Prot. n.
5657
Roma, 15 luglio
2004
Segretariato generale
Roma
Alle Amministrazioni dello Stato anche
ad ordinamento autonomo
Loro Sedi
Al Consiglio di Stato
Ufficio del Segretario generale
Roma
Alla Corte dei Conti
Ufficio del Segretario generale
Roma
All’Avvocatura generale dello Stato
Ufficio del Segretario generale
Roma
Alle Agenzie
Loro Sedi
All’ARAN
Roma
Alla Scuola Superiore della Pubblica
Amministrazione
Roma
Agli Enti pubblici non economici
(tramite
i Ministeri vigilanti)
Loro Sedi
Agli Enti pubblici
(ex
art. 70 del D:Lgs n. 165/01)
Loro Sedi
Agli Enti di ricerca
(tramite
il Ministero dell’istruzione
dell’Università e della ricerca)
Roma
Alle Istituzioni universitarie
(tramite il Ministero dell’istruzione
dell’Università
e della ricerca)
Roma
e, p. c.
Alla Conferenza dei Presidenti delle
Regioni
All’ANCI
All’UPI
Loro sedi
stipula dei contratti. Regime fiscale e previdenziale. Autonomia
contrattuale.
La
pubblica amministrazione è stata, negli ultimi anni, protagonista di un processo
di assimilazione all’impresa privata, pur nel riconoscimento della sostanziale
differenza delle finalità perseguite, dal punto di vista delle logiche
organizzative. Il mutamento della visione organizzativa dell’amministrazione ha
comportato, da un lato, la contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei
propri dipendenti e, dall’altro, l’attribuzione alla dirigenza di un ruolo
diverso, con la conseguente assunzione dei poteri del privato datore di lavoro
nella gestione delle risorse umane, per giungere, anche, all’esercizio di tali
poteri nell’ambito organizzativo vero e proprio.
Da ciò derivano il potere e l’onere attribuiti ai dirigenti di attendere
all’organizzazione dei propri uffici e delle risorse loro attribuite, secondo la
previsione dell’articolo 5 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, il
quale prevede, al comma 2, che “Nell’ambito delle leggi e degli atti
organizzativi di cui all’articolo 2, comma 1, le determinazioni per
l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di
lavoro sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità ed i
poteri del privato datore di lavoro”.
In questo contesto, si è sviluppato il ricorso alle tipologie lavorative
cosiddette “flessibili” ed alle collaborazioni esterne ex articolo 2222 del
codice civile, come previste dall’articolo 7, comma 6, del decreto legislativo
165/2001 “Norme
generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche” e, per le
amministrazioni locali, dall’articolo 110, comma 6, del decreto legislativo 18
agosto 2000, n. 267,
“Testo unico
delle leggi sull'ordinamento degli enti locali”, anche al
fine di rispondere agilmente a bisogni qualificati e temporanei senza per questo
dover aumentare il numero del personale stabilmente in
servizio.
L’attivazione di tali contratti non sempre è stata in linea con i
principi dell’ordinamento e, in particolare, con quanto più volte dichiarato
dalla giustizia contabile. La crescita del fenomeno e l’utilizzo improprio delle
collaborazioni portano questa amministrazione ad intervenire con la presente
direttiva, posto che già il legislatore in sede di legge finanziaria, art. 34
della legge 27 dicembre 2002, n. 289 e art. 3 della legge 24 dicembre 2003, n.
350, è intervenuto con disposizioni restrittive ai fini del contenimento della
spesa (90% del triennio 1999-2001).
Per quanto concerne i rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa, si pongono all’attenzione delle amministrazioni diversi problemi
relativi, in primo luogo, all’individuazione dei presupposti che legittimano il
ricorso alla collaborazione, poi alla valutazione di eventuali tutele non
previste dall’ordinamento che, però, possono essere introdotte nei singoli
contratti in virtù dell’autonomia contrattuale attribuita ai contraenti e, in
ultimo, alla corretta gestione degli adempimenti fiscali e
previdenziali.
In relazione a quest’ultimo aspetto, è necessario ricordare come
l’avvenuta assimilazione dei rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa al lavoro dipendente per gli aspetti fiscali, operata dall’articolo
34 della legge 21 novembre 2000, n. 342, che ha modificato il testo unico delle
imposte sui redditi, e che si riverbera anche sugli aspetti previdenziali, non
incide sulla qualificazione giuridica del rapporto.
Infine, è opportuno in tale sede richiamare la recente riforma del
mercato del lavoro, attuata dal decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276,
che ha introdotto la figura del lavoro a progetto con la finalità di arginare,
nel settore privato, l’abuso delle attuali collaborazioni coordinate e
continuative che per questa ragione andranno ricondotte alla modalità “a
progetto” in ragione della autonomia del collaboratore.
Occorre, però,
chiarire già adesso che il decreto legislativo citato, come già disposto dalla
legge delega 14 febbraio 2003, n.
Si rappresenta
con l’occasione che lo scorso 5 marzo si è dato corso all’avvio del processo di
armonizzazione con un atto di indirizzo all’ARAN per la stipula di un contratto
collettivo nazionale quadro.
2.
PRESUPPOSTI
La
ricognizione sulla necessità che le amministrazioni verifichino l’esistenza dei
presupposti che legittimano il ricorso ai rapporti di collaborazione coordinata
e continuativa scaturisce dalla considerazione che il ricorso a tali tipologie
contrattuali è sensibilmente aumentato. Da elaborazioni effettuate dall’ARAN[1]
sui dati Si. Co. del Ministero dell’economia e delle finanze, relativamente
all’utilizzo degli istituti di lavoro flessibile nelle pubbliche
amministrazioni, per il biennio 2000-2001, sono emerse indicazioni significative
sull’andamento del fenomeno, che è caratterizzato da una sensibile crescita
della spesa nel 2002, rispetto a quella già alta registrata nel 2001. L’ampiezza
della variazione può essere solo parzialmente giustificata dalla specificità del
settore e delle funzioni esercitate, mentre deve sollecitare tutte le
amministrazioni ad una attenta riflessione sulle scelte organizzative finora
poste in essere.
