Ministri convoca almeno ogni sei
mesi, o anche su richiesta delle Regioni e delle province autonome,
una sessione speciale della Conferenza permanente per i rapporti tra
lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano,
dedicata alla trattazione degli aspetti delle politiche comunitarie di
interesse regionale e provinciale. Il Governo informa tempestivamente
le Camere sui risultati emersi da tale sessione.
2. La Conferenza, in particolare, esprime parere:
a)
sugli indirizzi generali relativi all’elaborazione e all’attuazione
degli atti comunitari che riguardano le competenze regionali;
b)
sui criteri e le modalità per conformare l’esercizio delle funzioni
regionali all’osservanza e all’adempimento degli obblighi di cui
all’articolo 1, comma 1;
c)
sullo schema del disegno di legge di cui all’articolo 8 sulla base di
quanto previsto dall’articolo 5, comma 1, lettera
b), del decreto
legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni. 3. Il
Ministro per le politiche comunitarie riferisce al Comitato
interministeriale per la programmazione economica per gli aspetti di
competenza di cui all’articolo 2 della legge 16 aprile 1987, n. 183.
Art. 18. (Sessione comunitaria della
Conferenza Stato-città ed autonomie locali)
1. Il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per le
politiche comunitarie convoca almeno una volta l’anno, o anche su
richiesta delle associazioni rappresentative degli enti locali ovvero
degli enti locali interessati, una sessione speciale della Conferenza
Stato-città ed autonomie locali, dedicata alla trattazione degli
aspetti delle politiche comunitarie di interesse degli enti locali. Il
Governo informa tempestivamente le Camere e la Conferenza dei
presidenti delle Regioni e delle province autonome di Trento e di
Bolzano sui risultati emersi durante tale sessione. La Conferenza
Stato-città ed autonomie locali, in particolare, esprime parere sui
criteri e le modalità per conformare l’esercizio delle funzioni di
interesse degli enti locali all’osservanza e all’adempimento degli
obblighi di cui all’articolo 1, comma 1.
Art. 19.
(Utilizzo di strumenti
informatici)
1. Per l’adempimento degli obblighi di trasmissione e di informazione
di cui alla presente legge, il Presidente del Consiglio dei Ministri o
il Ministro per le politiche comunitarie può avvalersi di strumenti
informatici.
Art. 20.
(Regioni a statuto speciale e
province autonome)
1. Per le Regioni a statuto speciale e le province autonome resta
fermo quanto previsto nei rispettivi statuti speciali e nelle relative
norme di attuazione.
Art. 21.
(Modifica, deroga, sospensione
o abrogazione della legge)
1. Ai fini dell’attuazione dell’articolo 117, primo comma, della
Costituzione, le disposizioni della presente legge possono essere
modificate, derogate, sospese o abrogate da successive leggi solo
attraverso l’esplicita indicazione delle disposizioni da modificare,
derogare, sospendere o abrogare.
Art. 22.
(Abrogazioni)
1. Gli articoli 11 e 20 della legge 16 aprile 1987, n. 183, sono
abrogati. 2. La legge 9 marzo 1989, n. 86, e successive modificazioni,
è abrogata.
LA DEFINIZIONE DI
NUOVI STRUMENTI E METODI PER MIGLIORARE IL RAPPORTO TRA PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE E CITTADINI
Le istituzioni pubbliche sono ormai
pienamente coinvolte in un processo di revisione delle forme
tradizionali di amministrazione degli interessi e di intervento
nell’economia. Vengono tracciati marcatamente i contorni delle
attività private, che sono influenzate positivamente dagli atti
normativi riguardanti la politica economica e, al tempo stesso, si
attenuano le azioni di intervento diretto.
La Pubblica amministrazione, in buona sostanza, è oggi
al centro di innovazioni
che hanno condotto all’evoluzione del
quadro normativo e ad un processo di profonda riorganizzazione degli
enti pubblici.
Tutto ciò comporta, ovviamente, una
ricollocazione dell’interesse pubblico nel quadro procedimentale, un
diverso significato della discrezionalità amministrativa e, in
particolare, l’esigenza della ricerca di un consenso specifico
nell’esercizio delle pubbliche funzioni. Lo stato contemporaneo
considera la sovranità popolare attraverso una diversa percezione
dell’interesse del cittadino, visto, ad esempio, anche come utente e
consumatore, mentre hanno sempre maggior rilievo le formazioni
intermedie, specialmente quelle imprenditoriali ed associative in
genere.
La risposta dell’ordinamento alle predette
tendenze evolutive si è manifestata sulla scia della riforma avviata
negli anni ’90, cercando di introdurre nella gestione delle
amministrazioni pubbliche maggiori competenze manageriali, divenute
indispensabili in presenza di una sempre crescente complessità
organizzativa e di continue esigenze di rinnovamento; ponendo,
altresì, in primo piano il ruolo della comunicazione pubblica, volta a
superare il tradizionale orientamento solo formalistico-legalitario;
estendendo, infine, la partecipazione nell’ambito del potere
regolamentare del Governo (si veda, al riguardo, la legge 8 marzo
1999, n. 50 “Delegificazione e testi unici di norme concernenti
procedimenti amministrativi – legge di semplificazione 1998).
Oggi, la Presidenza di turno dell’UE è
l’occasione di porre al centro del dibattito i temi e le priorità
delle riforma amministrativa, in atto nel nostro Paese, e la
valorizzazione, mediante iniziative specifiche, delle organizzazioni e
delle istituzioni pubbliche più performanti e di prestigio.
Il semestre italiano coincide con il
primo, consistente, passo verso il processo di allargamento della UE
deciso a Copenaghen; sono stati invitati, e hanno già preso parte,
infatti, alle diverse riunioni anche i paesi di prossima adesione ed i
paesi candidati; da qui la decisione del Governo di ispirare il
semestre innanzi tutto agli effetti dell’allargamento e della riforma
delle istituzioni UE sulle amministrazioni nazionali; è stata posta,
poi, grande attenzione alla necessità di assicurare la più ampia
attuazione delle politiche di una Unione più estesa, ma anche più
complessa, nonché sulla necessità di soddisfare le esigenze di
riforma-revisione dei raccordi tra amministrazione europea e
amministrazioni nazionali; una speciale attenzione è stata data alle
necessità dei paesi di prossima adesione.
In particolare, il processo di
allargamento va accompagnato e sostenuto facendo leva su alcuni
punti-chiave: la formazione dei dipendenti pubblici che saranno
chiamati a gestire gli stati nazionali e le istituzioni europee; il
miglioramento della regolazione, intesa quale fattore di spinta,
anziché di freno, alle dinamiche economiche; il miglioramento della
qualità dei servizi resi a cittadini ed imprese.
In tale contesto, l’Italia ha promosso
alcune specifiche iniziative, alcune già realizzate con successo, cui
sono stati invitati anche i paesi di prossima adesione e quelli
candidati:
ü
nel settore della formazione, è stato promosso un programma di
seminari su temi di interesse comune da tenersi, a turno, a cura dei
Paesi membri; a tal proposito vale menzionare il primo di questi
seminari, dedicato agli strumenti giuridici del governo elettronico.
E’ fondamentale, infatti, posta la notevole varietà dei sistemi legali
coinvolti, cercare di offrire uno sguardo d’insieme degli stessi, al
fine di identificare un approccio comune volto a standardizzare le
regole alla base dell’utilizzo di uno strumento di sempre maggiore
importanza quale il governo elettronico;
ü
nel campo del miglioramento della qualità dei servizi pubblici,
l’Italia ha sostenuto le attività di confronto internazionale e
scambio di buone pratiche;
ü
nel campo della migliore regolazione, poi, la Presidenza italiana ha
rilanciato l’azione dei direttori ed esperti della migliore
regolazione, con particolare attenzione alla realizzazione del Piano
d’azione Mandelkern, sia a livello degli stati membri che delle
istituzioni UE, organizzando una riunione di questo Gruppo a Roma, il
23 e 24 ottobre 2003; in questa sede si è steso un Rapporto sulle
attività svolte e su quelle future, che darà continuità all’azione
europea in questo campo per i prossimi due anni. Al riguardo, il tema
prioritario della qualità della regolazione, e in particolare quello
dell’analisi di impatto della regolazione, è stato al centro di una
Conferenza tenutasi a Napoli l’8 e 9 ottobre 2003, con la
partecipazione di esperti italiani, di altri paesi e di organizzazioni
internazionali. Inoltre, la Presidenza italiana sta favorendo
l’attivazione del Gruppo ad hoc costituito dal Consiglio dei
Ministri UE, dopo avere ottenuto, con successo, il completamento delle
procedure interne nell’ambito di Consiglio, Commissione Europea e
Parlamento, in vista della firma, entro fine anno, dell’accordo
inter-istituzionale per un miglioramento e semplificazione della
regolazione comunitaria futura.
Proprio su quest’ultimo aspetto, sulla
migliore regolazione, credo che sia utile soffermarsi: le esperienze
di riforma dei sistemi di regolamentazione si sono sviluppate in
numerosi stati, seguendo essenzialmente tre filoni:
a) la semplificazione,
b) la codificazione,
c) l’analisi di impatto della regolazione.
Quanto al primo filone il concetto di
“semplificazione” ha una molteplicità di significati.
Vi è innanzitutto una “semplificazione
amministrativa”, che si traduce nella riduzione degli adempimenti
richiesti ai privati nell’ambito di determinati procedimenti
amministrativi.
In un secondo significato la
semplificazione coincide con la “deregolamentazione”, che mira alla
riduzione dell’area coperta dalla regolamentazione pubblica.
Viene poi in rilievo la “delegificazione”,
il cui obiettivo è la riduzione dell’area coperta dalla legge a favore
di altre fonti del diritto più flessibili rispetto alla legge.
Infine c’è la “semplificazione
legislativa”, che ha per scopo la sostituzione di un quadro normativo
complesso, incerto ed oscuro con un quadro normativo chiaro, semplice
e facilmente conoscibile dai suoi destinatari.
Un’analisi a se stante merita, poi, il
processo di “codificazione”. L’obiettivo è quello di rendere più
leggibile la regolazione attuale e non quello di modificarla. E’
un’esperienza diffusa in Francia (dove sono stati adottati una
cinquantina di codici), nonché negli Stati Uniti, addirittura a
partire dal 1926 (quando fu adottato il Code of Laws).
Alla base di tutte le politiche di
semplificazione vi è l’esigenza di ridurre i costi sopportati dalle
imprese e dai cittadini a causa della complessità del sistema.
Di fronte a tale esigenza, il nostro
legislatore ha in tempi recenti cominciato a fare sempre più ricorso
alla delegificazione. E sul versante amministrativo sono stati
individuati specifici procedimenti da semplificare, fino ad arrivare
alla previsione di una “legge annuale di semplificazione
amministrativa”.
Non tutto è comunque risolto. La
delegificazione comporta lo spostamento da una fonte all’altra – e
cioè dalla legge al regolamento – ma di per sé ciò non è garanzia di
minori adempimenti né di regole più chiare.
Inoltre, la tematica della semplificazione
ha cambiato aspetto per effetto della legge costituzionale n. 3 del
2001. I problemi che ne derivano sono molteplici.
In primo luogo, vi sono quelli di
coordinamento tra i nuovi tipi di atti normativi previsti dalla
riforma costituzionale. Ora che lo Stato ha perduto la competenza
legislativa generale e si è instaurato un “regionalismo legislativo”
occorre avere sufficiente chiarezza sui soggetti e sul tipo di atto
normativo competente a regolare ciascun ambito materiale. Sarebbe
grave confondere le regole da applicare. L’esperienza trascorsa del
regionalismo italiano insegna che è difficile delimitare in astratto
la competenza normativa di ciascun soggetto.
In secondo luogo, vi è l’esigenza di
assicurare che le amministrazioni regionali e locali possano operare
secondo principi di efficienza ed economicità. E’ soprattutto
necessario non appesantire gli oneri procedurali. Nel nuovo assetto
costituzionale, la competenza su organizzazione e attività
amministrative è passata alle regioni e non vi sono più competenze
statali al riguardo. Bisognerebbe comunque fare sì che i principi
innovativi introdotti negli ultimi anni dalla legislazione statale (la
separazione tra politica e amministrazione, la generalizzazione dei
controlli di gestione, il passaggio da un’amministrazione per atti ad
un’amministrazione per risultati, ecc.) non vengano abbandonati dalla
nuova legislazione regionale.
In terzo luogo, c’è il pericolo che si
crei una frammentazione del mercato in tanti mercati regionali, con
regole diverse che si traducono in barriere alla libertà di movimento
dei fattori produttivi. Tipici esempi sono quelli dei lavori pubblici
e dei servizi pubblici locali, materie su cui le regioni rivendicano
competenza legislativa esclusiva. Ora, poiché il mercato è una
costruzione giuridica, la presenza di regole diverse a seconda delle
regioni si tradurrebbe nella sostanziale creazione di mercati
regionali, con nocumento alla libera circolazione delle imprese e
disincentivo alla crescita delle dimensioni delle singole aziende e
della loro competitività.
Quanto, invece, al terzo filone
prospettato, l’analisi di impatto della regolamentazione, le linee di
intervento su cui è utile concentrare l’attenzione sono molteplici.
Va in primo luogo ridotto il peso della
regolamentazione amministrativa cambiando il modo di regolamentare.
Occorre sostituire le attuali regole
dettagliate e vincolanti con regole di fonte contrattuale. Le norme
eteronome dovrebbero intervenire – in ossequio al principio di
sussidiarietà – solamente in assenza di regolamentazioni contrattuali.
In altri casi le attuali regole rigide andrebbero sostituite con
“norme”, che mirano solo ad orientare l’attività dei soggetti
destinatari, senza costringerli ad uno specifico comportamento ma
vincolandoli al conseguimento di un determinato obiettivo. C’è poi
tutto il vastissimo campo dei rapporti tra le imprese e le
amministrazioni preposte alla tutela di interessi ambientali e/o
storici, artistici ecc., che sostanzialmente non è stato mai toccato
dai processi di semplificazione. In questi campi si deve intervenire
per favorire la chiarezza normativa sia mediante la scrittura di
“testi unici” sia assicurando che le nuove leggi siano scritte in
armonia con i criteri di “buona tecnica legislativa”. Questi criteri
sono stati codificati in alcune circolari dei Presidenti delle Camere
e sono stati affidati soprattutto alla vigilanza da parte del Comitato
per la legislazione.
Una seconda linea d’intervento investe la
riformulazione del processo di produzione di nuova regolamentazione.
Vanno cioè accolti i suggerimenti espressi
nel “Libro bianco” su
European Governance, predisposto dalla Commissione europea nel
luglio del 2001. In particolare è necessario procedere ad un’accurata
valutazione “ex ante” della necessità di nuova regolamentazione.
Coerentemente con tale esigenza le
amministrazioni pubbliche dovranno dotarsi di uffici in grado di
valutare e comparare diverse alternative di politiche pubbliche,
analizzarne gli effetti, proporre modifiche della regolamentazione in
atto.
Occorrerà, poi, procedere alla scelta del
livello più adeguato per l’intervento legislativo (comunitario,
nazionale, regionale), nel rispetto dei principi di sussidiarietà e
proporzionalità; e procedere all’individuazione dello strumento
regolamentare più appropriato, stabilendo quale sia la fonte del
diritto da utilizzare in rapporto al tipo di intervento.
E’ necessario, inoltre, assicurare
un’analisi “ex-post” della regolamentazione. Conoscerne e
valutarne gli effetti concreti, la capacità di raggiungere gli
obiettivi, le conseguenze sul terreno della competitività.
Infine, è necessario assicurare che i
nuovi statuti regionali, in corso di elaborazione, diano massimo
risalto e garanzia alla semplificazione. Si è aperta una importante
fase istituzionale di riscrittura degli statuti regionali. Questi
fisseranno le nuove regole in materia di organizzazione amministrativa
regionale e codificheranno i principi informatori dell’attività della
regione. E’ questa la sede opportuna per assicurare le garanzie contro
il rischio che il federalismo porti un sovraccarico di
regolamentazione ed una frammentazione dei mercati.
Su queste linee si sta muovendo l’attività
di supporto e di sostegno all’innovazione amministrativa.
In particolare, il Formez ha già svolto
diverse azioni volte a incidere sulla qualità delle norme e dei
procedimenti amministrativi. Si fa riferimento all’attivazione e alla
promozione degli sportelli unici per le attività produttive che hanno
costituito un significativo esempio di semplificazione dei
procedimenti, nonché ad un’esperienza di redazione di testi unici
settoriali relativa all’ordinamento regionale della Sardegna.
Una capillare attività di formazione e di
sviluppo per le amministrazioni regionali sull’analisi di impatto
della regolamentazione rappresenta l’ultimo anello della catena.
L’Analisi di impatto della regolamentazione, in sostanza, rappresenta
una sorta di trasformazione in senso dialettico del potere statale
unitario e si pone come “forma tecnica” della nuova governance
pubblica.
RUOLO DELLA “GOVERNANCE”
E POLITICHE DI INCLUSIONE
di
Giuseppe Cogliandro,
consigliere della Corte dei conti
Che cosa significa Governance condivisa ("Shared Governance"), oggetto
della Conferenza internazionale dell’IIAS? si è chiesto il prof.
Ferrari. Il termine governance proviene dal francese "gouvernance" che
nel tredicesimo secolo era l'equivalente di governo. Nell'accezione
moderna, la parola è di conio recente, risalendo la sua origine ad
alcune ricerche delle Nazioni Unite della fine degli anni '80.
L'italiano conosce due versioni di governance: "governanza"
e "buon governo".
La prima, benché "autorizzata", è francamente brutta e comunque non è
entrata in circolazione; l'altra non è convincente, perché inserisce
nel significante un elemento assiologico che esula, come si vedrà
meglio dopo, dal significato, ossia dal concetto di governance.
Insomma, buon governo non equivale a governance, ma, semmai, a "good
governance". Per questi motivi userò nel corso del mio intervento il
termine inglese.
Sulla nozione di governance esiste una letteratura molto ampia che
ravvisa l'elemento pregnante del termine, di volta in volta, in un
"processo attraverso il quale noi risolviamo collettivamente i nostri
problemi e rispondiamo ai bisogni della collettività" (Osborne e
Gaebler); nella "struttura che emerge in un sistema socio - politico
come risultante dell'interazione degli sforzi di intervento di tutti
gli attori coinvolti" (Kooiman); "nell'atto o nella maniera di
governare, d'esercitare il controllo o l'autorità sulle azioni dei
soggetti, un sistema di regolamentazioni" (Oxford Dictionary); in
"tecniche o strumenti utilizzati per ottenere informazioni sulle mire
e preferenze dei cittadini, nonché delle istituzioni, organizzazioni e
programmi utilizzati per realizzare queste mire e preferenze" (Purchase
e Hirshhorn); in "tecniche e raccordi di carattere
legislativo, regolamentare, normativo, amministrativo di prassi e
comportamenti necessari per consentire il funzionamento complessivo
del sistema".
Secondo la Commissione europea,
il concetto di governance designa le norme, i processi e i
comportamenti che influiscono sul modo in cui le competenze sono
esercitate a livello europeo, soprattutto con riferimento ai principi
di apertura, partecipazione, responsabilità, efficacia e coerenza.
Dalla sintetica rassegna di definizioni riportate si evince che ciò
che caratterizza il concetto di governance è l'interazione tra settore
pubblico, settore privato e società civile, interazione assunta come
fulcro del sistema di governo delle società complesse, come metodo per
la risoluzione dei problemi collettivi. Al fondo della nozione di
governance c'è quindi l'idea della poliarchia,
della rete.
Governance è diventato subito un termine alla moda e, come ogni moda,
ha provocato non solo fenomeni di proliferazione (mi riferisco alla
dizione "Corporate governance",
molto usata nel settore privato), ma anche usi impropri (è il caso
delle espressioni "Self Governance" o "New Governance", utilizzate
senza motivo per enfatizzare il coinvolgimento dei cittadini) e abusi
(come quando si parla di "Governance senza Governo", espressione priva
di consistenza concettuale).
Posso ora tentare di dare risposta al quesito posto in apertura, circa
il significato di "Governance condivisa". L'espressione ha senso se
riferita all'ipotesi generale, prospettata dal Prof. Manganaro, di
un'azione di governo condivisa da tutti i paesi per migliorare
l'efficacia di determinate politiche, oppure a quella più specifica,
formulata dal prof. Ferrari, concernente la messa a punto di forme di
collaborazione fra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo
per attuare politiche globali di tutela dell'ambiente.
Non ne ha, invece, se la condivisione venga intesa
come collaborazione tra attori pubblici (ministri e funzionari) e
attori non pubblici (cittadini e, in genere, società civile), dato che
è proprio tale interazione che dà corpo al concetto di governance.
L'obiettivo specifico che la Conferenza internazionale dell’IIAS
assegna alla governance è quello della lotta alla povertà e alle
esclusioni. Come ha rilevato il prof. Chiti, la lotta alla povertà può
essere oggi affrontata in termini diversi rispetto al passato. Primo,
perché esiste una pluralità di livelli decisionali (internazionale,
sovranazionale, nazionale e infra-nazionale) e non più solo lo stato;
secondo, perché ci sono numerosi riferimenti costituzionali
(costituzioni nazionali, trattati dell'Unione europea, trattati
internazionali); terzo, perché si dispone di una più ricca panoplia di
strumenti.
Del concetto di povertà si è occupato diffusamente il prof. Fracchia
che ne ha messo in evidenza il carattere multidimensionale,
analizzando il tema da una pluralità di punti di vista: giustizia,
eguaglianza, economia, libertà, cittadinanza, sussidiarietà.
Ad avviso del prof. Vilella, in un'analisi sulla povertà è
pregiudiziale l'esigenza di definire il concetto. Condivido
l'osservazione. Il problema definitorio è qui importante per due
motivi. Anzitutto, l'idea che della povertà si ha nei paesi sviluppati
è comprensibilmente molto diversa da quella dei paesi in via di
sviluppo. Inoltre, esistono diverse nozioni di povertà:
assoluta, intesa come condizione economica di incapacità all'acquisto
di determinati beni e servizi; relativa, definita con riguardo alla
spesa media mensile pro-capite per consumi delle famiglie; soggettiva,
incentrata sugli obiettivi individuali (valori, preferenze e
convinzioni personali).
In ogni caso, come risulta dalla proposta di un regolamento
comunitario in materia (Statistics on Income and Living Condition),
in corso di approvazione, il concetto di povertà non può essere
definito solo con riferimento alla capacità di disporre di beni e
servizi ritenuti essenziali, ma deve allargarsi al concetto più ampio
di esclusione/inclusione sociale.
Ne consegue che "povertà" ed "esclusione" non hanno ambiti semantici
distinti, ma parzialmente comuni. Nel senso che l'esclusione è un
iperonimo, ossia un vocabolo il cui significato include altri
vocaboli, detti iponimi, tra i quali la povertà. Se ciò è vero, allora
il titolo della Conferenza internazionale non sembra corretto. La
formulazione rigorosa doveva essere, a mio parere, "lotta alla povertà
ed alle altre esclusioni".
Un terzo punto critico dell'impostazione della Conferenza
internazionale riguarda la struttura espositiva, vale a dire l'ordine
dei sotto-temi. Il criterio previsto dal programma della Conferenza
internazionale (Stato, società civile, organizzazioni internazionali e
sovranazionali, collettività sub-nazionali), e qui riproposto, non
sembra convincente.
Scopo della Conferenza, che, giova ricordare, si svolgerà in Africa, è
di analizzare gli strumenti di lotta alla povertà ed alle altre
esclusioni. Si tratta quindi di una riflessione sulle politiche
pubbliche. Analisi di questo tipo vanno condotte secondo il criterio
top down, dall'alto verso il basso. A sostegno di questa tesi, adduco
due argomenti: se si illustra la posizione italiana prima di quella
comunitaria, in conformità allo schema della Conferenza, si induce a
ritenere che l'Italia abbia influenzato l'Unione europea, atteso che
dette posizioni sono simili. In realtà, è l'Italia che si è adeguata
naturalmente alle politiche stabilite in sede europea; il paper di
Giancarlo Vilella
afferma che la cooperazione dell'Unione europea con le organizzazioni
internazionali è un pilastro della sua azione in questo settore.
Conseguentemente, l'ordine appropriato dei livelli di governo per
l'analisi delle politiche è, a mio modo di vedere, il seguente:
organizzazioni internazionali, Unione europea, stato nazionale,
autonomie territoriali, società civile. Analizzerò quindi il tema
secondo questo criterio sequenziale.
Organizzazioni internazionali.
L'aspetto più delicato della governance a livello internazionale è il
carattere democratico del processo decisionale. Al riguardo, la Prof.
Campiglio ha rilevato che non c'è sviluppo senza democrazia e rispetto
dei diritti umani e ha espresso l'auspicio che, a questi fini, sia
assoggettata a controllo anche l'attività delle organizzazioni non
governative (ONG).
Le preoccupazioni prospettate non sono certamente infondate. Afferma
Dahrendorf
che "decisioni di vitale importanza non sono più assunte a
Montecitorio, o a Westminster, e neanche in Capitol Hill, ma altrove.
Per i paesi che hanno adottato l'euro, i tassi di interesse sono
stabiliti a Francoforte. Se due grandi industrie vogliono fondersi,
devono chiedere il permesso a Bruxelles. … Se la Russia possa avere
nuovi prestiti, è affare del Fondo monetario… Ma le cose diventano
perfino più complicate quando le decisioni vengono prese da
corporations internazionali".
E' noto d'altra parte che nelle organizzazioni internazionali i
meccanismi della democrazia non possono funzionare come nello stato -
nazione. E ciò, sia perché manca un corpo elettorale specifico, sia
perché in un territorio di grande estensione è impossibile realizzare
l'ideale partecipativo del processo democratico.
Quanto al ruolo delle ONG, l'esigenza del controllo, tema che sarà
oggetto di ulteriori notazioni, non è in sé incompatibile con
l'affermazione del Prof. Sanviti, secondo il quale tali organizzazioni
sono portatrici di valori etici e politici, in quanto anche la società
civile internazionale tutela i cittadini nei confronti
dei rispettivi stati, con particolare riguardo a quelli in via
di sviluppo. In principio, questo giudizio è condivisibile. Non
mancano però, come si vedrà, aspetti problematici.
Secondo Vilella, il ruolo delle ONG si pone in termini diversi
nell'Unione europea e nei paesi in via di sviluppo. Nella prima hanno
scarso peso perché in essa sono rappresentate le autonomie
territoriali e sociali. Nei secondi, le ONG esercitano una forte
influenza, ma non appartengono a questi paesi.
Unione
europea.
In ordine alla lotta alla povertà e l'esclusione sociale, il Consiglio
dell'Unione europea ha adottato nell'ottobre 2000 una serie di
"obiettivi appropriati", approvati dal Consiglio europeo di Nizza del
dicembre dello stesso anno. Questi obiettivi si sono dimostrati
"equilibrati, efficaci e validi". Esistono tuttavia tre settori per i
quali, a giudizio del Consiglio, sono necessarie modifiche.
Italia.
In attuazione degli indirizzi comunitari,
il governo italiano
ha redatto nel giugno 2001 il Piano nazionale per l'inclusione per il
2001, incentrato sulle seguenti grandi linee strategiche:
- promuovere la partecipazione all'occupazione;
- promuovere la partecipazione di tutti alle risorse, ai diritti, ai
beni e ai servizi;
- prevenire i rischi di esclusione;
- intervenire a favore delle persone più vulnerabili;
- mobilitare l'insieme degli attori.
In tema vengono in rilievo il criterio dei livelli essenziali di
assistenza, previsto dal decreto legislativo n. 229 del 1999
richiamato dal Prof. Ferrara, che si è anche soffermato sulla
rimozione del vincolo di destinazione della quota capitaria di
finanziamento.
In prospettiva assumerà grande rilevanza l'obbligo di garanzia su
tutto il territorio nazionale dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali, la cui determinazione rientra
- ai sensi dell'articolo 117, quarto comma , lettera p), della
Costituzione - nella competenza esclusiva dello Stato. Del tema si
sono occupati Mario Chiti e la Dott.ssa Molaschi. Il primo ha
ricordato che, per garantire questa tutela, il Governo può sostituirsi
a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e
dei Comuni (articolo 120, secondo comma, della Costituzione). La
seconda configura la determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni come un "livello di adempimento dei doveri inderogabili di
solidarietà che l'ordinamento richiede a tutti i soggetti che ne fanno
parte" e, sotto altro profilo, come "misura" della sussidiarietà
orizzontale (articolo 118, quarto comma, della Costituzione).
Autonomie
territoriali.
In ordine al livello sub-statale di governance, il Prof. Manganaro si
è soffermato sul coinvolgimento internazionale dei governi locali
nella lotta alla povertà, sostenendo che la partecipazione degli enti
locali alle politiche internazionali per l'inclusione sociale,
attraverso l'associazione con le collettività locali dei paesi in via
di sviluppo, non è esclusa dalla legislazione italiana ed è
auspicabile per il successo di queste politiche.
La tesi è stata condivisa dal Prof. Romano sulla base di due
argomentazioni. La prima è che gli enti locali hanno il compito di
curare gli interessi delle proprie comunità in tutte le sedi; la
seconda è che il territorio
è un elemento identitario, non limitativo, sicché non esiste
alcun ostacolo giuridico alla decisione di un ente locale, che ospiti
una comunità di cittadini stranieri, di chiudere una scuola situata
nel proprio territorio per aprirne un'altra nel paese dal quale
provengono i cittadini stranieri.
Anche il Prof. Rugge ha espresso consenso sulla tesi di Manganaro,
parlando di
collegamento internazionale degli enti locali. Il riferimento
al collegamento, e quindi a rapporti di natura orizzontale, esclude la
configurabilità dell’approccio botton up nell'analisi delle politiche
per l'inclusione sociale. Voglio dire, in termini più distesi, che un
ente locale può operare in partenariato con altri enti locali, nella
logica della rete, ma non è certo in grado di influenzare
un'organizzazione internazionale, donde la conferma della correttezza
dell'approccio top down, qui utilizzato.
Lo stesso Rugge ha svolto interessanti considerazioni sull'idoneità
del diritto amministrativo ad offrire strumenti di analisi per
esaminare concetti non giuridici, come la governance o la povertà.
Condivido i dubbi di Rugge. Questi temi costituivano infatti un tipico
oggetto di studio della cameralistica tedesca del XVII secolo, che era
una scienza marcatamente interdisciplinare, comprendendo scienza
politica, amministrativa e finanziaria.
Società
civile.
L'ultimo livello di governance è quello della società civile, che
secondo la Commissione europea,
comprende le organizzazioni sindacali e le associazioni padronali, le
organizzazioni non governative, le associazioni non professionali, le
organizzazioni di carità, le organizzazioni di base, le organizzazioni
che cointeressano i cittadini
nella vita locale e comunale, con un particolare contributo
delle chiese e delle comunità religiose.
Quella riportata è forse una nozione troppo ampia di società civile.
Ne esiste una più ristretta, tendenzialmente coincidente con quella di
"terzo settore". L'espressione ha un significato residuale e comprende
i soggetti (associazioni, fondazioni, eccetera) che operano in un
ambito diverso sia da quello
pubblico che da quello privato. Il terzo settore si differenzia dal
primo, per la natura non pubblica dei soggetti e degli interessi. Si
differenzia dal secondo, perché non ha fine di lucro, in quanto svolge
attività di utilità sociale.
In quest'ordine di idee la società civile può essere intesa come rete
di associazioni indipendenti, come luogo della partecipazione, del
volontarismo, del dialogo, della solidarietà,
della cittadinanza. Società civile significa quindi, come
scrive Antiseri, società aperta a più valori, a più visioni del mondo,
a più idee, a più ideali diversi e magari contrastanti.
Tutto vero. Tuttavia la partecipazione della società civile alle
decisioni pubbliche, attraverso il metodo della governance, pone
problemi, come ha osservato il Prof. Police, di democrazia, di
controllo e di responsabilità.
Si tratta di perplessità condivise da Dahrendorf che, dopo avere
affermato che le associazioni "sono, per molti aspetti, una
meravigliosa ricchezza della società", aggiunge che "c'è anche
qualcosa di discutibile nel fatto che esse possano esprimersi su
affari pubblici sostenendo di rappresentare di volta in volta i
bambini inglesi o (…) le minoranze etniche presenti in Gran
Bretagna".
Nel mio intervento mi sono avvalso della facoltà di esprimere opinioni
personali. Questo mi esporrebbe, in principio, alle ritorsioni
dialettiche. Ciò non sarà possibile perché così vuole il rito e
perché, comunque, il tempo delle dissertazioni è spirato. Tali
circostanze non affievoliscono la mia consapevolezza dell'opinabilità
delle tesi espresse.
RAPPORTI TRA PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI E IMPRESE
di
Carlo D'Orta,
direttore generale CNIPA
(Centro Nazionale Informatica
Pubblica Amministrazione)
Insieme con Francesco Belletti, uno dei
vicepresidenti di Confindustria, abbiamo voluto promuovere questo
convegno per parlare di un tema che è estremamente delicato ed
importante: quello dei rapporti tra P.A. e imprese.
Ne parleremo non in astratto ma prendendo
spunto da alcune indagini effettuate tra queste ultime per capire il
loro punto di vista rispetto alla Pubblica Amministrazione, il loro
stato d'animo e le loro valutazioni sul rapporto che con questa hanno
e sulla sua evoluzione in questi anni.
Mi rifarò ora ad alcune indicazioni di
base su questi rapporti.
Prima di dare sostanza alle cose che dirò,
confortato dai dati emersi, occorre fare una premessa: credo si debba
riconoscere un dato di fatto, la Pubblica Amministrazione, una decina
di anni fa, nella forma era tradizionalmente legata al modello
francese ma, nella sostanza, era tutt'altro che corrispondente
all'efficienza di quel modello amministrativo.
In quest’ultimo decennio la nostra
Pubblica Amministrazione è stata al centro di una serie di riforme
ispiratesi anche a modelli anglosassoni che, pur se in qualche modo
estranei alla nostra tradizione, tuttavia hanno sicuramente
caratterizzato una stagione di riforme amministrative, non solo in
Italia, ma un pò dovunque, che vanno sotto il nome di new public
management.