Dalla lettura
delle disposizioni di cui all’art. 7, comma 6, del decreto legislativo 165/2001
e all’art. 110, comma 6, del decreto legislativo 267/2000, si evidenzia la
possibilità di ricorrere a rapporti di collaborazione solo per prestazioni di
elevata professionalità, contraddistinte da una elevata autonomia nel loro
svolgimento, tale da caratterizzarle quali prestazioni di lavoro
autonomo.
Come
ricordato in alcuni precedenti pareri[2]
dell’Ufficio per il personale delle pubbliche amministrazioni, l’elemento
dell’autonomia dovrà risultare prevalente, poiché in caso contrario sarebbero
aggirate e violate le norme sull’accesso alla pubblica amministrazione tramite
concorso pubblico, in contrasto con i principi costituzionali (artt. 51 e 97
Costituzione), principi ribaditi dalla Corte Costituzionale in diverse
decisioni, nonché il principio, anch’esso costituzionale, di buon andamento ed
imparzialità dell’azione amministrativa (art. 97 Costituzione). Tale
connotazione del rapporto di collaborazione è stata ravvisata, in più occasioni,
anche dalla Corte dei Conti, Sezione controllo enti, che già nella deliberazione
n. 33 del 22 luglio 1994, aveva rappresentato la necessità di evitare che
l’affidamento di incarichi a terzi si traducesse in forme atipiche di
assunzione, con la conseguente elusione delle disposizioni sul reclutamento e
delle norme in materia di contenimento della spesa.
L’affidamento
dell’incarico a terzi potrà dunque avvenire solo nell’ipotesi in cui
l’amministrazione non sia in grado di far fronte ad una particolare e temporanea
esigenza con le risorse professionali presenti in quel momento al suo interno.
Al riguardo, soccorre nuovamente la consolidata giurisprudenza della Corte dei
Conti, la quale ha ribadito l’impossibilità di affidare, mediante rapporti di
collaborazione, i medesimi compiti che sono svolti dai dipendenti
dell’amministrazione, proprio al fine di evitare una duplicazione delle funzioni
ed un aggravio di costi.
I principi
guida elaborati dalla Corte e, da ultimo, espressamente richiamati dalla Sezione
giurisdizionale per il Veneto[3],
relativamente alla eventualità di un danno erariale per affidamento di
consulenze e delle correlate responsabilità, possono essere così riassunti quali
condizioni necessarie per il conferimento degli incarichi:
§
rispondenza
dell’incarico agli obiettivi dell’amministrazione
conferente;
§
impossibilità
per l’amministrazione conferente di procurarsi all’interno della propria
organizzazione le figure professionali idonee allo svolgimento delle prestazioni
oggetto dell’incarico, da verificare attraverso una reale
ricognizione;
§
specifica
indicazione delle modalità e dei criteri di svolgimento
dell’incarico;
§
temporaneità
dell’incarico;
§
proporzione
fra compensi erogati all’incaricato e le utilità conseguite
dall’amministrazione.
Inoltre, deve
ritenersi che tali condizioni debbano tutte ricorrere perché l’incarico possa
essere considerato conferito lecitamente e senza incorrere nell’ipotesi del
danno erariale. Tale necessità, oltre a rispondere alla ratio delle norme
prima richiamate, è stata affermata esplicitamente dalla stessa Corte [4].
Gli
elementi individuati dalla Corte dovranno risultare dal contratto, infatti, in
ossequio alla regola generale in virtù della quale i contratti stipulati con la
pubblica amministrazione debbono essere stipulati per iscritto, l’attribuzione
di un incarico di collaborazione risulterà da atto scritto, nel quale saranno
indicati l’oggetto della prestazione e la durata della collaborazione. Questa
dovrà essere commisurata all’oggetto della prestazione e potrà essere
determinata con precisione o per relationem. E’ ammissibile una proroga
del contratto quando sia funzionale al raggiungimento dello scopo per il quale
il contratto era stato posto in essere. Al riguardo, si ricorda che non si
tratta di una proroga ai sensi del decreto legislativo 6 settembre 2001, n.
La necessità
di ricorrere ad un incarico di collaborazione esterna, e nello specifico di
collaborazione coordinata e continuativa, deve costituire, dunque, un rimedio
eccezionale per far fronte ad esigenze peculiari per le quali l’amministrazione
necessita dell’apporto di apposite competenze professionali. Infatti,
diversamente, l’ordinamento ha fornito alle amministrazioni gli strumenti con i
quali far fronte ad esigenze organizzative che esulino da tale eccezionalità e
costituiscano, invece, delle necessità costanti. Infatti, queste sono obbligate
ad individuare i fabbisogni
duraturi o frequenti nell’ambito di provvedimenti di analisi e programmazione
triennale dei fabbisogni, nonché tramite l’aggiornamento periodico dei profili
professionali in relazione ai mutamenti istituzionali e ai nuovi fabbisogni
quando vengano ad assumere un carattere permanente. Tale necessità emerge anche
dalle indicazioni della Corte dei Conti che ha avuto modo di sottolineare come
la proroga del rapporto di incarico a personale esterno debba essere considerata
una fattispecie assolutamente eccezionale [5].
Può essere
utile, infine, nell’ambito della ricognizione delle professionalità esistenti
all’interno dell’amministrazione, verificare la possibilità e la convenienza di
formare o aggiornare personale interno sottoutilizzato o da riconvertire, in
attuazione del principio guida che discende dalle finalità indicate
dall’articolo 1, comma 1, del decreto legislativo n.165/01 e, in particolare,
per “realizzare la migliore utilizzazione delle risorse
umane”.
Pertanto, le
procedure previste dai processi di progressione economica orizzontale e le
procedure concorsuali attinenti le progressioni verticali dovranno tenere conto
dei nuovi fabbisogni di professionalità che assumano le caratteristiche della
permanenza e necessità.
3. OGGETTO
DELL’INCARICO
Una
particolare attenzione debbono porre le amministrazioni nell’individuare
l’oggetto dell’incarico di collaborazione, ossia il contenuto della
prestazione.