La linea conduttrice è stata quella di
introdurre nel mondo delle pubbliche amministrazioni logiche di
efficienza e di efficacia e, quando possibile, anche metodologie
derivate dalla cultura d'impresa, pur se con i dovuti adattamenti, in
quanto, giova ricordarlo, la P.A. non è un'impresa!
Vero è che vi sono state organizzazioni in
mano pubblica che erano vere e proprie imprese, ma in questo decennio
molte di queste hanno cessato di essere pubbliche amministrazioni per
diventare enti pubblici economici, se non società di capitali o,
addirittura, S.p.A., assumendo, quindi, la forma e, spesso, il
capitale delle imprese private.
Vi sono, però, altri comparti che, pur
essendo e dovendo rimanere pubbliche amministrazioni, con obiettivi
diversi da quelli di un'impresa, non devono, tuttavia, essere
inefficienti od operare in logiche conflittuali rispetto a questa: il
punto fondamentale è come riuscire ad essere Pubblica Amministrazione
e, in contemporanea, come di recente sottilineato dal ministro per la
Funzione pubblica, Luigi Mazzella, svolgere il ruolo di centro di
composizione di interessi di parte, quindi, per definizione, egoistici
e non configuranti il tutto, a favore della collettività.
Non ne deve essere, però, penalizzato lo
sviluppo economico del Paese: da un’indagine svolta dalla Piccola
Industria di Torino, risulta il fatto che il già richiamato modello
francese di Pubblica Amministrazione è percepito dalle imprese
italiane che con esso hanno avuto a che fare, come un modello
tutt'altro che alieno e rinunciatario rispetto allo svolgimento di
compiti di regolazione e controllo, ma sono compiti che vengono svolti
in un ottica non punitiva, non di penalizzazione bensì di assistenza,
di consulenza, di supporto e, quindi, corrispondenti ad esigenze di
sviluppo.
In conclusione, la parte migliore del
mondo delle imprese, pur riconoscendo il ruolo di regolazione e
controllo delle P.A., chiede che questo sia svolto non in un modo
penalizzante, burocratico ma in maniera costruttiva e positiva, che
aiuti lo sviluppo.
La mia idea, quindi, non è quella di una
difesa della burocrazia in assoluto e nel senso più ottuso, ma di una
difesa del ruolo fondamentale delle pubbliche amministrazioni per
l'interesse generale, che deve essere svolto in un ottica costruttiva
e favorevole allo sviluppo del Paese.
Le imprese, da un lato, i cittadini,
dall'altro, sono i due grandi utenti dei servizi della Pubblica
Amministrazione, che deve muoversi con una logica di orientamento
all'utenza, anche se questo non significa sempre accontentarla.
L’indagine sopra accennata si è svolta su
tre direttive. La prima, su "La qualità dei servizi nella P.A.", ad
opera della Piccola Industria della provincia di Torino nel maggio
2002, con un sondaggio tra le imprese associate, piccole e medie, con
meno di 250 addetti; la seconda, dedicata agli "Impatti della P.A. sul
sistema delle imprese italiano", condotta nel novembre 2002 dalla
Fondazione Rosselli insieme al Formez per conto del Dipartimento della
Funzione pubblica, su 1000 aziende italiane, a prescindere dalla loro
dimensione, ma con alcune con più di 500 addetti; la terza rivolta a
"La complessità delle pratiche burocratiche: indagine presso le
aziende" della società Alphabet per conto del Dipartimento della
funzione pubblica, nel febbraio 2003, su un campione di 800 aziende.
Dall’indagine dell’Aphabet scaturisce che
le imprese si confrontano in prevalenza con enti quali le Poste, il
Comune, la Camera di Commercio, industria ed artigianato, l'INPS e
l'INAIL, le ASL, l'Agenzia delle entrate, i Vigili del fuoco e la
Regione, elencati nell'ordine di frequenza.
Tale ricorso avviene al 100% per i
tributi, le imposte e le tasse, all’87% per i certificati, al 64% per
le autorizzazioni, al 62% per i permessi, al 52% per le ispezioni, al
38% per contenziosi giudiziari e, infine, al 27% per gli appalti.
Qual’è il grado di soddisfazione delle
imprese nel loro rapporto con la Pubblica Amministrazione?
Vi sono dati positivi e dati critici:
riferiamoci, inizialmente, ai primi.
L'indagine della Piccola Industria di
Torino, ci fa sapere che il 60% delle imprese che hanno risposto
giudicano migliorati i servizi della P.A.. In questa percentuale, il
13,2% ritiene che i servizi siano migliorati sensibilmente e, nelle
imprese con 50/150 addetti, tale valutazione positiva sale addirittura
al 79%.
L'innovazione tecnologica, con quasi il
60% delle indicazioni, la disponibilità e cortesia, con il 39%,
l’abbreviazione dei tempi, con il 23% si possono ritenere i fattori di
miglioramento principali.
Anche secondo il sondaggio della
Fondazione Rosselli l'amministrazione statale è abbastanza efficiente
per il 58% delle imprese e molto efficiente per un altro 5%.
Ancora più positiva è la valutazione
dell'efficienza dei comuni: l'amministrazione comunale è abbastanza
efficiente per il 62% e molto efficiente per il 10% delle imprese,
delle quali il 40% ritiene, inoltre, che nel quadriennio '98-2002
l'efficienza dei servizi della P.A. sia migliorata in modo avvertibile
e più del 50% giudica migliorata la chiarezza e la semplicità delle
procedure, in particolare il livello delle informazioni, la cortesia
ed il rispetto dei tempi.
Infine, l'indagine Alphabet: il 72% delle
imprese giudica le pratiche amministrative nel complesso semplici, con
un voto medio di 6,5, in una scala di complessità discendente da 1 a
10. Si tratta, dunque, di un voto positivo, anche se moderatamente.
Solo il 27% delle aziende ha giudicato complesse le pratiche
amministrative, con una valutazione inferiore a 6.
Il maggior livello di semplicità si
riscontra nelle pratiche delle Camere di Commercio, dell'Agenzia delle
Entrate e dell'INPS; più complesse invece le pratiche delle ASL..
Passiamo, ora, all’analisi dei dati
critici.
Secondo la Piccola Industria di Torino,
tali dati sono dovuti per il 65% ai troppi adempimenti amministrativi,
per il 46%, alla lunghezza eccessiva delle procedure e, è bene
sottolinearlo, soprattutto all’incertezza, che preoccupa ancora di più
perché impedisce la programmazione, infine per il 35% alla convinzione
che la normativa sia troppo complessa e che il personale non sia
customer oriented.
Analoghe le valutazioni di Alphabet. Il
27% del totale delle imprese indagate, dando un giudizio di
complessità sulle pratiche amministrative, ha segnalato, per il 56%,
carenze di informazioni chiare all'avvio della procedura o incoerenza
delle informazioni, il che è, quindi, il primo problema da risolvere,
per il 37%, tempi troppi lunghi di svolgimento per la conclusione
della pratica, infine, per il 25%, modulistica troppo articolata,
complessa o poco comprensibile.
L’espletamento delle procedure
amministrative, secondo la Piccola Industria di Torino, costa in media
13,2 ore annue di lavoro per dipendente, che salgono a 32,8 per le
piccole imprese da 1 a 15 dipendenti ma si riducono ad una sola per
quelle con più di 250. In termini monetari il costo annuo medio è di
1.674 euro per dipendente per le prime e di 51 euro per le ultime.
I dati della Fondazione Rosselli sono
sostanzialmente analoghi. Il costo medio annuale degli adempimenti
amministrativi per addetto, inclusi i costi interni legati al
personale, che sono la voce più rilevante, è di 1.539 euro nelle
imprese che impiegano da 10 a 49 dipendenti mentre scende a 160 euro
per quelle con più di 500: occorre, però, considerare che, anche se
non ci fossero obblighi relativi alla gestione del personale legati al
rapporto con le P.A., non di meno l'impresa dovrebbe avere ugualmente
un'amministrazione interna! Le differenze con i dati della Piccola
Industria di Torino sono, dunque, abbastanza limitate.
Le risposte più discordanti si hanno sullo
Sportello Unico delle Attività Produttive.
Secondo la Fondazione Rosselli meno della
metà delle aziende, il 44%, ha avuto a che fare con lo SUAP, nei cui
riguardi il giudizio sembra positivo; in particolare, l'80% delle
aziende ha riconosciuto che sono stati rispettati i tempi per le
pratiche concernenti lo start-up d'impresa.
Per la Piccola Industria di Torino il 34% delle imprese
auspica un miglioramento nel funzionamento dello SUAP mentre il 6,4%
ritiene che il suo funzionamento limitato sia una delle maggiori
criticità.
Infine l’Alphabet, che ha registrato
giudizi più critici, ci dice che il livello di semplicità delle
pratiche presso lo Sportello Unico ha un gradimento modesto, pari a
6,6 su 10 che, anche se positivo, in quanto sopra la sufficienza,
rimane modesto rispetto a quello delle pratiche riscontrato presso le
Camere di commercio, 8,7, e presso l'INPS, 7,5.
La cosa più importante, però, che
l'indagine Alphabet ci dice è che, secondo le imprese, lo Sportello
unico deve ancora cominciare a funzionare nelle modalità e per i fini
per i quali è stato istituito e attualmente non è altro che un mero
centro di smistamento delle pratiche tra uffici, come a Milano, o non
ha ancora conseguito una reale interconnessione delle pratiche tra
uffici, come avverrebbe a Roma.
In conclusione, secondo questi sondaggi le
aspettative riguardano:
la sburocratizzazione, quindi più
possibilità di autocertificazione, procedure più semplici, riduzione e
maggiore certezza dei tempi delle procedure. Da questo punto di vista
il paragone con la burocrazia del Regno Unito o degli USA è,
evidentemente, a sfavore del nostro paese;
la formazione per il personale delle P.A.
che, anziché avere un atteggiamento di diffidenza e punitivo, dovrebbe
avere più orientamento all'utenza, maggiore competenza, più capacità
di assumere un atteggiamento costruttivo e di assistenza, così come
avviene in Francia;
la facilità di avere più informazioni
sulle procedure, modulistica più chiara e semplice, più cortesia, più
chiarezza e precisione nelle informazioni;
una maggiore innovazione tecnologica,
maggiori servizi on-line, soprattutto attraverso Internet, in
poche parole un ulteriore e maggiore ammodernamento tecnologico nella
P.A..;
una maggiore diffusione dello Sportello
Unico con operatività effettiva, migliore funzionamento e maggiore
capacità di raccordare effettivamente i vari soggetti e fasi della
procedura. In questo caso si può, però, affermare che dalla fine del
2001 alla fine del 2002 lo Sportello Unico si è esteso dal 50% all'80%
dei comuni e copre ormai il 90% della popolazione italiana, anche se
non tutti gli sportelli unici esistenti sulla carta sono stati
effettivamente attivati. In ogni caso il numero di quelli operativi è
aumentato e, come le stesse imprese ci dicono, là dove funzionano i
risultati sono positivi. Naturalmente lo Sportello Unico interessa
soprattutto le piccole e medie imprese in quanto centro di una
semplificazione delle procedure di cui beneficiano soprattutto quelle
imprese per le quali l'apparato amministrativo e le procedure
amministrative hanno un peso maggiore.
Da questi sondaggi si ricava un dato molto confortante:
pur con gli accenti critici che è giusto ci siano, e che, tra l’altro,
servono da stimolo a ulteriori miglioramenti, soprattutto per rimanere
al passo con gli altri paesi, le imprese ritengono che un
miglioramento della P.A. ci sia stato.
Secondo Piccola Industria di Torino il 62% delle
imprese e, soprattutto, dato significativo, l'83% di quelle con più di
250 addetti, ritiene che la P.A. possa diventare un aiuto per lo
sviluppo delle imprese con la semplificazione delle procedure e con un
atteggiamento di assistenza, supporto e consulenza in luogo di quello
di diffidenza e penalizzazione.
Se le imprese hanno ancora fiducia nella possibilità
della P.A. di aiutare lo sviluppo, questa fiducia, in qualche modo, è
stata determinata dai concreti comportamenti di cambiamento di questi
anni. Dobbiamo lavorare tutti insieme, stimolare, sì, con le critiche
ma nel contempo dare sostegno riconoscendo quanto di positivo abbia
questo processo di evoluzione, consci della diversità dei ruoli ma
tenendo, però, presente che la Pubblica Amministrazione è una risorsa
essenziale per il sistema Paese.
EMPOWERMENT DELLE AMMINISTRAZIONI.
LA STRATEGIA DI CANTIERI PER UN
CAMBIAMENTO TANGIBILE
di
Pia Marconi,
direttore dell’ufficio per l’innovazione delle pubbliche
amministrazioni
Il Programma CANTIERI è parte fondamentale
della strategia con la quale il Dipartimento della Funzione Pubblica
si propone come centro di propulsione del cambiamento e del
miglioramento delle amministrazioni pubbliche.
L’innovazione che CANTIERI promuove
configura un cambiamento intenzionale finalizzato a realizzare
miglioramenti duraturi nei risultati e negli effetti delle politiche
pubbliche, miglioramenti tangibili per i cittadini e le imprese. Un
concetto di innovazione che assegna a ciascuna amministrazione la
responsabilità di individuare modalità e soluzioni per rispondere alle
richieste, sempre più esigenti, di una società che cambia.
Le cinque priorità
Per favorire il prodursi di questo tipo di
innovazione sono state individuate cinque priorità che identificano le
aree nelle quali ciascuna amministrazione deve intervenire per
migliorare la propria capacità di risposta.
La prima priorità indica alle
amministrazioni la necessità di agire sul fronte dei rapporti con i
cittadini. Le amministrazioni devono migliorare il grado di
soddisfazione dei cittadini e delle imprese nei confronti dei servizi
che esse offrono, quindi devono essere più amichevoli, cioè più
vicine, ai cittadini e alle imprese. Questo è il primo aspetto da
trattare: bisogna fare in modo che le amministrazioni adottino delle
strategie in grado di ridurre gli spostamenti che normalmente sono
imposti ai cittadini per ottenere ciò che essi richiedono
all’amministrazione. Ciò può avvenire aumentando ovviamente i servizi
on-line, e questa è una tendenza inarrestabile, naturalmente da
favorire. Ma dobbiamo anche essere consapevoli che non è l’unica
realtà sulla quale si debba intervenire, perché taglierebbe fuori
fasce significative di utenti. Altre modalità sono, ad esempio,
inviare a domicilio i documenti, creare servizi unificati di front
office anche tra amministrazioni diverse e disporli logisticamente in
zone e in ambiti facilmente accessibili e molto frequentati, come, ad
esempio, i centri commerciali. Alcune amministrazioni si sono mosse in
questa direzione.
In secondo luogo bisogna prevenire il
formarsi delle code e gestire le attese, questo si può realizzare,
ovviamente, agendo sull’organizzazione interna e suddividendo meglio
le attività di front office rispetto a quelle di back office; ma anche
ridefinendo i turni di lavoro sulla base dei flussi, in modo da far
fronte a situazioni di picco che possono verificarsi agli sportelli,
oppure ampliando le mansioni del personale e creando le condizioni per
un uso flessibile del personale. È evidente, inoltre, (e questo ce lo
insegnano le esperienze di molte amministrazioni e di alcune strutture
private che erogano servizi all’utenza) che le condizioni logistiche
possono favorire le condizioni dell’attesa, ma anche un personale
addestrato a prendersi cura di chi è in attesa, magari fornendo
informazioni in modo chiaro e completo, è un modo per risolvere questo
tipo di problemi.
Un’amministrazione amichevole è,
ovviamente, anche quella che parla un linguaggio che i cittadini
comprendono, e quindi abbandona lo specialismo amministrativo ed usa
il linguaggio corrente. Sempre per restare in questa priorità le
amministrazioni devono migliorare le loro capacità di anticipare i
bisogni e devono, inoltre, dare ai bisogni delle risposte
personalizzate, così come stanno facendo da anni molte aziende
private. Anche le amministrazioni cominciano ad adottare logiche di
customer care e di personalizzazione dei servizi, ad esempio
ricevendo per appuntamento, assistendo i cittadini nel formulare
correttamente le loro richieste all’amministrazione o utilizzando le
informazioni che sono già in loro possesso per anticipare i bisogni,
per preannunciare che il passaporto, piuttosto che la carta di
identità è in scadenza e quindi invitare al rinnovo.
Un’amministrazione anticipatrice è un’amministrazione che ascolta
l’utenza e che misura la sua soddisfazione attraverso questionari di
soddisfazione, attraverso focus group, attraverso sondaggi di
opinione e attraverso una gestione attiva dei reclami.
Infine, per corrispondere alla prima
priorità, le amministrazioni devono migliorare anche la loro
affidabilità. Per migliorare la soddisfazione degli utenti e ridurre
il deficit di fiducia che caratterizza spesso i rapporti dei cittadini
nei confronti dell’amministrazione pubblica, ma anche delle
istituzioni in generale nel nostro come in altri paesi, le
amministrazioni devono aumentare la loro affidabilità accrescendo la
trasparenza relativa alle decisioni e all’azione amministrativa e
mantenendo gli impegni che prendono, sia per quanto riguarda i tempi,
che per gli standard di qualità dei servizi. Da questo punto di vista
il rilancio di alcuni istituti fondamentali della legge 241/90 e le
carte di servizi sono strumenti importanti.