Pertanto, volendo con più precisione cercare di
circoscrivere il campo delle attività che possono essere affidate ad esterni, si
deve partire dall’articolo 7, comma 6, del decreto legislativo n. 165/2001, il
quale si riferisce “ad esperti di provata competenza”, per giungere alla
considerazione che deve trattarsi di prestazioni di elevata professionalità,
quindi di prestazioni d’opera intellettuale da affidarsi, ad esempio, ma non
solo, a coloro che esercitano un’attività per la quale è richiesta una
abilitazione all’esercizio della professione e l’iscrizione in appositi albi,
oppure di prestazioni di altro tipo non reperibili nel settore pubblico.
Deve,
poi, sottolinearsi come il rapporto di collaborazione, caratterizzandosi per
l’assenza di un vincolo di subordinazione fra committente e prestatore d’opera
e, quindi, nel senso dell’autonomia, impedisce che con tale strumento siano
affidati i compiti di gestione e di rappresentanza, che costituiscono le
attribuzioni tipiche dei funzionari e dei dirigenti della pubblica
amministrazione, i quali sono, invece, in rapporto di subordinazione con il
datore di lavoro-amministrazione e, pertanto, agiscono secondo gli indirizzi
impartiti e gli obiettivi assegnati, rispondendo del loro operato “secondo le
leggi penali, civili e amministrative” (art. 28 Costituzione), laddove nel
caso dell’inadempienza contrattuale del collaboratore la sola conseguenza
possibile sarà il recesso del committente secondo le norme generali (articoli
1453, 2227 e 2237 c.c.).
Ad esempio,
poiché il collaboratore coordinato e continuativo difetta del requisito
indispensabile dell’incardinazione, in mancanza di una eventuale ed espressa
procura, non potrà mai agire per conto dell’Amministrazione. Infatti, l’art. 417
bis c.p.c. conferisce la rappresentanza in giudizio ex lege delle pubbliche amministrazioni
nelle controversie di pubblico impiego ai soli “dipendenti” delle
amministrazioni e, cioè, a tutti coloro legati da un vincolo di subordinazione
ed incardinati nell’amministrazione da difendere. Pertanto, il soggetto esterno
all’amministrazione agirebbe quale falsus
procurator (per quanto riguarda la disciplina civilistica, cfr. artt. 1398 e
1399 c.c.).
Occorre
ricordare, inoltre, come l’attribuzione di un incarico di collaborazione, al di
fuori delle condizioni indicate dalla Corte dei Conti e delle fattispecie ora
ricordate, comporti una serie di conseguenze a carico del dirigente che ne è
responsabile. Infatti, costui potrebbe essere chiamato a rispondere, oltre che
per l’eventuale responsabilità per danno erariale, anche per i profili attinenti
alla responsabilità amministrativa,
nonché in sede civile qualora l’incarico abbia dissimulato un rapporto di lavoro
dipendente, poiché l’ordinamento prevede la tutela risarcitoria nei limiti di
cui all’art. 2126 c.c.
4. ELEMENTI CARATTERISTICI
DEL RAPPORTO
Come
noto, il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa non trova una
definizione specifica nel codice civile. La principale fonte normativa che
soccorre in materia di collaborazioni coordinate e continuative è l’art. 409, c.
3, del codice di procedura civile, il quale ha esteso la disciplina delle
controversie individuali di lavoro ai rapporti di agenzia, di rappresentanza
commerciale, nonché ad altri rapporti di collaborazione “che si concretino in
una prestazione di opera continuativa e coordinata e prevalentemente personale,
anche se non a carattere subordinato…”.
Da tale noma ha preso spunto il dibattito
dottrinale e giurisprudenziale sul c.d. lavoro parasubordinato e sulla sua
definizione come categoria dotata di una propria autonomia concettuale rispetto
alla classica dicotomia lavoro autonomo / lavoro subordinato. La stessa espressione
“parasubordinazione” utilizzata dal legislatore, infatti, implica senza dubbio
una affinità con il lavoro subordinato dal punto di vista socio-economico
(sostanziale dipendenza dal datore di lavoro).
Peraltro, una lettura sistematica delle
fonti normative citate non può che ricondurre anche i rapporti di c.d.
parasubordinazione al campo del
lavoro autonomo, pur con tutte le peculiarità via via espressamente
enucleate dallo stesso legislatore[6].
Ed invero, l’art. 409, c.3, c.p.c. colloca i rapporti di “collaborazione”
nettamente al di fuori dello schema tipico del lavoro subordinato ex art. 2094
c.c., tant’è che la giurisprudenza di legittimità è orientata ad attribuire
rilevanza meramente processuale alla categoria della parasubordinazione, nel
senso della esclusiva automatica applicabilità delle sole norme dettate per il
lavoro subordinato in materia di competenza e di rito (ivi, ovviamente, compreso
l’art. 429, 3 c., c.p.c.), e con esclusione delle norme sostanziali che
disciplinano il rapporto di lavoro subordinato (si veda Cass. n. 2426/95, n.
1459/97 e, da ultimo, Cass. n. 5941/2004, in tema di inapplicabilità dell’art.
2126 c.c. alle prestazioni svolte in situazioni di autonomia, sia pure aventi le
caratteristiche della parasubordinazione, potendo il lavoratore autonomo
avvalersi unicamente dell’azione per indebito arricchimento).
Venendo
all’esame degli elementi caratteristici del rapporto, l’art. 409, c.3, del c.p.c. individua i tre aspetti
peculiari che caratterizzano il rapporto di collaborazione coordinata e
continuativa che, in sintesi, possono così evidenziarsi:
§
continuità,
in contrapposizione alla occasionalità, quale prestazione che si protrae nel
tempo e la cui durata deve essere definita in sede
negoziale;
§
coordinazione,
che, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, è costituita dal
vincolo funzionale tra l’opera del collaboratore e l’attività del committente e
comporta una stretta connessione con le finalità di
quest’ultimo;
§
prestazione
prevalentemente personale, in virtù della quale il ricorso a propri
collaboratori risulta decisamente limitato.
Ai fini della
presente nota, rileva anche la definizione normativa contenuta nell’art. 50,
lett.c-bis, del Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n.