La seconda priorità riguarda il policy
making. È importante che le pubbliche amministrazioni, poiché
questa costituisce la loro funzione istituzionale fondamentale,
migliorino la capacità di elaborare ed attuare politiche pubbliche
efficaci. Innanzitutto devono imparare a comprendere meglio e ad
anticipare i bisogni della società. Da questo punto di vista è
essenziale che la consultazione dei cittadini, delle imprese e anche
di soggetti portatori di interessi diffusi, divenga uno strumento
fondamentale per assumere decisioni consapevoli e motivate. È
necessario inoltre, però, che le amministrazioni imparino a scegliere
opportunamente tra le varie opzioni di intervento valutando costi e
benefici di ciascuna di esse. Anche nel nostro paese, come si sta
facendo con l’analisi d’impatto della regolamentazione, è necessario
che venga fatto un uso più esteso dell’analisi dei costi-benefici,
prima di intraprendere un’azione di
policy, ed è necessario che quest’analisi riguardi anche gli
strumenti che vengono utilizzati per l’attuazione delle politiche
pubbliche. Il nostro è un paese dove di solito tali politiche vengono
attuate facendo ricorso allo strumento regolativo, che impone vincoli
e sanzioni ai soggetti oggetto delle regolazioni. Le amministrazioni
tendono ad avere un atteggiamento ostile nei confronti delle imprese:
non si fidano. Invece potrebbe essere talvolta più efficace, oltre che
meno dispendioso, per conseguire determinati obbiettivi di policy,
basare la politica sull’adozione da parte dei soggetti interessati di
strumenti di autodisciplina, di autoregolazione, come il
responsable care. Naturalmente, per chiudere con il policy
making, non è importante solo che le politiche pubbliche vengano
definite in modo appropriato, ma è anche necessario che le
amministrazioni dispongano di strumenti per monitorarne l’attuazione
anche in itinere, per verificare, cioè, se gli obiettivi che si
intendeva raggiungere e gli impatti che si intendeva determinare si
realizzano o se, invece, non si realizzino addirittura conseguenze
opposte o non desiderate rispetto a quanto era stato preventivato.
La terza priorità indica che per innovare
occorre un governo complessivo del sistema organizzativo e quindi
l’esercizio di una vera e propria capacità imprenditoriale che
assicuri lo sviluppo dei mezzi in funzione degli obiettivi che
l’amministrazione intende perseguire. Innanzitutto le amministrazioni
devono definire una strategia complessiva che individui quali sono le
attività fondamentali, le attività core, e le distingua da quelle non
fondamentali per concentrarsi sulle prime. In secondo luogo è
necessario che ciascuna amministrazione riveda il funzionamento dei
processi di servizio e l’articolazione delle strutture, finalizzando
questa revisione alla semplificazione, all’integrazione e al
coordinamento, anche quando i processi coinvolgono più soggetti, più
amministrazioni, o addirittura anche soggetti esterni, che partecipano
ad esempio all’erogazione del servizio. Solo a valle dell’analisi dei
processi è possibile, infatti, progettare un assetto organizzativo
funzionale a rispondere meglio alle esigenze degli utenti. In terzo
luogo, per realizzare concretamente processi di cambiamento e nuove
dinamiche, è necessario che le amministrazioni abbiano una gestione
delle risorse umane coerente con gli obiettivi che intendono
perseguire e che si dotino, quindi, di politiche di direzione del
personale e di strutture idonee a condurre tali politiche. Inoltre è
importante che le amministrazioni si dotino di sistemi operativi
capaci di aiutare i decisori, siano essi il vertice politico o il
vertice amministrativo, a coordinare tra loro le politiche, a
verificare gli effetti, a fissare obiettivi operativi coerenti con gli
obiettivi di policy e a valutare i risultati. Ancora, è
importante che le amministrazioni definiscano strategie finanziarie
coerenti con le loro politiche, sfruttando le possibilità di accesso
alle opportunità offerte dal sistema degli strumenti finanziari che
oggi sono disponibili, quali le obbligazioni, la finanza di progetto,
la cartolarizzazione dei crediti, la cartolarizzazione immobiliare e i
diversi prodotti derivati. È evidente che è molto importante nel
governo del cambiamento l’apporto che viene offerto dalle tecnologie.
L’introduzione delle tecnologie è una delle principali leve del
cambiamento che le amministrazioni possono attivare. In molte
amministrazioni il ruolo delle tecnologie sta diventando sempre più
pervasivo e le competenze non sono più confinate all’interno delle
funzioni tecniche di supporto, ma sono distribuite in tutta
l’organizzazione. Su questo fronte è necessario operare ulteriormente,
rafforzando le capacità del management di capire le implicazioni
dell’utilizzo delle tecnologie e di utilizzarle in chiave strategica.
Infine, la comunicazione è anch’essa una risorsa che deve essere
utilizzata come leva per il cambiamento. Attraverso strategie di
comunicazione adeguate le amministrazioni possono costruire un
rapporto di fiducia con i cittadini e le imprese, ma anche attivare
azioni di ascolto e acquisire elementi utili per definire gli
interventi di policy e le azioni volte a migliorare la qualità
dei servizi.
La quarta priorità, “fare squadra per
trainare il cambiamento”, indica quelle azioni che mirano ad
intervenire nei contesti organizzativi interni per sviluppare capacità
di leadership, creare un clima favorevole e assicurare un ambiente di
lavoro sereno. Si tratta, cioè, di creare condizioni professionali
migliori, confrontabili con quelle presenti nelle organizzazioni
private, motivando gli operatori e stimolando il senso di
appartenenza. È importante sottolineare quanto sia necessario
investire sulla motivazione del personale, restituendo valore e
dignità al lavoro pubblico e rendendo tutti i livelli
dell’organizzazione partecipi dei processi e delle azioni di
cambiamento.
Infine, la quinta ed ultima priorità
segnala che le amministrazioni per innovare hanno bisogno di
instaurare un rapporto positivo con l’ambiente esterno tessendo reti
di relazioni con i soggetti esterni con cui operano, siano esse
amministrazioni o imprese o altri organismi, in grado di aumentare il
capitale sociale del territorio. L’innovazione, infatti, è favorita
dalla possibilità di sfruttare le opportunità presenti in contesti
dinamici dove l’accesso alle risorse è facilitato, i costi di
transazione sono bassi e i livelli di fiducia tra gli attori sono
elevati.
Le politiche
CANTIERI muove da una tesi di fondo,
suggerita dalle raccomandazioni che l’OCSE ha prodotto analizzando
dieci anni di politiche di ammodernamento delle pubbliche
amministrazioni nei principali paesi industrializzati. La tesi è che,
anziché continuare ad introdurre dall’esterno nuove riforme, sia
necessario creare all’interno delle amministrazioni le condizioni
affinché esse siano in grado di innovare.
Abbiamo fatto nostra questa tesi, non solo
perché proviene da una fonte autorevole, ma anche perché abbiamo
trovato una corrispondenza con l’esperienza che il Dipartimento della
Funzione Pubblica ha compiuto negli ultimi anni, sul fronte degli
interventi a sostegno del cambiamento delle pubbliche amministrazioni.
Perché CANTIERI non nasce dal nulla. Mi riferisco in particolare
all’esperienza fatta con i progetti finalizzati, attraverso i quali il
Dipartimento della Funzione Pubblica negli ultimi anni è entrato in
contatto con moltissime amministrazioni e con oltre quattromila
dirigenti e funzionari di amministrazioni statali e territoriali,
impegnati in azioni di innovazione. Mi riferisco anche a quella
comunità professionale che abbiamo chiamato la “rete degli
innovatori”. Ebbene, il percorso fatto insieme alle amministrazioni ci
ha fatto rendere conto delle enormi capacità presenti in molte
amministrazioni e del potenziale che queste capacità rivestono per
l’intero sistema amministrativo. La nostra esperienza ci ha anche
fatto comprendere che queste capacità vanno supportate e indirizzate
per superare alcune criticità che ovviamente esistono e che il
documento “Proposte per il cambiamento nelle pubbliche
amministrazioni” individua in modo piuttosto analitico.
Su questa base abbiamo definito le
politiche per il sostegno al cambiamento che CANTIERI intende
realizzare per orientare il cambiamento delle singole amministrazioni,
verso alcune specifiche priorità.
Esse si muovono in tre direzioni.
La prima consiste nello sviluppare e
rendere disponibile il
know how. In primo luogo,
come per le aziende che devono innovare, la R&S è fondamentale per
supportare l’introduzione di nuovi prodotti e processi. È necessario
che il sistema della ricerca pubblica investa di più in quest’area,
per migliorare la comprensione dei fenomeni di cambiamento e per
individuare nuovi percorsi e logiche di azione. Il Dipartimento della
Funzione Pubblica intende promuovere il rapporto organico con il Mondo
della ricerca pubblica in un’ottica pluridisciplinare.
In secondo luogo, occorre procedere a
sperimentazioni che consentano di verificare fattibilità ed effetti
dell’innovazione in situazioni controllate, “da laboratorio” e in
assenza di vincoli normativi.
In terzo luogo, bisogna sviluppare la
capacità intellettuale presente nelle amministrazioni pubbliche,
raccogliendo le esperienze di innovazione realizzate, anche premi o
altre modalità di sollecitazione a comunicare l’innovazione. È anche
necessario assicurare la diffusione delle conoscenze e delle
esperienze attraverso percorsi di apprendimento. In questo genere di
attività il Dipartimento della Funzione Pubblica ha sviluppato un
know how significativo con il programma dei progetti finalizzati
realizzato negli ultimi quattro anni e con le diverse edizioni del
premio 100 progetti al servizio dei cittadini.
Questa attività va proseguita, estesa e
resa più sistematica – la rete degli innovatori che abbiamo creato
rende possibile una costante alimentazione del flusso delle
esperienze. La rete degli innovatori consolida reti professionali che
abbiamo costituito, con le nostre diverse iniziative che ci hanno
consentito di estendere il nostro campo di conoscenza alle esperienze
di molte amministrazioni specie locali e regionali che altrimenti
avremmo ignorato e che oggi invece sono il patrimonio di tutti.
Il Benchmarking è uno strumento
senza dubbio efficace per promuovere lo sviluppo del
know how.
Il confronto con altre realtà, siano esse
riferite ad altre amministrazioni, a imprese e no-profit, è
importante per conoscersi e migliorare. Ma il
Benchmarking deve essere utilizzato adeguatamente promuovendo
esperienze di Benchmarking relative a processi e basate su
parametri, che sono ancora limitate nella nostra esperienza nazionale.
La seconda linea d’azione consiste nel
puntare sulle persone investendo sul capitale umano.
Innanzitutto, le politiche di sviluppo del
capitale umano devono proporsi l’obiettivo di creare professionalità
autonome, capaci di cogliere e dare risposte alle esigenze che si
manifestano.
In secondo luogo, è necessario riorientare
i contenuti della formazione. Rispetto alle priorità indicate da
CANTIERI, ad esempio, l’area del policy making e delle modalità
di gestione ed erogazione dei servizi non sono adeguatamente
presidiate. Eppure rappresentano il core business delle
amministrazioni pubbliche.
In terzo luogo, bisogna intervenire sulle
modalità
di gestione della formazione e introdurre nuove metodologie in
grado di sviluppare il capitale umano. Ma qui è sufficiente rinviare
alla direttiva del Ministro della Funzione Pubblica. Vale soltanto la
pena di aggiungere che il ricorso a metodologie basate sulle comunità
di pratica, consente di abbinare i processi di apprendimento allo
sviluppo di una identità professionale più solida. Questo approccio
sembra particolarmente efficace per quelle professionalità, oggi
emergenti nel settore pubblico, come quella dei comunicatori, dei
controller, dei direttore del personale. Questa possibilità è oggi
favorita dalle tecnologie che arricchiscono i canali di comunicazione
e di scambio.
Infine, per lo sviluppo del capitale umano
è importante promuovere gli scambi di esperienze lavorative attraverso
stage e modalità simili, tra amministrazioni, anche di altri paesi, e
con le imprese.
La terza linea di azione consiste nel
creare le condizioni di contesto favorevoli al cambiamento.
Sono molte le azioni che possono creare
condizioni di contesto favorevole. Innanzitutto, la informazione. Le
amministrazioni devono disporre di un canale tempestivo, efficace e
dinamico di diffusione delle informazioni. Serve un’informazione
istituzionale che non sia limitata ai soli provvedimenti normativi.
Bisogna adeguare contenuti e strumenti dell’informazione rivolta agli
operatori.
In secondo luogo, la comunicazione. È
necessario valorizzare i risultati conseguiti dalle amministrazioni
attraverso la comunicazione rivolta all’esterno; ma bisogna sostenere
con un’adeguata azione di comunicazione rivolta agli operatori gli
sforzi da questi compiuti. Il cambiamento si avvantaggia del clima di
fiducia sia interno che esterno alle amministrazioni.
In terzo luogo, le reti di relazioni. Se è
vero che le amministrazioni devono utilizzare il contesto in cui
operano come risorsa, sviluppando relazioni positive con i vari
soggetti, è altrettanto vero che è possibile favorire la creazione e
lo sviluppo di reti tra soggetti pubblici e privati sempre più solide
e dense in grado di favorire il formarsi di un capitale sociale di cui
le amministrazioni possano avvantaggiarsi.
In quarto luogo, l’ambiente normativo.
Fare attenzione all’esistenza e quindi rimuovere gli eventuali vincoli
di natura normativa che sono di ostacolo al cambiamento. Le pubbliche
amministrazioni sono esse stesse oggetto di regolamentazioni rigide,
talvolta non necessarie.
In quinto luogo, offrire opportunità di
finanziamento responsabilizzando i destinatari, anche finanziariamente
attraverso il cofinanziamento, in modo da contribuire a formare una
vera e propria committenza in grado di definire i propri bisogni.
Infine, è importante creare sul territorio
nodi per sostenere i processi di cambiamento in ambito locale. Ciò
serve sia a dare agli interventi di sostegno un’estensione e una
capillarità territoriale che altrimenti non potrebbero avere; sia a
riconoscere anche in questo campo alle regioni ed al sistema delle
autonomie locali un ruolo coerente con l’evoluzione istituzionale in
atto.
Le Regioni e le Province, come i comuni
metropolitani, sono degli snodi fondamentali nella strategia del
Dipartimento.
Il Dipartimento intende promuovere
attivamente la realizzazione dei nodi territoriali offrendo se
necessario assistenza e mettendo a disposizione il know how.
In occasione dello scorso Forum PA, CANTIERI ha presentato un primo
bilancio delle sue attività: oltre
200 amministrazioni hanno partecipato attivamente alle diverse
iniziative nel periodo 2002/2003 (Laboratori di Innovazione, ecc.)
attraverso le quali CANTIERI ha prodotto strumenti operativi da
mettere a disposizione di tutte le amministrazioni; sono stati
realizzati sei manuali (programmazione del cambiamento, benessere
organizzativo, finanza innovativa, sponsorizzazioni, customer
satisfaction, call center)
e un rapporto su donne e
leadership che sono stati messi a disposizione delle
amministrazioni; oltre 3.000 dirigenti e funzionari pubblici hanno
partecipato alla sperimentazione del questionario sul benessere
organizzativo, strumento operativo oggi utilizzabile da tutte le
amministrazioni; oltre 200 comuni e province hanno condotto
l'autovalutazione delle loro condizioni organizzative attraverso il
VIC, lo strumento messo a punto da CANTIERI per la Valutazione
Integrata del Cambiamento; nell’ambito dell’iniziativa “i Successi di
Cantieri”, circa 80 amministrazioni hanno definito ed avviato Piani
Integrati di Cambiamento (PIC) che coinvolgono l’intera
organizzazione, per un totale di 270 progetti; il portale di CANTIERI
ha superato i 13.000 accessi mensili (oltre 500 al giorno) e vanta
circa 6.000 iscritti alla newsletter degli innovatori.
È ora in corso una nuova serie iniziative,
che fanno tesoro delle esperienze raccolte nel primo anno di
sperimentazione ed offrono nuove opportunità alle amministrazioni: i
Cantieri di Innovazione per le amministrazioni interessate ad
adottare soluzioni innovative in ambiti specifici quali customer
satisfaction, benessere organizzativo, donne e
leadership,
sponsorizzazioni; la seconda edizione de
I Successi di Cantieri
per le amministrazioni che hanno scelto di intraprendere un percorso
di innovazione organizzativa integrata; il
Campus di Cantieri per
la formazione dei manager pubblici.
CANTIERI, infine, sviluppa un progetto di
knowledge management system, per favorire la gestione integrata e
sistematica del patrimonio di conoscenze prodotto in collaborazione
con le amministrazioni e per promuovere un processo di apprendimento
continuo all’interno della comunità degli innovatori e più in generale
all’interno del sistema pubblico.