917, quando indica la prestazione di collaborazione coordinata e continuativa,
nella specie:“A favore di un determinato soggetto, nel quadro di un rapporto
unitario, con retribuzione periodica prestabilita”.
Il
vero criterio distintivo del rapporto di lavoro in esame può essere individuato
nella mancanza del vincolo di subordinazione, come risulta invece disciplinato
negli articoli 2094, 2086 e 2104
del codice civile. In tali disposizioni, la dipendenza del lavoratore
subordinato dal proprio datore di lavoro ed il potere direttivo di questi
assumono un ruolo primario. Le norme fanno espresso riferimento ad una
subordinazione gerarchica che, per sua natura, rappresenta un vincolo
strettamente personale che si riflette, nella normalità dei casi, in una
limitazione della sfera di azione del lavoratore. Si tratta, quindi, di una
limitazione al potere decisionale, organizzativo, di scelta, etc., del
lavoratore subordinato in ordine all’attività dallo stesso svolta nell’ambito
della realtà operativa in cui è inserito, che si manifesta attraverso le
imposizioni fissate nell’esercizio del proprio potere direttivo dal datore di
lavoro che riguardano diversi aspetti della prestazione lavorativa:
determinazione dell’orario di lavoro, modalità di esecuzione della prestazione,
controllo del rispetto delle regole impartite, comminazione di sanzioni
disciplinari, etc., individuando concretamente i compiti e rendendoli, pertanto,
esigibili.
In
assenza di tali dirimenti criteri, si sarà in presenza di una prestazione
lavorativa il cui titolare presta la propria opera senza vincolo di
subordinazione. Ciò significa che il collaboratore non deve essere in alcun modo
limitato nel proprio potere decisionale in ordine alla esecuzione del servizio
prestato, sebbene il committente non possa essere totalmente estromesso da
qualsiasi scelta che riguardi l’esecuzione dell’opera o del servizio pattuito
potendo, invece, verificare e
controllare le modalità di esecuzione delle attività affidate, al solo fine di
valutare la rispondenza del risultato con quanto richiesto e la sua funzionalità
rispetto agli obiettivi prefissati.
Tale
attività non deve essere trascurata
perché attiene alla verifica dei risultati che debbono essere conseguiti ed alla
valutazione sull’utilità della collaborazione.
Sulla natura dei rapporti, se di lavoro
autonomo o subordinato, soccorre anche la giurisprudenza della Corte di
Cassazione, la quale, partendo dalla considerazione che il solo nomen
iuris, quale esplicazione del principio dell’affidamento delle parti, non
consente di identificare completamente la natura della prestazione, è giunta a
fornire indicazioni concrete per l’individuazione della natura subordinata della
prestazione.[7]
A ciò occorre,
inoltre, aggiungere il fatto che il potere di coordinazione può variare di
intensità, non potendo essere il medesimo per prestazioni diverse, al punto da
doverne chiarire, di volta in volta, il contenuto.
Per quanto concerne, infine, la distinzione fra collaborazione coordinata
e continuativa e prestazione occasionale è opportuno dare un’interpretazione
sistematica dell’articolo 61 del predetto decreto legislativo 276/2003, al fine
di individuare con precisione quest’ultima fattispecie. La circolare del
Ministero del lavoro e delle politiche sociali (n. 1 dell’8 gennaio 2004)
conferma come l’articolo 61 del decreto legislativo 276/2003 non è intervenuto
sulla disciplina dettata dagli articoli 2222 e seguenti del codice civile, né
“sostituisce e/o modifica l’articolo 409, n. 3, del codice di procedura
civile, bensì individua, per l’ambito di applicazione del decreto, e nello
specifico, della medesima disposizione, le modalità di svolgimento della
prestazione del collaboratore, utile ai fini della qualificazione della
fattispecie nel senso della autonomia o della
subordinazione”.
Pertanto, il
lavoro a progetto si caratterizza come un rapporto di lavoro peculiare rispetto
allo schema tipico del lavoro autonomo, caratterizzato dal potere di
coordinamento del committente, pur rimanendo al di fuori della cornice
dell’articolo 2094 c.c.
L’articolo 61, inoltre, limita la propria
disciplina alla fattispecie individuata dall’articolo 409, c. 3 c.p.c.,
stabilendo che questi rapporti dovranno essere ricondotti alle diverse ipotesi
del lavoro subordinato o del lavoro a progetto, salvo il caso in cui non ci si
trovi nella fattispecie della prestazione meramente occasionale introducendo un
dato quantitativo di identificazione relativo al numero di giornate lavorative
presso lo stesso committente e all’entità del compenso percepito nell’anno. Tale
disposizione produce, dunque, effetti sotto il profilo probatorio, poiché
superati tali limiti il datore di lavoro dovrà, eventualmente, dimostrare che la
prestazione resa era riconducibile alla categoria del lavoro autonomo in quanto
mancavano i requisiti della continuità o personalità o inserimento funzionale
ecc.. In altri termini, qualora un prestatore d’opera superi i limiti
individuati al comma 2 del citato articolo 61 non necessariamente vedrà
inquadrato il proprio rapporto di lavoro quale lavoro a progetto, o, in assenza
degli elementi essenziali di tale schema contrattuale, quale lavoro subordinato,
poiché invece potrebbe avere reso una o più prestazioni d’opera ai sensi
dell’articolo 2222 c.c. e seguenti, oppure una prestazione di lavoro
occasionale, la quale, pur rientrando nella categoria del lavoro autonomo (art.
2222 e seguenti c.c.) costituisce fattispecie diversa dalla prestazione
professionale o dall’esercizio di un’arte o dalla collaborazione coordinata e
continuativa. Essa si caratterizza per la occasionalità e saltuarietà, tali che
il compenso che ne deriva non può essere
considerato la forma principale di reddito. Infatti, il testo unico delle imposte
sul reddito (art. 81, lettera l), D.P.R. 917/86) definisce i redditi
occasionali quali quelli “derivanti da attività di lavoro autonomo non
esercitata abitualmente”. La prestazione non viene effettuata, dunque, in
maniera continuativa e l’attività del prestatore non si coordina con i fini del
committente. Pertanto, gli unici elementi in comune con la collaborazione
coordinata e continuativa possono essere considerati l’assenza del vincolo di
subordinazione e la libertà di organizzare la prestazione fuori da vincoli di
orario.