Oltre ai risultati già indicati, lo
straordinario successo di adesioni raccolto dai
Cantieri di Innovazione,
iniziativa lanciata solo il 7 maggio scorso, che hanno raccolto circa
1000 iscrizioni di amministrazioni, dimostra che all’interno delle
amministrazioni pubbliche cresce la domanda di innovazione. La
stagione delle riforme ha consegnato alle amministrazioni pubbliche un
maggiore grado di responsabilità, che richiede un rapido adeguamento
della loro capacità strategica e del
know-how
necessario alla realizzazione delle strategie di cambiamento.
Essere dalla parte delle amministrazioni in questa sfida è la missione
di CANTIERI, un programma di frontiera per lo sviluppo
dell’innovazione nelle amministrazioni pubbliche.
LA COMPETENZA DELLE SEZIONI REGIONALI DI
CONTROLLO DELLA CORTE DEI CONTI,
DOPO LA LEGGE N. 131 DEL 2003.
di
Rosario Scalia,
consigliere della Corte dei conti
Dopo l’entrata in vigore della legge 5
giugno 2003, n. 131, recante “Disposizioni per l’adeguamento
dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre
2001, n. 3”, si rende assolutamente necessario verificare il complesso
delle attribuzioni (competenza) di quella organizzazione “periferica”
della Corte dei conti che si occupa della missione del controllo;
controllo che continua a presentare i caratteri della indipendenza e
della esternalità.
L’organizzazione “periferica” della Corte
dei conti che si occupa, quindi, di svolgere le (diverse) attività di
controllo risulta, innanzitutto, posizionata a livello regionale; così
che, indipendentemente dal fatto che la Regione sia a Statuto
ordinario o a Statuto speciale, l’insieme delle Sezioni regionali di
controllo costituisce, ormai, la “periferia” dell’Istituto addetta a
tale missione.
L’omogeneità di denominazione dovrebbe
assicurare, nella sostanza, un (tendenziale) esercizio uniforme delle
attività di controllo, sia di quelle che si esprimono in un giudizio
di conformità (ai parametri delle legittimità), sia di quelle che si
esprimono in un giudizio di integrazione (ricorso ai parametri
dell’efficienza, dell’economicità, dell’efficacia).
E questo (tendenziale) esercizio uniforme
sul territorio nazionale delle attività di controllo, che per alcuni
aspetti risulta procedimentalizzato (nel caso di riscontro della
conformità di un atto/provvedimento a legge, quando esso si qualifica
come “preventivo”), costituisce un valore da coltivare.
Infatti, con esso si afferma che il
principio di eguaglianza (ex art. 3 Cost.) può ben coniugarsi con
quello dell’unitarietà del diritto (dovendo le burocrazie applicare la
legge in maniera uniforme, oltre che imparziale sull’intero territorio
nazionale).
Rispetto alla legge fondamentale – la
legge n. 20 del 1994 – la legge n. 131/2003 assume, solo per alcuni
aspetti, i connotati di una normativa integratrice della prima, con
tratti che sono anche di modifica dell’impianto normativo originario.
Mentre rimane invariato il sistema dei
controlli che si possono esercitare sulle amministrazioni statali
(politiche pubbliche di competenza), si registrano alcune diversità
per ciò che riguarda quello esercitabile sulle amministrazioni
regionali/locali.
La diversità rispetto all’organizzazione
prevista nella seconda metà degli anni ‘90, si presenta
nell’allocazione delle competenze (Sezione delle Autonomie
→ Sezioni regionali di controllo); ma essa va individuata anche
nella varietà dei campi (settori; materie; politiche pubbliche) su cui
il controllo è esercitabile.
Le schede che riassumono, quindi, la
ripartizione delle competenze tra il sistema organizzativo centrale e
il sistema organizzativo periferico sono da leggere in funzione del
perseguimento di un obiettivo essenziale: quello di avvicinare
l’attività di controllo alle comunità locali, sia ai cittadini sia
alle imprese.
Ma, come si è già avuto modo di notare, si
tratta di competenze che si aggiungono a quelle che la normativa
generale, compresa quella di più recente fattura (artt. 23, 24, 28 e
30, legge finanziaria per il 2003),
ha inteso intestare alla Corte dei conti, anche in capo alle sue
articolazioni periferiche.
Ciò che si dimostra apprezzabile è,
comunque, l’atteggiamento del legislatore nazionale: si nota, infatti,
lo sviluppo di una indifferenziata normazione, per ciò che riguarda il
controllo sulla gestione, che disciplina la competenza delle Sezioni
regionali operanti nelle Regioni a Statuto speciale e di quelle
operanti nelle Regioni a Statuto ordinario.
In definitiva, per tale via si è venuta
costruendo una normativa del sistema del controllo indipendente
esterno, proprio della Corte dei conti, che si dimostra sempre più
coerente con quella del sistema dei controlli interni, previsti dal
d.lgs. n. 286/1999.
Articoli estratti dalla L. 27 dicembre
2002, n. 289
(omissis)
23.
Razionalizzazione delle spese e flessibilità del
bilancio.
1. Per il conseguimento degli obiettivi di
finanza pubblica, le dotazioni iniziali delle unità previsionali di
base degli stati di previsione dei Ministeri per l'anno finanziario
2003 concernenti spese per consumi intermedi non aventi natura
obbligatoria sono ridotte del 10 per cento. In ciascuno stato di
previsione della spesa è istituito un fondo da ripartire nel corso
della gestione per provvedere ad eventuali sopravvenute maggiori
esigenze di spese per consumi intermedi, la cui dotazione iniziale è
costituita dal 10 per cento dei rispettivi stanziamenti come
risultanti dall'applicazione del periodo precedente. La ripartizione
del fondo è disposta con decreti del Ministro competente, comunicati,
anche con evidenze informatiche, al Ministero dell'economia e delle
finanze, tramite gli Uffici centrali del bilancio, nonché alle
competenti Commissioni parlamentari e alla Corte dei conti.
…
5. I provvedimenti di riconoscimento di
debito posti in essere dalle amministrazioni pubbliche di cui
all'articolo 1, comma 2, del
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, sono trasmessi
agli organi di controllo ed alla competente procura della Corte dei
conti.
(omissis)
24.
Acquisto di beni e servizi.
…
5. Anche nelle ipotesi in cui la vigente normativa consente la
trattativa privata, le pubbliche amministrazioni possono farvi ricorso
solo in casi eccezionali e motivati, previo esperimento di una
documentata indagine di mercato, dandone comunicazione alla sezione
regionale della Corte dei conti.
8. I servizi prestati dalla CONSIP Spa alle società per azioni
interamente partecipate dallo Stato ai sensi dell'articolo 32, comma
1, della
legge 28 dicembre 2001, n. 448, nei confronti delle quali è
previsto il controllo della Corte dei conti ai sensi dell'articolo 12
della
legge 21 marzo 1958, n. 259, e successive modificazioni,
sono remunerati nel rispetto della normativa comunitaria di settore.
(omissis)
28.
Acquisizione di informazioni.
6. Il comma 6 dell’articolo 227 del testo
unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al
decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, è sostituito dal seguente:
«6. Gli enti locali
di cui all'articolo 2 inviano telematicamente alle Sezioni enti locali
il rendiconto completo di allegati, le informazioni relative al
rispetto del patto di stabilità interno, nonché i certificati del
conto preventivo e consuntivo. Tempi, modalità e protocollo di
comunicazione per la trasmissione telematica dei dati sono stabiliti
con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell'interno, di
concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentite la
Conferenza Stato, città e autonomie locali e la Corte dei conti.».
(omissis)
…
15. Qualora gli enti territoriali
ricorrano all'indebitamento per finanziare spese diverse da quelle di
investimento, in violazione dell'articolo 119 della
Costituzione, i relativi atti e contratti sono nulli. Le
sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti possono
irrogare agli amministratori, che hanno assunto la relativa delibera,
la condanna ad una sanzione pecuniaria pari ad un minimo di cinque e
fino ad un massimo di venti volte l'indennità di carica percepita al
momento di commissione della violazione.
(omissis)
Il sistema organizzativo centrale del
controllo della Corte dei conti.
L. n. 20/94
Sezione delle Autonomie
(ex Enti Locali)
1.
Referto generale sulla finanza locale (Comuni con + 8.000
abitanti/Comuni dissestati)
natura del controllo: finanziario
Parlamento
2.
Referti specifici su politiche pubbliche gestite da
Regioni/Enti Locali/altre istituzioni
natura del controllo: controllo sulla gestione
Parlamento |
L. n. 131/2003
Sezione delle Autonomie
(ex Enti Locali)
1.
Referto generale sul rispetto dei parametri fissati dal “Patto di
stabilità e di crescita” da parte di Regioni/di Enti Locali
natura del controllo: finanziario
destinatario
Parlamento
2.
Competenza attribuita alle Sezioni regionali di controllo
natura del controllo: controllo sulla gestione
Organi
rappresentativi
della volontà
popolare
(Parlamento/Consiglio regionale / Consigli enti locali) |
Il sistema organizzativo periferico
del controllo della Corte dei conti.
L. n. 20/94
Sezione delle Autonomie
(ex Delegazioni regionali)
1.
Referto generale sulla (sana) gestione finanziaria
dell’Ente Regione
destinatario
Consiglio regionale
|
L. n. 131/2003
Sezioni regionali di controllo
1.
Competenza confermata
2.
Referti generali/specifici sulla (sana) gestione
finanziaria degli Enti Locali
destinatario
Consigli
provinciali/metropolitani/comunali/ etc. |
Il
sistema organizzativo periferico
del
controllo della Corte dei conti.
Il controllo
sulla gestione: le competenze
L. n. 20/94
Sezioni regionali di controllo
(ex Delegazioni regionali)
1.
Referti specifici sulle politiche pubbliche statali
(legislazione gestita da istituzioni
operanti sul territorio regionale)
destinatario
Parlamento
2.
Referti specifici sulle politiche pubbliche regionali
destinatario
Consiglio regionale
3.
Referti specifici sulle politiche pubbliche
provinciali/comunali etc.
destinatario
Consigli
provinciali/comunali etc. |
L. n. 131/2003
Sezioni regionali di controllo
1.
Competenza confermata
2.
Competenza confermata
3.
Competenza confermata.
|
A questo punto, la nostra attenzione si
concentra sulle tipologie del controllo indipendente esterno della
Corte; in particolare, su quelle che sono attribuite alle Sezioni
regionali di controllo (nelle Regioni a Statuto ordinario). E non ci
si può esimere, a questo punto dell’evoluzione normativa, dal
sostenere l’importanza che assume la Corte dei conti quando ci si
ritrova a dover controllare la gestione delle politiche pubbliche
statali, regionali, locali (visione integrata di esse).
A tale Organo spetta il compito, infatti,
di sottoporre agli organi rappresentativi della volontà popolare
l’influenza che i diversi livelli di governo necessariamente
esercitano sui cittadini, sulle imprese; una influenza che è fatta di
azioni e reazioni sempre più complesse, e la cui lettura deve essere
affidata a un corpo magistratuale, quello contabile, che deve spingere
il suo giudizio fino a una valutazione (giudizio) dei comportamenti
dei gestori, tale che sia in grado di cogliere i benefici in rapporto
ai costi sopportati (dalla collettività).
Ma, all’orizzonte, si è venuta
materializzando un’altra tipologia di controllo, quella che ha natura
di vigilanza; controllo che il legislatore ha posto a presidio del
rispetto di un obiettivo: contenere i costi nell’acquisizione di
beni/di servizi da parte della Pubblica amministrazione (art. 24, 5°
c., l. n. 289/2002).
Si tratta di una competenza che
arricchisce il set di interventi che una Sezione regionale di
controllo può mettere in campo per contenere il livello della spesa
(di parte corrente).
Riassumendo, la missione del controllo
indipendente esterno si concretizza nell’espletamento di interventi
che possono così configurarsi:
controllo ex ante
controllo concomitante
(monitoraggio)
controllo ex post
|
1. su atti
2. su provvedimenti (programmi;
progetti)
1. sulle spese (costo del lavoro;
acquisto
beni/servizi)
3. sull’attività amministrativa
1. controllo finanziario
2. controllo di gestione (legittimità;
efficienza;
economicità; efficacia)
3. valutazione delle politiche
pubbliche
(efficacia della legge)
|
gestione finanziaria
|
2. Le
attribuzioni delle Delegazioni regionali di controllo
®
Sezioni regionali di controllo (Regioni a statuto ordinario): dalle
amministrazioni statali al resto del sistema delle istituzioni
pubbliche.
Le attribuzioni delle Delegazioni regionali di controllo (ora, Sezioni
regionali di controllo) sono stati definite sempre con legge o con
atto normativo di pari rilevanza (decreto legislativo).
Negli anni successivi all'entrata in vigore del decreto legislativo 3
febbraio 1993, n. 29, la legislazione nazionale ha intestato, infatti,
a tali articolazioni periferiche della Corte alcune attribuzioni:
a) alcune di tipo tradizionale;
b) alcune altre di tipo innovativo, ma pur sempre rientranti
nell'ottica del controllo sulla gestione quale definito dall'art. 3,
4°c., della legge n. 20/94.
In questo schema ne risultano indicate alcune.
La Sezione regionale di controllo.
I controlli di tipo innovativo intestati
alla struttura periferica per legge.
POLITICHE
PUBBLICHE |
RIFERMENTO
NORMATIVO |
|
|
ISTRUZIONE SCOLASTICA |
L. 24.12.1993, n. 537 (art. 4, 19°
c.) |
|
|
INTERVENTI STRAORDINARI PER
CALAMITA' |
L. 21.1.1995, n. 22 (art. 2, 7° c.) |
|
|
LOTTA ALLA TOSSICODIPENDENZA |
L. 28.3.1996, n. 86 (art. 1, 14°c.) |
|
|
REDDITI DEI DIPENDENTI PUBBLICI |
D.lgs. 29.10.1998, n. 387
(art. 14; art. 52, 6° c., d.lgs. n.
29/93) → d.lgs. n. 165/01 |
2.1 Il
controllo sulla resa dei conti (rendiconti amministrativi/contabilità
speciali) dei funzionari periferici dei Ministeri. Cenni e rinvio.
Il controllo sulla resa dei conti, che costituisce uno dei doveri
d'ufficio di chi è responsabile, a livello di istituzioni periferiche
dei Ministeri, della gestione delle risorse finanziarie assegnategli
dal "centro" (a mezzo di ordini di accreditamento), era uno dei
compiti “tradizionali” della Delegazione regionale di controllo.
Ora, tale compito risulta intestato alla Sezione regionale di
controllo istituita anch'essa nelle Regioni a statuto ordinario dalla
legge statale n. 131/2003.
Il controllo presenta due aspetti:
a) quello squisitamente contabile, inteso a verificare che le
scritture contabili (registrazione elettronica) della Corte risultino
identiche a quelle tenute dalla Ragioneria generale dello Stato;
b) quello di verifica del corretto utilizzo delle risorse gestite, che
si attualizza nella verifica del rispetto della legislazione statale
applicabile ai diversi aspetti della gestione (ad es., corresponsione
dello "straordinario" al personale; oppure, adeguamento alla
legislazione comunitaria in materia di acquisto di beni informatici;
oppure, corretta manutenzione di beni immobili/mobili).
Allorché si effettua il controllo contabile, è naturale che il settore
dalla Sezione regionale che se ne occupa (Centrale dei bilanci)
verifichi che sia stato rispettato il termine entro il quale vanno
resi i conti, risultando avvisata la Corte dell'avvenuto deposito
degli atti contabili e dei c.d. "giustificativi" di spesa presso
l'organo di primo livello del riscontro contabile, a mezzo del modello
27 C.G. (comunicazione di avvenuto adempimento di legge).
In tal senso, la Sezione è obbligata a svolgere un'azione di vigilanza
su tutti i funzionari delegati, nonché su quelli che siano tenuti a
rendere il conto a istituzioni diverse dalla Ragioneria Generale dello
Stato; queste ultime sono tenute, peraltro, ad assicurare il primo
grado di riscontro di regolarità contabile/verifica (controllo di I
livello).
Naturalmente, il rendiconto va riscontrato "funditus" ove si
sia programmata una indagine
ad hoc, in quanto la Corte è anche "il controllore dei
controlli", dovendo suggerire quelle tecniche e quei metodi utili a
migliorare l'attività dell'istituzione che si occupa del mero
riscontro contabile (giudizio da esprimere sulla funzionalità dei
controlli interni, di natura amministrativo-contabile, ove eseguiti).
La Sezione regionale di controllo.
I controlli di tipo tradizionale: la tenuta
dei registri contabili informatizzati.
Fonte: d.lgs. 20.4.1994, n. 367 (art. 9,
5° c.)
La giurisprudenza della Corte dei conti
in tema di resa dei conti (rendiconti
amministrativi/contabilità
speciali).
Fonte: nota di coordinamento del 15.11.1999 del Presidente di sezione
preposto al coordinamento del controllo successivo sulla gestione.
La Sezione regionale di controllo
della Corte dei conti.
La vigilanza sui funzionari delegati;
il controllo sulla gestione (a campione)
VIGILANZA |
|
1.
iscrizione del 27 C.G. sul registro contabile
(informatizzato)
2.
verifica del rispetto dei termini di presentazione del
conto al controllo dell'organo di riscontro di 1° livello |
|
|
|
|
|
|
CONTROLLO
SULLA GESTIONE |
|
1.
richiesta dei documenti giustificativi presentati in sede
di resa del conto all'organo di riscontro di 1° livello
(legittimità; regolarità contabile)
2.
analisi della funzionalità dell'organo di riscontro di 1°
livello (controllo interno = audit di natura organizzativa)
3.
riscontro di atti/provvedimenti su campione definito
(parametri: legittimità; efficienza; economicità, efficacia |
Fonte: nota di coordinamento del 15.11.1999 del Presidente di sezione
preposto al coordinamento del controllo successivo sulla gestione.
La Sezione regionale di controllo
della Corte dei conti.
La vigilanza sui funzionari delegati,
obbligati alla resa del conto.
Fonte: d.P.R. n. 367 del 1994 (artt. 9 e 10)
2.2. L'apporto della Sezione regionale di controllo alla parificazione
del Rendiconto generale dello Stato: la registrazione dei decreti di
accertamento dei residui passivi.
Lo stesso settore della (ex) Delegazione regionale di controllo,
che si occupa di tenere sotto controllo i funzionari delegati
(dirigenti periferici) dei Ministeri (Centrale dei bilanci), è tenuto,
secondo le disposizioni vigenti, a controllare che gli stessi emettano
– alla fine dell'anno – i relativi decreti con i quali si accerta
l'esistenza di somme non spese (residui): i decreti di accertamento
dei residui passivi.
Tale atto ricognitivo assume un duplice valore:
a)
quello di porre in evidenza le cause che abbiano determinato il
formarsi, al 31 dicembre dell'anno, di una certa quale massa
finanziaria non utilizzata ancorché impegnata (analisi dei motivi);
b)
quello di porre in condizione il decisore politico di
ricalibrare gli interventi finanziari in considerazione della
(ri)programmazione annuale che rientra nella sua sfera di competenza
(art. 14, 1° c., d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 e successive
modificazioni e integrazioni).
La registrazione dei decreti di accertamento dei residui (controllo
ex ante) costituisce uno dei momenti di partecipazione delle
articolazioni regionali della Corte al processo di parificazione del
Rendiconto generale dello Stato (art. 3, 2° comma, lett. h, legge n.
20/94) di competenza delle Sezioni riunite in sede giurisdizionale.
La Sezione regionale di controllo.
I controlli di tipo tradizionale.
AMMINISTRAZIONI DELLO STATO
Fonte: art. 3, 1° c., lett. h, l. 14.1.1994, n. 20
3. Il controllo (ex ante) di
legittimità su atti emanati dai dirigenti degli uffici periferici dei
Ministeri.
Il controllo di legittimità si può
esercitare
1.
su atti amministrativi, che di per sé comportano un esborso di
pubblico denaro; oppure
2.
su atti contabili, dei quali si effettua il riscontro ai fini della
corretta tenuta dei propri registri di carico e scarico (sistema
contabile integrato a registrazione informatica RGS – Corte dei
conti).
La Sezione regionale controlla, secondo lo
schema della verifica “ex ante”, la tipologia di atti che
risulta prevista dall'art. 3, 1° c., della legge n. 20/94.
La sezione regionale di controllo.
Gli atti sottoposti a controllo (ex ante) di legittimità
(Ministeri).
|
Tipologia di atti |
L. 14.1.1994
(art. 3, 1° comma) |
|
lettera b) |
conferimento di incarico di funzioni
dirigenziali (contratto di diritto privato) |
lettera f) |
provvedimenti di disposizione del
demanio e del patrimonio immobiliare |
lettera g) |
decreti che approvano contratti
delle Amministrazioni dello Stato:
1.
attivi, di qualunque importo;
2.
di appalto d'opera, se di importo superiore al valore in
ECU stabilito dalle normative comunitarie per l'applicazione
delle procedure di aggiudicazione dei contratti stessi;
3.
altri contratti passivi, se di importo superiore di un
decimo del valore suindicato. |
lettera h) |
decreti di accertamento dei residui
(DAR) |
Il controllo (ex ante) di legittimità risulta, comunque,
circoscritto ad alcune specifiche fattispecie (numerus
clausus).
Naturalmente, le procedure e i tempi di
conclusione della procedura di controllo sono ormai quelli stabiliti
dall'art. 27 della legge 24.11.2000, n. 340.
3.1. La disciplina valevole per il controllo (ex ante) di
legittimità su atti.
Per il controllo (ex ante) di
legittimità su atti vale ormai la disciplina contenuta nell'art. 27
della legge 24 novembre 2000 , n. 340:
a)
la procedura di controllo deve esaurirsi nei 60 giorni successivi a
quello di ricezione dell'atto da parte della Sezione
b)
l'Amministrazione, ove le vengano formulate osservazioni/richieste da
parte della Sezione (rectius, da parte del magistrato
istruttore/del Collegio), è tenuta a rispondere non oltre il 30°
giorno dalla ricezione dell'ordinanza istruttoria (ciò costituisce un
obbligo di servizio per il responsabile del procedimento, la cui
inosservanza va sanzionata a termini di CCNNL);
c)
costituisce obbligo per la Sezione far conoscere l'esito della
deliberazione assunta dall'organo collegiale all'Amministrazione
interessata entro le ventiquattro ore successive alla fine
dell'adunanza;
d)
la Sezione, convocata in collegio, può chiedere informazioni (diverse
da quelle che ha richiesto il magistrato istruttore) in modo da avere
il quadro di riferimento nei dettagli;
e)
trascorsi i 60 giorni senza che la Sezione (Collegio) si sia
pronunciata, l'atto diventa esecutivo.
Con nota n. 279 del 29 novembre 2000 (e
successivamente con nota n. 284 del 7 dicembre 2000) l'Ufficio del
Presidente addetto al coordinamento sul controllo
preventivo/successivo ha fatto presente che:
1.
«il termine per l'esercizio del controllo, non più diviso in due
distinti tempi, l'uno monocratico e l'altro collegiale, è fissato
indistintamente in 60 giorni decorrenti dalla ricezione degli atti da
parte del competente ufficio della Corte»;
2.
«l'anzidetto termine di 60 giorni viene sospeso in presenza di
eventuali richieste istruttorie (quindi anche collegiali) e che la
sospensione non può essere superiore a 30 giorni»;
3.
nel caso in cui la dirigenza interessata non risponda, il Collegio può
emettere il suo giudizio "allo stato degli atti" e, quindi, non
ritenere apponibile il visto e non effettuabile la conseguente
registrazione.
D'altra parte, in quest'ultima ipotesi, è
consentito all'Amministrazione (ufficio dirigenziale) di presentare
appello avverso tale decisione alle Sezioni Riunite in sede di
controllo, richiedendo il riesame della questione.
Il meccanismo di valutazione della
decisione assunta dalla magistratura di primo livello (sotto forma di
appello all'autorità giudiziaria di livello superiore) risulta
disciplinato dalla legislazione relativa all'attività di competenza
delle Sezioni regionali di controllo istituite nelle Regioni e
Province a statuto speciale.
In sostanza si è inteso mutuare il modello
di natura (para)giurisdizionale presente, peraltro già da tempo, nel
nostro sistema ordinamentale.
L’obiettivo del coordinamento tra Sezioni,
nell’ambito di quelle operanti nelle quindici Regioni a statuto
ordinario, si realizza, invece, attraverso il meccanismo previsto
dall’art. 2, 6° c., del regolamento delle funzioni di controllo della
Corte dei conti (SS.RR. delib. n. 14/DEL/2000).
L’unità dell’ordinamento: come lo
realizza la Corte dei conti.
Art. 2
(omissis)
6. Il presidente della sezione (regionale
di controllo, n.d.r.) attribuisce gli incarichi relativi
all’istruttoria ai magistrati assegnati ....
Ove si renda necessaria la risoluzione di
questioni di massima di particolare importanza, la pronuncia sul visto
è deferita alla sezione centrale di controllo di legittimità su atti
del governo e della sezione centrale di controllo di legittimità su
atti del Governo e delle amministrazioni dello Stato, ai sensi
dell’art. 24 del regio decreto 12 luglio 1934, n. 124, commi secondo e
quinto, come sostituito dall’art. 1 della legge n 21 marzo 1953, n.
161.
(omissis)
Fonte: Corte dei conti (SS.RR. delib. 6
giugno 20009 – Regolamento per l’organizzazione delle funzioni di
controllo della Corte dei conti (GURI n. 156 del 6/7/2000)
3.2. Le forme e i modi con cui si esprime la Sezione regionale di
controllo. I rapporti con l'utenza interessata agli esiti del
controllo sulla gestione programmato ed eseguito.
Si è avuto modo di osservare che la
qualificazione degli atti/dei provvedimenti di competenza dei
magistrati addetti al controllo non ha formato finora oggetto di
attenzione specifica da parte della stessa magistratura contabile:
a)
in particolare, si controverte sul fatto che la lettera che contiene
la richiesta dei dati/di informazioni, rivolta al dirigente
dell'Ufficio sottoposto a controllo, possa chiamarsi "nota"; mentre
altri qualificano tale atto come una vera e propria "ordinanza
istruttoria" in considerazione del fatto che da essa scaturisce
l'obbligo di attivazione di un procedimento amministrativo
(l'inosservanza del termine massimo fissato può comportare la denuncia
all'A.G.O. del responsabile del procedimento per "omissione di atti
d'ufficio");
b)
inoltre, si controverte sulla opportunità di qualificare come
ordinanze istruttorie (di competenza sempre del magistrato istruttore)
le richieste di informazioni/di dati contenute in questionari di
controllo che vanno necessariamente elaborati ad hoc; in
merito, si ritiene di poter condividere la tesi secondo cui, anche in
questo caso, l'ordinanza istruttoria costituisca in mora la
burocrazia, che è tenuta ad adempiere nel tempo dallo stesso
magistrato istruttore fissato;
c)
ancora, gli accertamenti e le ispezioni costituiscono strumenti tipici
di lavoro della magistratura penale; in questo caso, è naturale che il
magistrato istruttore prende contatto con il Nucleo del Corpo della
Guardia di Finanza che, in ogni capoluogo di Regione, assiste
normalmente la Procura regionale della Corte stessa.
Non è preclusa, comunque, la facoltà di assegnare compiti di tal
genere agli operatori in servizio presso organismi centrali o che sono
attivi anche a livello locale (Servizio ispettivo centrale; Servizio
ispettivo periferico).
In ogni caso, l'atto con il quale si
approva il set di indagini che si intendono effettuare nell'anno
(programma) è stato da tempo denominato "deliberazione". La stessa
terminologia viene usata all'atto dell'approvazione delle singole
relazioni da parte del Collegio della sezione: ciò può costituire
momento di dibattito di una certa quale rilevanza non essendo la
qualificazione di un atto istituzionale questione da sottovalutare.
Attività (para)giurisdizionale |
|
Qualificazione giuridica
dell'atto prodotto |
|
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decisione |
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2.
Richiesta di dati/informazioni |
|
ordinanza istruttoria |
|
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3.
Verifica di regolarità contabile (a campione) |
|
deliberazione |
|
|
|
4. Verifica di legittimità di
atti/provvedimenti (a campione) |
|
deliberazione |
|
|
|
5. Nomina consulenti/periti |
|
decreto |
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|
|
6. Accertamento delle tre E
(efficienza/effica-cia/economicità) |
|
deliberazione |
|
|
|
7. Valutazione dello stato di
perseguimento degli obiettivi di legge (piani/programmi) |
|
decisione |
|
|
|
8. Verifica delle misure assunte per
migliorare l'azione amministrativa/tecnica |
|
deliberazione |
Il
controllo indipendente esterno sulle
burocrazie pubbliche.
Come si lavora in una Sezione regionale
di
controllo della Corte dei conti.
Tipologia dell'atto
|
Ente interessato
(art. 2, 2° comma)
|
Oggetto dell'attività istruttoria
|
A. Programma annuale Regione/Enti
strumentali
Deliberazione collegiale
|
Politiche pubbliche
da indicare
|
B. Osservazioni in corso di
istruttoria
Deliberazione collegiale
|
1. tempi di realizzazione del
programma/del piano
2. modi di realizzazione del
programma/del piano
3. costi di realizzazione del
programma/del piano
|
Decisione collegiale
|
perseguimento degli obiettivi di legge
individuazione degli utenti (grado di soddisfazione/mutamenti
sociali provocati) |
Deliberazione collegiale
|
verifica di esse in termini di
- tempestività (tempi)
- utilità
- economicità (costi)
|
Fonte: delib. SS.RR. della Corte dei conti del 16.6.2000.
Il
controllo indipendente esterno sulle
burocrazie pubbliche.
Come si lavora in una Sezione regionale
di
controllo della Corte dei conti.
Tipologia dell'atto
|
Ente interessato
(art. 2, 2° comma)
|
Oggetto dell'attività istruttoria
|
A. Programma annuale
1.
Enti locali/Enti strumentali
2. Altre istituzioni con caratteristiche di
autonomia
Deliberazione collegiale
|
Verifica della gestione dell'attività
(amministrativa/tecnica/tecnico-amministrativa) di almeno due
istituzioni (confronto) sotto il profilo (parametri):
- della legalità
- della efficienza
- della economicità
|
B. Osservazioni in corso di
istruttoria
Deliberazione collegiale
|
in ordine:
- all’organizzazione
- all'attività svolta (tempi/modi)
- all'attività svolta (costi
diretti/indiretti)
- alla soddisfazione degli utenti
(efficacia) |
C. Valutazione
Decisione collegiale
|
1. indicazione delle misure da
assumere
2. valutazione di funzionalità dei
controlli interni:
- regolarità amministrativa
- regolarità contabile
- sistema di verifica della gestione |
D. Misure assunte
Deliberazione collegiale
|
verifica di esse in termini di:
- tempestività (tempi)
- utilità
- economicità (costi) |
Fonte: delib. SS.RR. della Corte dei conti del 16.6.2000.
Il controllo indipendente esterno sulle
burocrazie pubbliche.
Come si lavora in una Sezione regionale
di controllo della Corte dei conti.
Tipologia dell'atto
|
Ente interessato
(art. 2, 3° comma) |
Oggetto dell'attività istruttoria
|
A. Programma annuale
Strutture periferiche delle
amministrazioni statali
Deliberazione collegiale
|
Verifica della gestione dell'attività
|
B. Osservazioni in corso di
istruttoria
Deliberazione collegiale
|
in ordine:
- all’organizzazione
- all'attività svolta (tempi/modi)
- all'attività svolta (costi
diretti/indiretti)
- alla soddisfazione degli utenti
(efficacia) |
C. Valutazione
Decisione collegiale
|
3. indicazione delle misure da
assumere
4. valutazione di funzionalità dei
controlli interni:
- regolarità amministrativa
- regolarità contabile
- sistema di verifica della gestione |
D. Misure assunte
Deliberazione collegiale
|
verifica di esse in termini di
- tempestività (tempi)
- utilità (modi)
- economicità (costi) |
Fonte: delib. SS.RR. della Corte dei conti
del 16.6.2000.
4. Il controllo
sulla gestione delle burocrazie periferiche delle Ammini-strazioni
dello Stato. La valutazione dei piani e dei programmi di interventi
effettuati con risorse finanziarie del bilancio statale.
La Sezione regionale di controllo può
effettuare il controllo sulla gestione delle strutture periferiche dei
Ministeri, a condizione che le relative indagini siano inserite nel
programma annuale e ne sia data notizia dell'approvazione (controllo "no
surprise").
Tuttavia, è consentita l'attivazione di
una indagine (che si discosti da quelle programmate) alle condizioni
previste e nel rispetto della procedura (comunicazione) di cui
all'art. 3, 12 comma, della legge 14 gennaio 1994, n. 20.
Il controllo sulla gestione, secondo la
costante giurisprudenza della Sezione controllo Stato (fino al 2000),
deve sfociare in un giudizio sui «tempi, costi e modi» della
realizzazione degli interventi contenuti in atti di
programmazione/pianificazione, che, in genere, sono approvati dal
decisore politico (Ministro); e che vanno, necessariamente, attuati
sul territorio, avendo essi come destinatari i cittadini che nelle
diverse aree risiedono (comunità locale).
Fonte: D.lgs. 30.7.1999, n. 286 (G.U.R.I.
n. 193 del 18.8.1999).
________________________________
*
In G.U.R.I. n. 21 del 26.1.2001
Il controllo sulla gestione richiede, in
ogni caso, che si valuti la soddisfazione degli utenti dell'ufficio
analizzato.
E necessariamente di esso devono essere
posti in chiari gli elementi che contribuiscono alla elaborazione del
prodotto/del servizio: le risorse umane, quelle strumentali (comprese
quelle informatiche) e quelle finanziarie di cui la dirigenza dispone,
in un determinato periodo (anno/biennio/triennio).
Solo una analisi svolta, auspicabilmente
in concomitanza, sul funzionamento dell'apparato amministrativo
consente di valutare la produttività gestionale (performances)
dello stesso.
5. L'analisi delle politiche pubbliche: la
valutazione dei piani e dei programmi di competenza delle Regioni.