Sempre in relazione
all’articolo 61 ed alla fattispecie del lavoro a progetto, vale la riflessione
che il legislatore ha voluto sottolineare come l’utilizzo di tali tipologie di
prestazione debba essere agganciato al contesto organizzativo tipico delle
aziende, in quanto la collaborazione deve inserirsi in specifici progetti,
coincidere con essi o svolgersi al loro interno. Deve però aggiungersi che anche
le pubbliche amministrazioni sono profondamente orientate da logiche
programmatorie, finalizzate al controllo delle attività ed alla valutazione dei
risultati, pertanto l’utilizzo delle collaborazioni esterne dovrebbe già
naturalmente inserirsi nell’ambito di
attività oggetto dell’indirizzo politico-amministrativo che trovano
logica attuazione attraverso la definizione di obiettivi strategici ed obiettivi
operativi. Pertanto, anche alla luce dei principi contenuti nel decreto
legislativo 30 luglio 1999, n.
Infine, anche per gli altri aspetti disciplinati nel citato articolo 61,
va comunque ricordato come tali disposizioni non si applichino alle pubbliche
amministrazioni ed al personale da esse dipendente, stante l’espressa e puntuale
esclusione operata dall’art.1, c. 2, del decreto n. 276/2003.
5. CONNOTAZIONE PARTICOLARE
RISPETTO AL LAVORO SUBORDINATO
In primo luogo, non è possibile considerare un obbligo di
prestazione oraria e il relativo controllo delle presenze. Se è pur vero che
potrebbe essere necessario un inserimento del collaboratore nell’organizzazione
del committente, poiché debbono essere garantiti uno o più risultati
continuativi che si integrino in tale organizzazione, ciò dovrà comunque
avvenire in presenza di una gestione autonoma del tempo di lavoro da parte del
collaboratore. In altri termini, l’attività del collaboratore può anche
svolgersi in un luogo diverso da quello nel quale opera l’organizzazione che fa
capo al committente, venendo questi in contatto con l’organizzazione solo nei
tempi utili allo svolgimento della sua collaborazione. Da ciò deriva che al
collaboratore non può essere richiesta alcuna attestazione della propria
presenza nei luoghi nei quali si svolge l’attività del committente. Infatti, il
collaboratore non entra a far parte dell’organizzazione del committente e, nel
caso in cui il committente sia una pubblica amministrazione, questi non può in
alcun modo essere considerato un suo dipendente.
Dalle
considerazioni appena svolte deriva, quindi, l’impossibilità di attribuire
giorni di ferie, trattandosi di un istituto tipicizzato nell’ambito del rapporto
di lavoro subordinato. Emerge, da ciò, anche l’impossibilità, per il
committente, di scegliere o programmare il periodo di riposo in maniera
unilaterale, sebbene, a tal riguardo, nella convenzione di collaborazione
potrebbe essere inserita la possibilità di sospendere la prestazione per un
determinato periodo di tempo, soprattutto laddove il collaboratore utilizzi, per
lo svolgimento della propria attività, le strutture, gli impianti e gli
strumenti del committente, tanto nel rispetto del vincolo di non subordinazione,
quanto nell’osservanza del principio di coordinamento con l’attività, gli
obiettivi e l’organizzazione del committente.
Anche per quanto concerne l’attribuzione dei buoni pasto, le
considerazioni già svolte debbono indurre ad una esclusione dei collaboratori
coordinati e continuativi dalla titolarità di tale diritto. Come noto,
l’erogazione di buoni pasto spetta al personale contrattualizzato dipendente
della pubblica amministrazione a
fronte di un orario di lavoro articolato sui cinque giorni lavorativi ed in
assenza di un servizio mensa o altro servizio sostitutivo presso la sede
lavorativa (si veda l’articolo 2, comma 11, della legge 28 dicembre 1995, n.
550, legge finanziaria 1996). Potrà, invece, essere previsto nel contratto un
apposito rimborso spese, in quanto istituto tipico nei rapporti di lavoro
autonomo, qualora ne ricorrano i presupposti.
Per
quanto concerne le trasferte, l’assimilazione
del collaboratore coordinato e continuativo operata dal Testo unico delle
imposte sui redditi (sulla non estensione di tali effetti rispetto agli istituti
tipici del lavoro subordinato si rinvia al paragrafo n. 7 della presente
circolare relativo al trattamento fiscale) al lavoratore dipendente determina
l’applicazione, a decorrere dal 1° gennaio 2001, delle regole sui rimborsi
analitici valide per la generalità dei lavoratori dipendenti. La circolare
ministeriale n. 207 del 16 novembre 2000 del Ministero delle finanze, dispone
che “sarà applicabile anche ai rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa la disciplina delle trasferte contenuta nell’articolo 51, comma 5
del TUIR, in ordine ai limiti oltre i quali le indennità di trasferta concorrono
a formare reddito imponibile…..”.
Riguardo
l’ambito territoriale della trasferta, dal 1
gennaio 2001, si fa riferimento alla sede di lavoro del committente, se questa è
chiaramente identificabile dal contratto, o al domicilio fiscale del
collaboratore, se non è possibile individuare in modo chiaro la sede di
lavoro.
Tale
posizione è confermata anche dalla circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 58/E
del 18 giugno 2001, laddove si afferma che: “La sede di lavoro è quella che
risulta dal contratto. Di norma la sede di lavoro coincide con una delle sedi
del datore di lavoro…………….nei casi in cui non è possibile individuare
puntualmente la sede di lavoro né identificare tale sede con quella della
società (committente) è possibile
far riferimento, ai fini dell’applicazione del comma 5 dell’articolo 51 del
TUIR, al domicilio fiscale del collaboratore”.
Dall’analisi
dell’articolo 51, comma 5, del Testo unico delle imposte sui redditi, le
principali regole per la gestione dell’istituto della trasferta e dei rimborsi
spese possono essere così riassunte:
1.
trasferta
fuori dal territorio del comune:
§
l’indennità
erogata in modo forfetario non concorre a formare il reddito nella misura
massima giornaliera di € 46.48 (o €
§
il
limite di esenzione di cui sopra è ridotto di un terzo nel caso in cui sono
rimborsate: le spese di vitto o le spese di alloggio oppure il vitto o l’alloggio siano forniti gratuitamente; se
le spese di vitto e alloggio sono rimborsate entrambe, allora il limite di
esenzione si riduce di 2/3; nessuna riduzione deve essere operata nel caso in
cui manchi il pernottamento per il fatto che la trasferta sia inferiore alle 24
ore. Rimane naturalmente l’obbligo di ridurre di 1/3 la quota di esenzione nel
caso in cui il vitto sia fornito gratuitamente o rimborsato (metodo rimborso
misto);
§
il
rimborso delle spese documentate per vitto, alloggio, viaggio e trasporto, non
concorrono a formare il reddito indipendentemente dall’ammontare (metodo
rimborso a piè di lista o analitico);
§
in
alternativa, le altre spese rimborsate, anche non documentabili, non concorrono
alla formazione del reddito, nel limite di € 15.49 al giorno (€ 25.82 per le
trasferte all’estero);
2.
trasferta
nell’ambito del comune:
§
le
indennità o i rimborsi per le trasferte nell’ambito del comune concorrono a
formare il reddito (fiscale e previdenziale), ad eccezione dei rimborsi spese di
trasporto comprovabili con idonea documentazione proveniente dal vettore
(biglietti dell’autobus, ricevuta taxi, ecc..). E’ interamente assoggettato a
tassazione l’eventuale rimborso delle spese di trasporto effettuato attraverso
la corresponsione di un’indennità chilometrica, in quanto manca la
documentazione proveniente dal vettore.
6. AUTONOMIA
CONTRATTUALE
La
non applicabilità alle “co.co.co” nel settore pubblico della riforma del lavoro,
di cui al decreto legislativo 276/2003, pone due interrogativi di fondo: che
tipo di tutela hanno oggi i titolari di rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa con la pubblica amministrazione e quale sia il percorso giuridico
attuabile per giungere a quella “armonizzazione” degli istituti necessaria e
conseguente alla riforma del lavoro di cui al decreto legislativo citato (art.
86, comma 8).
Con
riferimento al primo punto, va ribadito in questa sede che, anche con
riferimento ai c.d. “co.co.co.”, la norma generale di cui al secondo comma
dell’art. 36 del decreto legislativo 165/2001 impedisce a priori (indipendentemente
dall’applicabilità senz’altro da escludersi del decreto legislativo 276/2003
alla pubblica amministrazione) l’operatività di qualsivoglia meccanismo di
automatica conversione del rapporto in rapporto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato, come invece stabilito per il settore privato dall’art. 69 decreto
legislativo 276/2003. L’art. 36 citato, infatti, stabilisce che la violazione di
disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da
parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di
rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche
amministrazioni.
Ogni
dubbio di incostituzionalità di detta disciplina che potrebbe sorgere sotto il
profilo della violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione (diseguaglianza
tra lavoratori privati e pubblici e violazione del principio di buon andamento
della pubblica amministrazione) è stato definitivamente superato dalla Corte
Costituzionale che, giudicando sulla costituzionalità dell’art. 36 cit. con
riferimento alla analoga disciplina dei contratti a termine e della possibilità
della loro conversione, in caso di stipulazione al di fuori dei presupposti e
limiti di legge, in contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato,
ha ritenuto infondata la questione
ritenendo che, anche dopo l’intervenuta privatizzazione del rapporto di impiego
dei pubblici dipendenti, permangono differenze tra il rapporto di pubblico
impiego e quello di lavoro privato; in
primis in materia di instaurazione del rapporto di lavoro pubblico, la cui
disciplina è improntata al principio fondamentale, totalmente estraneo al
rapporto di lavoro privato, dell’accesso mediante concorso, enunciato dall’art.
97, comma 3, Costituzione, principio posto a presidio delle esigenze di
imparzialità e buon andamento dell’amministrazione (cfr. Corte Costituzionale,
sentenza 27 marzo 2003, n. 89).
Pertanto, anche con riferimento alla disciplina dei contratti di
collaborazione coordinata e continuativa, la scelta del legislatore di
ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione dei
lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni (quale sarebbe l’automatica
conversione del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa in rapporto
di lavoro subordinato a tempo indeterminato) conseguenze diverse rispetto a
quelle operanti nel settore privato risulta pienamente giustificata dalla
disomogeneità della situazioni lavorative dedotte.
In
conclusione, la tutela attualmente accordabile al collaboratore delle
amministrazioni pubbliche, nel caso di stipulazione del contratto al di fuori
dei presupposti di legge, non potrà mai determinarsi la conversione in rapporto
di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ma potrà estrinsecarsi
esclusivamente in forma risarcitoria e cioè nei limiti di cui all’art. 2126 c.c.
(e solo qualora il contratto di collaborazione abbia la sostanza del rapporto di
lavoro subordinato, con conseguente diritto del lavoratore a tutte le differenze
retributive e alla ricostruzione della posizione contributiva e previdenziale).
In tal caso, si potrebbe certamente
configurare una responsabilità amministrativa del dirigente che ha stipulato il
contratto di co.co.co illegittimo, con addebito del danno erariale
verificatosi.