L'analisi delle politiche pubbliche di
competenza dell'Ente Regione (legislazione regionale di settore) può
riguardare un livello di giudizio più alto investendo i comportamenti
dei responsabili (anche politici) della gestione: in questo caso si
esprime una valutazione sull'effettivo perseguimento degli obiettivi
fissati da leggi di principio (leggi-quadro) e da leggi di programma,
approvate dal Consiglio regionale.
Tale valutazione è il "prodotto"
dell'attività di controllo indipendente esterno, che costituisce
esecuzione degli articoli 97, 100, 2° comma, e 119 della Carta
Costituzionale del 1948.
La Corte dei conti, anche sulla base delle
considerazioni espresse dalla sentenza n. 29/95 della Corte
Costituzionale,
ha ritenuto di poter affermare che:
1. La Corte dei conti è tenuta a svolgere,
secondo quanto previsto dalla legge n. 20/94, una specifica attività
di controllo, quella sulla gestione, che si configura, per ciò che
riguarda l'ente Regione, come una valutazione dei piani o dei
programmi; valutazione che deve consentire di porre in evidenza,
utilizzando il complesso degli strumenti di conoscenza della gestione
di "materie, settori, interventi" de qua impiantati da ciascuna
organizzazione, gli eventuali scostamenti dagli obiettivi prefissati o
indicati, più o meno esplicitamente, nella legislazione di settore.
2. Il documento del programma annuale, in
particolare, che viene indicato dalla legislazione di settore
(comunitaria, nazionale, regionale) come il risultato di una attività
di pianificazione partecipata, costituisce sintesi di un dibattito che
tiene conto delle istanze provenienti da più parti. Il documento del
programma annuale, che indica l'entità delle risorse finanziarie
(nazionali-comunitarie) destinate a soddisfare le esigenze dei diversi
segmenti (destinatari) del mercato del lavoro, (n.d.a. si fa
riferimento alla politica pubblica della formazione professionale),
individua gli obiettivi che auspicabilmente il responsabile politico
intende perseguire ai diversi livelli di governo
(Stato-Regione-Provincia).
3. La valutazione della Corte dei conti in
ordine al grado di successo conseguito da ciascun intervento deve
essere, quindi, assai mirata, dovendo tenere conto di una ampia serie
di pre-condizioni e di vincoli che sono da leggere e riscontrare nel
documento di programmazione.
Pertanto, la definizione degli indici,
riguardanti i diversi aspetti dell'efficienza, dell'efficacia e della
economicità relativi allo stato di esecuzione dei programmi approvati,
deve essere curata mettendo a confronto modelli identici o, comunque,
situazioni identiche o fortemente similari (individuazione di
strutture con identica capacità attuativa).
4. Nell'attività di valutazione non può
non rientrare la ricerca del ruolo che le istituzioni comunitarie e
nazionali, ai vari livelli di governo, riescono a sviluppare nei
rapporti con l'ente Regione.
5. Naturalmente, l'attività di valutazione
che è la frontiera del controllo indipendente esterno, comporta
l'evidenziazione dei costi delle varie fasi in cui si articola il
programma annuale degli interventi formativi, fermo restando il fatto
che un giudizio di congruità della spesa, effettuata rispetto alle
esigenze espresse dal mercato del lavoro, può essere assicurato almeno
non prima di due anni dalla conclusione dell'intervento formativo
realizzato (efficacia dell'azione).
6. Ciò significa che la valutazione del
programma (annuale/pluriennale) degli interventi formativi può essere
realizzata in concomitanza alla sua pratica esecuzione solo per alcuni
aspetti (adeguatezza del sistema dei controlli interni; efficienza
interna dell'agenzia formativa; economicità dell'attività svolta
dall'apparato), ma occorrerà riportarlo sotto analisi a distanza di
tempo (n + 1; n. + 2; n + 3, ...), se l'obiettivo del controllo (ad
es. l’analisi dell'efficacia della spesa) risulta essere proprio
questo.
Siffatta tipologia di analisi assume una
rilevanza ben specifica alla luce delle puntuali linee-guida contenute
nel Piano d'azione nazionale per l'occupazione 1998, ora riconfermate
dallo stesso Piano per il 1999: gli interventi della formazione
professionale non devono costituire, infatti, un palliativo per chi ne
usufruisce, ma una occasione in più (opportunità) offerta
all'individuo per entrare nella vita attiva (si ricordi che queste
notazioni sono tratte da un referto sul tema della formazione
professionale).
7. L'attività di valutazione del
programma, d'altra parte, sconta i differenziati tempi d'avvio dei
corsi rispetto alla conclusione della procedura di assegnazione delle
risorse disponibili relative a un certo anno finanziario; così che
nell'anno 1997 possono entrare, ad esempio, in esecuzione corsi che
costituiscono parte del programma finanziario dell'anno 1996 o anche
di anni precedenti.
Ugualmente, visitando un centro di
formazione professionale, nel corso (ad esempio) del 1998, possono
ritrovarsi attivati corsi il cui finanziamento si riferisce al
programma dell'anno 1996; essendo articolato in un biennio, il primo
anno è stato avviato ad esecuzione, il secondo, naturalmente, lo sarà
dopo.
8. Il controllo sulla gestione, sotto il
profilo della valutazione del programma, deve, tuttavia, rivolgere la
sua attenzione al sistema amministrativo (centrale/periferico) che del
perseguimento dei risultati è responsabile. Di esso, quindi, si deve
avere cura di analizzare l'organizzazione e le risorse (umane,
finanziarie, strumentali) che al suo funzionamento risultano
assegnate.
9. I processi decisionali, che sono
riferibili ai vari soggetti coinvolti nelle diverse fasi della
programmazione, devono essere ugualmente sottoposti a verifica al fine
di poter applicare via via ad essi indici che assumano una sempre
maggiore significatività (tale, ad es., può essere quello inteso a
misurare i tempi di conclusione del relativo procedimento di utilizzo
delle risorse).
10. Nell'intento di porre in evidenza
l'impatto che il sistema delle regole (disciplina), soprattutto quando
sia elaborato aliunde (sede comunitaria), possa avere sulla
cultura delle istituzioni nazionali (vari livelli di governo), la
Corte dei conti ritiene che, sotto il profilo metodologico, sia
opportuno far precedere l'analisi dal quadro delle attribuzioni che
rientrano nella sfera decisionale dei soggetti (pubblici-privati)
interessati alla politica pubblica in questione.
11. Occorre notare, a tal proposito, che
il sistema normativo di fonte comunitaria ha, nei fatti, ridotto
l'incidenza delle disposizioni elaborate dall'ente Regione
nei riguardi dei soggetti richiamati.
12. L'identificazione degli obiettivi di
un programma (compreso quello relativo a determinati interventi
formativi) si può qualificare l'atto presupposto necessario per
costruire quel sistema di analisi che, nel rispetto della massima
obiettività di giudizio conseguibile allo stato delle informazioni
raccolte, sia in grado di indicare il grado di scostamento.
13. L'attività di valutazione richiede che
si pervenga all'esposizione anche degli obiettivi che il Paese, nelle
sue articolazioni politiche territoriali (Regioni-Province) ha
ritenuto di esplicitare, per ciò che riguarda il ricorso alla
formazione professionale come strumento di lotta alla disoccupazione,
nei Piani d'azione nazionale per l'occupazione del 1998 e del 1999;
obiettivi che vanno letti in relazione alla situazione
economico-sociale propria di ciascuna Regione.
D'altra parte, nel 1999, si è concluso il
processo decisionale, avviato nel 1998, promosso dalla Presidenza del
Consiglio (D.P.C.M. 20.4.1999, n. 166), che ha portato alla
individuazione di un centro di responsabilità operante a livello di
Governo nazionale, con il compito di sottoporre a monitoraggio il
complesso delle attività (misure) poste in essere dal Paese per
combattere la disoccupazione.
14. Rientra nell'attività di controllo
sulla gestione, riguardata sotto il profilo della valutazione di un
piano/di un programma, lo svolgimento, da parte della Corte dei conti,
di una attenta ponderazione dell'adeguatezza delle organizzazioni (audit
organizzativo) impegnate ad assicurare adempimento alla diversa
tipologia di funzioni che sono da riconnettere ai momenti di messa a
punto/attuazione di un programma (annuale/pluriennale).
15. A monte dell'attività di controllo
sulla gestione, che la Corte dei conti ha ritenuto di dover effettuare
(indagini specifiche), si avverte l'esigenza di individuare le
organizzazioni che sono tenute a svolgere le suindicate funzioni,
dalla cui interazione può discendere il corretto perseguimento degli
obiettivi predefiniti (solo se essa si realizza, nei fatti, a scadenze
prestabilite).
Queste riflessioni si dimostrano utili in
quanto costituendo giurisprudenza di una certa quale significatività,
forniscono la chiave di lettura dell'attività (para)giurisdizionale
della Corte dei conti, che ha ad oggetto sempre e comunque, uno o più
processi decisionali aventi incidenza diretta/indiretta su bilanci
pubblici.
6. L'organizzazione della Sezione
regionale di controllo; i rapporti con le Sezioni centrali.
La Sezione regionale di controllo, così
come ha previsto il "Regolamento 2000", è costituita da:
a)
un organo
monocratico con compiti di direzione e di impulso, oltre che
di coordinamento, dell'attività dei magistrati assegnati alla Sezione
(a tempo pieno; in aggiuntiva):
il Presidente;
b)
un organo
collegiale, che è coordinato dal Presidente e composto dai
magistrati alla Sezione assegnati:
il Collegio;
c)
un organo di
supporto di natura tecnico-amministrativa:
il Servizio. Esso
può essere diretto da un funzionario anche con qualifica non
dirigenziale.
I compiti del Presidente sono quelli
propri di un organo con responsabilità direttive: compiti di governo,
in generale, dell'attività di competenza della Sezione regionale, alla
quale il "Regolamento del 2000" intesta il controllo sulla gestione
nei riguardi di alcune istituzioni e la valutazione di piani/di
programmi relativi all'esecuzione che le burocrazie devono assicurare
alla legislazione che disciplina le diverse politiche pubbliche
(stratificazione dei diversi livelli di governo).
Il Presidente può decidere (facoltà) di
istituire due organi collegiali, a competenza differenziata: uno che
si occupi delle questioni relative al controllo ex ante (preventivo di
legittimità su atti delle burocrazie periferiche delle Amministrazioni
statali); un altro che tratti il controllo ex post (anche
quello "in itinere") esercitabile nei riguardi di tutte le
Amministrazioni (statali e non) aventi sede nel territorio regionale.
Il Presidente ha il compito di assegnare a
ciascun magistrato addetto il controllo (anche sotto il profilo della
valutazione di un piano/di un programma) di una o più attività
svolta/e da istituzioni che si occupano, nel territorio, della
gestione di politiche pubbliche (indagini). Tale assegnazione, in
effetti, si realizza in concreto attraverso la discussione che del
programma annuale si fa, per l'anno successivo, entro il mese di
novembre.
Dell'assegnazione della indagine/delle
indagini, affidata/e a ciascun magistrato addetto alla Sezione a cura
del Presidente, sarebbe opportuno tenere informate le competenti
Sezioni centrali di controllo. Ciò corrisponde all'esigenza che le
strutture indicate hanno: quella di dover svolgere un'azione di
coordinamento dell'attività di controllo svolta sul territorio
nazionale (per settori; per materie; per politiche pubbliche).
Il Presidente, in quanto responsabile del
buon andamento dell'ufficio, è chiamato a stabilire, sulla base di
analisi di fattibilità (carichi di lavoro valutati “ex ante” sulla
base dell'esperienza maturata) curate da ciascun magistrato
istruttore, l'entità del personale che è da considerare necessario
all'attività investigativa.
Naturalmente l'allocazione delle risorse
umane (assegnazione) richiede che siano rispettate le norme previste
dalla contrattazione collettiva vigente; in genere, occorre dare
informazione alla OO.SS. del personale della distribuzione del carico
di lavoro così effettuata.
Di tale incombenza deve occuparsi il
responsabile del Servizio, il quale è tenuto a riferire al Presidente,
periodicamente in corso d'anno, del corretto utilizzo delle risorse
umane.
Il Servizio si deve fare anche carico, a
livello locale, dell'aggiornamento professionale del personale
amministrativo e tecnico, ed anche del funzionamento della
strumentazione tecnologica di cui risulti dotato il personale.
Tenuto conto della maggiore o minore
rilevanza di ciascuna Sezione (dimensione), che è data in via
sintomatica dal numero dei magistrati assegnati e da quello del
personale amministrativo e tecnico in servizio, il Regolamento n.
14/2000 ha previsto che il Presidente della Corte possa stabilire
quali tra esse debbano essere dirette da personale con qualifica
dirigenziale. Si tratta di un processo di ridefinizione delle piante
organiche riguardante il personale dirigenziale, che deve trovare una
giustificazione logica nel fatto che occorrerà determinare uno
spostamento verso la periferia di un certo numero di risorse umane,
allo stato concentrate nelle strutture centrali.
Una particolare attenzione va posta
all'organizzazione della Sezione regionale di controllo, che ha ormai
la configurazione di
una struttura attiva,
non più passiva, nel senso che non resta – come lo è stata fino al
1994 – una struttura in attesa di "ricevere" gli atti da controllare.
E' bene ricordare che ciascun magistrato
istruttore, che è anche referente, dovendo gli esiti della sua
attività rifluire in una atto (decisione) che va
collegialmente votato, è tenuto ad aprire un "fascicolo di
controllo", la cui tenuta (custodia e gestione) deve essere affidata a
uno dei collaboratori che costituiscono il suo supporto
tecnico-amministrativo (gruppo di lavoro).
In ogni caso, il responsabile del Servizio
(organo di supporto, con compiti anche di segreteria, previsto dal
"Regolamento del 2000") deve corrispondere alle esigenze di natura
organizzativa che il magistrato istruttore può prospettargli. Ed esse
possono essere soddisfatte solo se si impianta un modello
organizzativo che privilegi la conoscenza approfondita dei dati/delle
informazioni che sono utili alla funzione svolta (controllo®valutazione).
Si intende, infatti, proporre un modello
di organizzazione del lavoro che privilegi l'acquisizione ragionata
sia di "dati fisici" che di "dati contabili".
Pertanto, i "dati fisici" (legislazione di
settore/per materia; struttura organizzativa per ogni istituzione;
personale; procedure di lavoro) devono confluire in uno spazio della
Sezione regionale al quale andrebbe assegnata "naturaliter" la
denominazione di "Archivio delle istituzioni".
Mentre i "dati contabili", costituenti la
documentazione riguardante i bilanci, i rendiconti, le contabilità
speciali, devono confluire in uno spazio, sempre della Sezione
regionale di controllo, alla quale andrebbe assegnata la denominazione
di "Centrale dei bilanci".
Tale organizzazione risulta sperimentata
da qualche anno (1995) dalla Delegazione regionale di controllo per il
Lazio e, poi, (dal 1997) anche dal Collegio regionale di controllo.
L'analisi delle politiche pubbliche.
L'organizzazione della Corte dei conti.
L'attività di controllo della Corte dei conti.
Il
necessario rapporto di collaborazione
tra "centro" e "periferia".
ANALISI MACRO
ANALISI MESO/MICRO
Sezioni Riunite in sede di controllo: art.
5, 4° comma.
Sezione centrale di controllo sulla
gestione delle amministrazioni dello Stato: art. 7, 5° comma.
Sezione Autonomie: art. 9, 3° comma.
Sezione Affari Comunitari/internazionali:
art. 10, 4° comma.
Fonte: SS.RR. delib. n. 14/DEL/2000;
SS.RR. delib. del 3 luglio 2003.
Gli strumenti della funzione di
coordinamento svolta dal “centro”
nei riguardi della “periferia”
Strutture
della
Corte dei conti
(posizione sul territorio)
A.
B. Conferenza dei Presidenti delle
Sezioni regionali di controllo
(2)
C.
Seminario permanente dei controlli
(3)
____________________
(1) SS.RR. in sede di controllo Delib. n. 4/DEL/2000 (ad. del
13.12.2000).
(2) SS.RR. Delib. n. 14/DEL/2000 (art. 5, 4° comma); abrogata da
SS.RR. delib. del 3.7.2003
(3) SS.RR. Delib. n. 2/DEL/1997 (G.U.R.I. n. 145 del 24.6.1997).
7. La collaborazione prestata (dalle
articolazioni periferiche) alle altre Sezioni di controllo
(1994-2000): il caso della Delegazione regionale di controllo per il
Lazio.
Come si è avuto modo di osservare,
l'impatto della riforma voluta dal legislatore nel 1993 (cinque
decreti-legge reiterati) ha trovato le articolazioni periferiche di
quel tempo (Delegazioni regionali di controllo) impegnate a vistare (e
registrare) migliaia di atti, soprattutto riguardanti le posizioni di
carriera del personale della scuola e militare (docenti delle
istituzioni scolastiche presenti sul territorio; personale del
Ministero della Difesa e dell'Interno).