Sulla configurabilità in concreto di una
siffatta responsabilità si rileva che:
·
per
quanto riguarda la condotta del dirigente, è principio ormai consolidato che
l’attribuzione ad esterni di incarichi rientranti nell’ordinaria attività
dell’ente e senza la preventiva
individuazione delle specifiche (e temporanee) finalità da perseguire
costituisca comportamento perseguibile ai fini della sussistenza della
responsabilità amministrativa (cfr., ex
plurimis, Corte Conti Sez. Puglia n. 244 del
21.3.2003);
·
con
riferimento al dolo o alla colpa grave (art. 1, legge 14 gennaio 1994, n. 20),
la consolidata giurisprudenza della Corte dei Conti (come già richiamata
all’inizio) pone un limite netto e preciso alla utilizzabilità di incarichi di
consulenza e collaborazione esterna, per cui non potrà certamente parlarsi di
“errore professionale scusabile”
(si veda Corte Conti, sez. Terza n. 24 del 28.1.2003, che ritiene la
sussistenza di colpa di rilevante gravità da parte degli amministratori quando
si tratta di incarichi concernenti l’assolvimento di normali compiti
amministrativi; si veda, inoltre, Corte Conti sez. Lazio n. 2137 del 21.10.2003,
che limita l’ammissibilità del ricorso ad incarichi esterni in caso di
“necessità straordinarie che esulano dalle ordinarie conoscenze dell’ufficio” e
di “manifesta insufficienza delle risorse interne a soddisfare la specifica
esigenza”);
·
maggiori
problemi sorgono con riferimento alla sussistenza o meno del danno erariale ed
alla sua quantificazione, dal momento che, utilizzando parametri prettamente
civilistici, si potrebbe sostenere che, comunque, le somme dovute al
collaboratore ex art.2126 c.c. (e cioè a fronte della provata illegittimità del
contratto di co.co.co. perché si sostanzia, nei fatti, in un rapporto di lavoro
subordinato vero e proprio) sono il corrispettivo di una attività lavorativa
prestata in favore dell’ente, il quale se ne è comunque avvantaggiato. L’art. 1
bis della legge 14 gennaio 1994, n. 20, infatti, stabilisce che nel giudizio di
responsabilità, oltre al potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi
comunque conseguiti dall’amministrazione. Va però detto come
In
conclusione, la posizione dei collaboratori coordinati e continuativi delle
amministrazioni pubbliche è senz’altro più debole rispetto al settore privato,
dove il decreto legislativo 276/2003 impone oggi condizioni di stipulazione
assai più rigorose (prima fra tutte, la necessità di un progetto connesso
all’incarico) e prevede il meccanismo (anche sanzionatorio per il datore di
lavoro) della conversione automatica in rapporto subordinato a tempo determinato
sin dalla data della stipulazione del contratto.
L’amministrazione, tuttavia, sia in virtù della propria funzione volta
alla realizzazione di interessi pubblici, sia in virtù dell’espresso richiamo
del legislatore (che nell’art. 86, comma 8, decreto legislativo 276/2003,
demanda al Ministro per
Senz’altro utile potrà essere una specifica ed analitica indicazione dei
criteri da seguire anche in coerenza con quanto previsto dal decreto legislativo
276/2003 e delle linee guida che emergono dalla copiosa giurisprudenza della
Corte dei Conti in materia dalle Amministrazioni che vogliano utilizzare
contratti di collaborazione coordinata e continuativa.
Non
potrà, invece, l’autonomia collettiva prevedere in linea di principio meccanismi
di automatica conversione a sanatoria di situazioni pregresse o comunque
verificabili, vigendo i limiti costituzionali nell’accesso per pubblico
concorso, l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione
sopra enunciati. Una clausola contrattuale di questo tenore sarebbe, infatti,
nulla per violazione di norme imperative di legge ex art.1418 c.c. nonché per
quanto previsto all’articolo 36, comma 2, del decreto legislativo
165/01.
7. ADEMPIMENTI CONSEGUENTI ALLA STIPULA DI
CONTRATTI DI
COLLABORAZIONE COORDINATA E CONTINUATIVA
Le
pubbliche amministrazioni che conferiscono incarichi di lavoro autonomo da
svolgersi in forma coordinata e continuativa sono tenute, al pari dei
committenti privati, agli
adempimenti di natura fiscale, previdenziale ed assicurativi previsti dalle
rispettive discipline di settore.
Sono tenute, inoltre, in caso di instaurazione di rapporti di lavoro
autonomo in forma coordinata e continuativa, a dare comunicazione contestuale al
centro territoriale competente nel cui ambito territoriale è ubicata la sede di
lavoro. In tale comunicazione sono indicati i dati anagrafici del lavoratore, la
data di stipula e di cessazione del contratto, la tipologia contrattuale, nonché
il trattamento economico e normativo, secondo le disposizioni contenute nel
comma 2 del decreto legge 1° ottobre 1996, n. 510, convertito dalla legge 28
novembre 1996, n. 608, come sostituito dall’articolo 6, comma 2, del decreto
legislativo 19 dicembre 2002, n. 297. Riguardo alle richiamate modalità della
comunicazione, si dovrà fare riferimento alle indicazioni che saranno a tal fine
fornite dal Ministero del lavoro e delle politiche
sociali.
Come noto, l’articolo 34 della legge 21 novembre 2000, n. 342, collegato
fiscale alla legge finanziaria per l’anno
Riguardo al nuovo regime, occorre, in primo luogo, ricordare come le
modifiche riguardino il solo profilo fiscale senza incidere sulla disciplina del
rapporto contrattuale.
La nuova qualificazione fiscale comporta, da un lato, la cessazione della
ritenuta fissa del 20% a titolo d’acconto dell’IRPEF e, dall’altro, il calcolo
di una ritenuta operato sulla base delle aliquote progressive per scaglioni di
reddito, contenute nell’articolo 11 del Testo unico delle imposte sui redditi,
all’atto del pagamento del compenso.
Ne discende, in sede di determinazione dell’imponibile fiscale, la non
concorrenza dei contributi previdenziali (comma 2, articolo 51 del TUIR) e
l’abbandono della deduzione forfetaria del 5 o 6 per cento; mentre, in sede di
tassazione del reddito, si avrà l’applicazione degli scaglioni e delle aliquote
IRPEF valide per i redditi di lavoro dipendente e l’applicazione delle
detrazioni previste dagli articoli 13 e 14 del Testo unico delle imposte sui
redditi, nonché delle deduzioni previste, dalla legge finanziaria per l’anno
2003, all’articolo 10-bis (ora articolo 11).
Sempre relativamente all’aspetto fiscale, occorre ricordare come non si
possano considerare rientranti nella fattispecie della collaborazione coordinata
e continuativa le prestazioni tipiche di lavoro dipendente o quelle relative
all’esercizio di una professione. Infatti, in quest’ultimo caso, laddove la
prestazione sia riconducibile ad attività per le quali necessitano conoscenze
tecnico-giuridiche che le facciano rientrare nell’esercizio di attività di
lavoro autonomo esercitata abitualmente, i compensi così percepiti saranno
soggetti alla disciplina fiscale relativa ai redditi da lavoro
autonomo.