Il personale amministrativo e tecnico, ivi
operante, risultava, quindi, poco impegnato nel riscontro della
documentazione contabile che le dirigenze delle strutture periferiche
erano tenute a trasmettere ai sensi dell'art. 60 del R.D. n. 2440 del
1923, modificato dall’art. 9, 5° comma, del d.P.R. 20 aprile 1994, n.
367.
Tra l'altro il giudizio sui
rendiconti/sulle contabilità speciali non risultava "completato" dalla
valutazione del tipo di azione amministrativa/tecnica (servizi) posta
in essere dalla dirigenza pubblica (analisi economica
dell'organizzazione = controllo della produttività)
. E ciò nonostante il d.P.R. 30
giugno 1972, n. 748.
Il controllo sui rendiconti
costituiva anch'esso un controllo dalle caratteristiche statiche
(su atti singoli); esso non
era dinamico, cioè non si faceva da parte della Corte dei conti
alcuno sforzo elaborativo per calcolare i costi dell'attività
amministrativa/tecnica svolta (analisi della produttività =
performance).
Nonostante le difficoltà incontrate per
riconvertire (non solo) culturalmente il personale in servizio presso
ciascuna struttura periferica, il personale di magistratura della
Delegazione regionale di controllo per il Lazio ha dichiarato sempre
una sostanziale disponibilità a prestare la sua collaborazione
all'effettuazione di alcune indagini promosse per l'intero territorio
nazionale:
a) l'indagine intersettoriale riguardante
lo stato di esecuzione del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29
(anni 1994
® 1995);
b) l'indagine intersettoriale in materia
di informatica (anni 1998
® 2000);
c) le indagini intersettoriali in materia
di opere pubbliche/servizi pubblici (1994
®).
Inoltre, è stata assicurata l'acquisizione
di una serie di dati finanziari desumibili dai consuntivi degli enti
locali (progetto Sirio); anche se, poi, esso è stato interrotto.
Progetto quest’ultimo che dovrà essere ripreso, tenuto conto del fatto
che l’art. 7, c. 7, della richiamata legge n. 131/2003 prevede che
siano le Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti a
verificare: a) il perseguimento degli obiettivi posti dalle leggi
statali o regionali di principio e di programma; b) la sana gestione
finanziaria degli enti locali; c) ed i funzionamento dei controlli
interni, riferendo sugli esiti di tali verifiche esclusivamente ai
consigli degli enti controllati.
La
Sezione regionale di controllo
(Regioni a statuto ordinario).
La
composizione dell'organo
collegiale.
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Fonte: art. 2, 5° c., Delib. n.
14/DEL/2000 (SS.RR. del 16.6.2000).
La
Sezione regionale di controllo
(Regioni a statuto ordinario).
La
composizione; lo stato
giuridico dei magistrati addetti.
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A
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Fonte: artt. 2
e 12, 5° c., Delib. 14/DEL/2000 (SS.RR. adunanza del
16.6.2000).
Le due leggi richiamate prevedono la
collocazione fuori ruolo dei due magistrati (Capo Delegazione –
Direttore) con compiti di coordinamento e di direzione Con
deliberazione n. 232/CP/2001 del 25.5.2001 si è deciso che «presso
ciascuna Sezione regionale di controllo: due magistrati più anziani in
ruolo sono collocati fuori ruolo ai sensi dell'art. 7 della legge 20
dicembre 1961, n. 1345 e dell'art. 7 del d.lgs. 5 maggio 1948, n.
989».
La
Sezione regionale di controllo
(Regioni a statuto ordinario).
La
composizione; lo stato
giuridico dei magistrati addetti.
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A
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E
Fonte: art. 7, c. 9, l. 5 giugno 2003, n.
131.
La
Sezione regionale di controllo
(Regioni a statuto ordinario).
La
composizione; lo stato giuridico.
Fonte: art. 2, 5° e
6° c., Delib. n. 14/DEL/2000 (SS.RR. adunanza del 16.6.2000).
La
Sezione regionale di controllo
(Regioni a statuto ordinario).
L'organizzazione del lavoro.
Fonte: art. 2, 6° c.,
Delib. n. 14/DEL/2000
La
Sezione regionale di controllo
(Regioni a statuto ordinario).
L'organizzazione del lavoro.
Fonte: art. 2, 5° e
6° c., Delib. n. 14/DEL/2000 (SS.RR. ad. del 16.6.2000)
7.
Attuazione dell'articolo 118 della
Costituzione in materia di esercizio delle funzioni
amministrative.
(omissis)
7. La Corte dei conti, ai fini del
coordinamento della finanza pubblica, verifica il rispetto degli
equilibri di bilancio da parte di Comuni, Province, Città
metropolitane e Regioni, in relazione al patto di stabilità interno ed
ai vincoli derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Unione europea.
Le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti verificano,
nel rispetto della natura collaborativa del controllo sulla gestione,
il perseguimento degli obiettivi posti dalle leggi statali o regionali
di principio e di programma, secondo la rispettiva competenza, nonché
la sana gestione finanziaria degli enti locali ed il funzionamento dei
controlli interni e riferiscono sugli esiti delle verifiche
esclusivamente ai consigli degli enti controllati. Resta ferma la
potestà delle Regioni a statuto speciale, nell'esercizio della loro
competenza, di adottare particolari discipline nel rispetto delle
suddette finalità. Per la determinazione dei parametri di gestione
relativa al controllo interno, la Corte dei conti si avvale anche
degli studi condotti in materia dal Ministero dell'interno.
8. Le Regioni possono richiedere ulteriori
forme di collaborazione alle sezioni regionali di controllo della
Corte dei conti ai fini della regolare gestione finanziaria e
dell'efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa, nonché pareri
in materia di contabilità pubblica. Analoghe richieste possono essere
formulate, di norma tramite il Consiglio delle autonomie locali, se
istituito, anche da Comuni, Province e Città metropolitane.
9. Le sezioni regionali di controllo della
Corte dei conti possono essere integrate, senza nuovi o maggiori oneri
per la finanza pubblica, da due componenti designati, salvo diversa
previsione dello statuto della Regione, rispettivamente dal Consiglio
regionale e dal Consiglio delle autonomie locali oppure, ove tale
organo non sia stato istituito, dal Presidente del Consiglio regionale
su indicazione delle associazioni rappresentative dei Comuni e delle
Province a livello regionale. I predetti componenti sono scelti tra
persone che, per gli studi compiuti e le esperienze professionali
acquisite, sono particolarmente esperte nelle materie aziendalistiche,
economiche, finanziarie, giuridiche e contabili; i medesimi durano in
carica cinque anni e non sono riconfermabili. Lo status dei predetti
componenti è equiparato a tutti gli effetti, per la durata
dell'incarico, a quello dei consiglieri della Corte dei conti, con
oneri finanziari a carico della Regione. La nomina è effettuata con
decreto del Presidente della Repubblica, con le modalità previste dal
secondo comma dell'articolo unico del
decreto del Presidente della Repubblica 8 luglio 1977, n. 385.
Nella prima applicazione delle disposizioni di cui al presente comma e
ai commi 7 e 8, ciascuna sezione regionale di controllo, previe intese
con la Regione, può avvalersi di personale della Regione sino ad un
massimo di dieci unità, il cui trattamento economico resta a carico
dell'amministrazione di appartenenza. Possono essere utilizzati a tal
fine, con oneri a carico della Regione, anche segretari comunali e
provinciali del ruolo unico previsto dal testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali, di cui al
decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, previe intese
con l'Agenzia autonoma per la gestione dell'albo dei segretari
comunali e provinciali o con le sue sezioni regionali.
Fonte: art. 7, L.
5 giugno 2003, n. 131
Intervento al COM-PA 2003 di Bologna
Tale partecipazione si distingue, come è noto, in una “fase
ascendente”, nel corso della quale gli organi dello Stato italiano
collaborano in vario modo alla creazione del diritto da parte degli
organi comunitari, ad una “fase discendente”, nel caso della quale
essi si adoperano per assicurare l’applicazione delle regole che in
tal modo sono state poste. Quanto alla seconda fase è noto come i
problemi si pongono in modo differente nel caso dei “regolamenti”
adottati dagli organi dell’Unione e nel caso delle “direttive” da
essi rivolte agli Stati membri. Mentre infatti nel primo caso si ha
un’attività normativa non soggetta a particolari limitazioni di
efficacia, nel caso delle direttive una limitazione di origine
generale deriva dal fatto che esse si rivolgono agli Stati, cui
vengono ad addossare l’obbligo di conseguire il risultato che esse
si prescrivono, “salvo restando la competenza degli organi nazionali
in merito alla forma e ai mezzi” da utilizzare a tal fine (ex art.
189 Trattato CE). Ciò ha indotto, come è noto, la giurisprudenza
comunitaria ad escludere che le direttive abbiano effetto
“orizzontale”, cioè nei rapporti fra i cittadini, riservando tale
effetto ai rapporti fra Stato e Comunità, ma non ha impedito però
alla stessa giurisprudenza di ammettere la possibilità che un
cittadino possa rivendicare il risarcimento di danni derivategli
dalla mancata attuazione di una direttiva da parte dello Stato, né
di ammettere che direttive contenenti una disciplina dettagliata di
una certa materia possano determinare i loro effetti senza bisogno
di norme di attuazione.
Sul ruolo dei Parlamenti nazionali nel
progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa
cfr. ora C. MORVIDUCCI,
Convenzione europea e
Parlamenti nazionali: quale ruolo?, in Riv. it. dir. pubbl.
com., 3/4 2003, 551, ss. Si
potrebbe, dunque, ipotizzare innanzitutto - sulla falsariga di
quanto già avviene in Francia e Germania - una disciplina
costituzionale dell'intervento parlamentare nella definizione del
diritto comunitario. In particolare, si potrebbe prevedere che il
Governo sia obbligato, dopo avere informato le Camere delle proposte
di atti normativi comunitari, a tenere conto delle eventuali prese
di posizione da esse adottate a seguito di tali comunicazioni. Una
simile disposizione garantirebbe peraltro la «copertura»
costituzionale delle norme attualmente vigenti che disciplinano la
trasmissione dal Governo al Parlamento delle proposte di atti
comunitari; norme che non hanno ancora trovato pratica attuazione,
per inadempienza del Governo rispetto agli obblighi di trasmissione.
Appare comunque necessario un consolidamento organico di tali norme
(in particolare l'articolo 14 della legge n. 128 del 1998 e
l'articolo 3 della legge n. 209 del 1998), che non sono tra loro
coordinate, al fine di garantire che siano trasmessi alle Camere,
contestualmente alla loro ricezione da parte del Governo, non solo i
progetti di atti normativi e di indirizzo all'esame dei competenti
organi ed istituzioni della Comunità europea e le eventuali
modifiche, ma anche gli atti preordinati alla formulazione degli
stessi che tra i progetti e gli atti di cui al punto precedente
siano ricompresi anche quelli relativi ai settori della giustizia e
affari interni e della politica estera e di sicurezza; che sia
garantita alle Commissioni parlamentari la possibilità di formulare
osservazioni e adottare ogni opportuno atto di indirizzo al Governo.
Sotto questo profilo potrebbe essere utile prevedere a carico del
Governo l’obbligo di attendere la pronuncia del Parlamento - che
dovrebbe essere resa in un tempo determinato con certezza, sulla
scorta delle indicazioni del protocollo sul ruolo dei Parlamenti
nazionali - prima di prendere posizione in sede comunitaria. Se non
per tutti gli atti trasmessi al Parlamento, tale obbligo potrebbe
essere fatto valere - seguendo il modello inglese della riserva di
scrutinio parlamentare - almeno per quelli presi in considerazione
dalle Camere, dei quali quindi sia stato avviato l'esame da parte
delle competenti Commissioni.
I progetti in esame presentati nella precedente legislatura tendono
ad introdurre una normativa organizzatoria e procedimentale, che
riconduce alla sede parlamentare la visione unitaria del processo di
adeguamento dell'ordinamento nazionale all'ordinamento comunitario e
che, in ogni caso, non esclude la possibilità di attuazioni
specifiche di singole direttive con autonomi provvedimenti
legislativi nell'esame dei quali il Parlamento assuma in pieno il
ruolo di legislatore sostanziale. Nella Relazione che accompagna il
disegno di legge si
legge che “le vicende parlamentari che hanno contraddistinto
l'approvazione delle ultime leggi comunitarie hanno evidenziato la
necessità di un perfezionamento delle previsioni della legge n. 86
del 1989 relative alla definizione del contenuto proprio della legge
comunitaria, alle quali lo stesso regolamento della Camera,
all'articolo 126-ter, comma 4, fa implicitamente rinvio per
circoscrivere il regime di ammissibilità degli emendamenti. Si è,
infatti, posta in più occasioni la questione riguardante la
possibilità che la legge comunitaria, oltre agli interventi
finalizzati all'attuazione di direttive non ancora recepite
nell'ordinamento nazionale, contenga disposizioni volte a modificare
vigenti norme legislative attuative di direttive purché ciò non
comporti la trasformazione della legge comunitaria in un
provvedimento omnibus nel quale siano inserite previsioni del
tutto sganciate da effettive esigenze di adeguamento all'ordinamento
comunitario”. Deve essere, infatti, conservata la natura della legge
comunitaria quale legge anzitutto finalizzata in linea di principio
all'adempimento di obblighi comunitari non ancora soddisfatti (o
soddisfatti solo in modo parziale o inesatto), senza negare,
tuttavia, la possibilità che la legge comunitaria rappresenti anche
l'occasione per un aggiornamento delle normative di attuazione già
esistenti, da effettuarsi in casi di particolare urgenza
adeguatamente motivata e sempre che il nuovo intervento non ponga la
preesistente disciplina nazionale in contrasto con la normativa
comunitaria. Egualmente avvertita è l'opportunità di rimarcare
maggiormente nell'impianto della legge La Pergola il nesso
funzionale che deve intercorrere tra partecipazione alla fase
ascendente delle direttive e loro successiva trasposizione
nell'ordinamento nazionale. Una più incisiva partecipazione alla
fase ascendente consente, infatti, di evitare che una debole
rappresentazione degli interessi nazionali nella fase di
elaborazione delle norme comunitarie si ripercuota criticamente
sulla fase discendente, convogliando in quest'ultima rivendicazioni
e aspettative non soddisfatte dalla normativa europea. Come
sottolineato nel documento conclusivo dell'indagine conoscitiva
sulla qualità e sui modelli di recepimento delle direttive
comunitarie, approvato dalla XIV Commissione l'11 ottobre il
problema della qualità e della tempestività dell'attuazione delle
norme comunitarie va risolto soprattutto durante la fase ascendente
poiché è in questa fase che “si ha la possibilità di influenzare i
lavori, per fare in modo che la direttiva abbia il più possibile le
qualità per essere facilmente applicabile nell'ordinamento interno”.
In tale ottica, ad un miglioramento delle procedure di formazione
della posizione italiana nei negoziati comunitari può corrispondere
una relativa semplificazione delle procedure di recepimento,
attraverso il rafforzamento del potere del Governo di attuare le
direttive in via regolamentare e la valorizzazione dei compiti
attuativi delle Regioni.
Così nella Relazione della XIV
Commissione permanente
(Politiche Dell’Unione
Europea) presentata alla Presidenza il 16 giugno 2003 sulla
proposta di legge n. 3071 (Modifiche
alla legge 9 marzo 1989, n. 86, concernenti il rafforzamento della
partecipazione dell’Italia al processo di formazione delle decisioni
dell’Unione Europea) presentata il 25 luglio 2002; sul disegno
di legge n. 3123 (Modifiche
ed integrazioni alla legge 9 marzo 1989, n. 86, recante norme
generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo
comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi
comunitari) presentato il 2 settembre 2002; e sulla proposta di
legge n. 3310 (Modifiche
alla legge 9 marzo 1989, n. 86, recante norme generali sulla
partecipazione dell’Italia al processo normativo comunitario e sulle
procedure di esecuzione degli obblighi comunitari) presentata il
24 ottobre 2002.
Si prevede inoltre che debbano anche indicarsi le iniziative assunte
ed i provvedimenti conseguentemente adottati nonché l’elenco e le
motivazione dei ricorsi presentati presso la Corte di Giustizia
delle Comunità europee avverso decisioni del Consiglio o della
Commissione delle Comunità europee. Tali modifiche sono volte a
superare i rilievi più volte evidenziati nel corso del relativo
esame, in ordine alla necessità che in tale documento sia posta
un’attenzione prevalente alla fase ascendente del diritto
comunitario e, quindi, agli atti ed alle politiche in corso di
definizione nell’ambito dell’Unione – con particolare riferimento al
seguito dato agli atti di indirizzo formulati dal Parlamento –
nonché alla situazione del contenzioso in atto con un’indicazione
puntuale delle procedure che interessano o che hanno interessato,
per l’anno di riferimento, l’Italia. Diversamente, infatti, il
rischio – più volte evidenziato – è quello che un’illustrazione «a
consuntivo» delle attività svolte nell’ambito dell’Unione produca un
documento in gran parte superato dai successivi eventi (considerata
la discrasia temporale con cui viene esaminata dalle Camere
soprattutto quando questo avviene « in seconda lettura ») e, quindi,
di dubbia utilità per il Parlamento.
E’ la legge 27.12.2002, n. 289, recante
“Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato (legge finanziarie 2003)”
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