7. 2 TUTELA PREVIDENZIALE
La legge di riforma del sistema pensionistico obbligatorio e
complementare, di cui alla legge 8 agosto 1995, n.
Il contributo, inizialmente dovuto nella misura stabilita dal comma 29
dell’articolo 2 della legge 335/95, è stato successivamente rideterminato come
indicato dall’articolo 51 della legge 23 dicembre 1999, n. 448, che ha
modificato il comma 16 dell’articolo 59 della legge 27 dicembre 1997, n. 449. Il
contributo continua, invece, ad essere determinato nella misura del 10% per
coloro che siano iscritti ad altra gestione pensionistica obbligatoria o che
siano pensionati.
Attualmente, con la circolare INPS n. 56/2004, l’aliquota contributiva per
l’anno 2004, appunto, è stabilita in 17,80% sino al limite di € 37.883,00 e al
18,80% per la quota eccedente sino al massimale di € 82.401,00. L’aliquota
prevista e quella aggiuntiva seguono sempre la ripartizione tra committente e
collaboratore di 2/3 e 1/3, così come previsto dall’articolo
1, comma 2, del decreto Ministeriale n. 281/1996, “Regolamento recante modalità
e termini per il versamento del contributo previsto dall’articolo 2, comma 30,
della legge 8 Agosto 1995, n.
Sempre per effetto delle disposizioni del
comma 29, il contributo si applica sul reddito delle attività determinato con i
medesimi criteri utilizzati ai fini dell’imposta sul reddito delle persone
fisiche e, pertanto,
il contributo previdenziale viene calcolato sul valore lordo del compenso, al
fine di far coincidere la base imponibile previdenziale con la base imponibile
IRPEF (Circolare INPS n. 32 del 7 febbraio 2001).
L’INPS, con la circolare n. 16 del
La denuncia, da effettuarsi tramite i modelli predisposti dall’ente,
dovrà contenere i dati identificativi del committente, il riepilogo dei
versamenti effettuati durante l’anno, nonché i dati relativi al collaboratore ed
ai contributi dovuti in relazione ai mesi per i quali è stato corrisposto il
compenso.
L’assimilazione dei redditi derivanti
dalle collaborazioni coordinate e continuative ai redditi da lavoro dipendente
si riverbera anche negli adempimenti previdenziali, infatti per effetto del
mutamento di regime operato dall’articolo 34 della legge 21 novembre 2000, n.
342 , tutti i riferimenti contenuti nelle disposizioni emanate anteriormente
dovranno riferirsi ora all’articolo 50 del Decreto del Presidente della
Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917.
Il decreto del
Ministero del lavoro e della previdenza sociale del 4 Aprile 2002, che ha
abrogato il precedente decreto ministeriale del 27 Maggio
L’assegno di
maternità viene corrisposto alle
lavoratrici, che possono far valere i seguenti requisiti:
§
non
essere iscritte a nessuna altra gestione previdenziale obbligatoria né essere
pensionate;
§
essere
iscritte alla gestione separata, con il pagamento del contributo previdenziale
addizionale dello 0,50% previsto per il finanziamento delle prestazioni per la
maternità e dell’assegno per il nucleo familiare;
§
vantare
almeno tre mensilità contributive, accreditate nei dodici mesi precedenti i due
mesi anteriori alla data del parto.
Inoltre,
l’indennità di maternità:
§
è
comprensiva di ogni altra indennità spettante per
malattia;
§
spetta
anche in caso di adozione o affidamento, per i tre mesi successivi all’ingresso
nella famiglia del bambino che, al momento dell’affidamento o dell’adozione, non
abbia superato i sei anni di età;
§
spetta
anche nei casi di adozione o affidamento preadottivo internazionale, per i tre
mesi successivi all’ingresso del minore nella famiglia, anche se, quest’ultimo,
abbia superato i sei anni di età e fino al compimento della maggiore
età.
E’,
inoltre, prevista anche l’indennità di paternità, sempre a partire dal 1 gennaio
L’indennità di
malattia per i periodi di degenza ospedaliera, prevista dalla legge n. 488/99 per gli
iscritti alla gestione separata che versano il contributo aggiuntivo dello
0,50%, a partire dal 1 gennaio 2000, è stata disciplinata dal Decreto del
Ministero del lavoro del 12 gennaio 2001. Con tale decreto si stabilisce,
appunto, sempre nel rispetto delle condizioni contributive previste per
l’assegno di parto, la misura dell’indennità di malattia che va commisurata alle
mensilità contributive accreditate.
L’indennità
spetta per ogni giorno di degenza presso strutture ospedaliere pubbliche e
private accreditate dal Servizio Sanitario Nazionale ovvero presso strutture
estere se autorizzate dal Servizio Sanitario Nazionale stesso; essa spetta,
inoltre, fino ad un massimo di 180 giorni nell’anno
solare.
L’assegno per il nucleo
familiare è previsto dall’articolo 4
del Decreto Ministeriale del 28 gennaio 1998, ai soggetti iscritti alla gestione
separata INPS. L’assegno spetta in misura proporzionale al numero e al reddito
dei componenti il nucleo.
Il
reddito familiare da considerare è costituito dalla somma dei redditi di ciascun
componente il nucleo, con esclusione dei redditi prodotti dai figli maggiorenni
e del coniuge legalmente separato. Non devono, inoltre, essere considerate le
rendite INAIL, le pensioni di guerra e l’indennità di accompagnamento degli
invalidi civili. L’importo dell’assegno viene erogato in misura decrescente in
rapporto agli scaglioni crescenti di reddito che annualmente vengono rivalutati.
Pertanto, sono state disposte delle tabelle in base alle quali è possibile
stabilire l’importo dell’assegno per varie tipologie familiari. L’assegno viene
erogato per i mesi dell’anno che risultano coperti da
contribuzione.
Tutte
le indennità previste dall’INPS sono erogate, a richiesta del soggetto che ne ha
diritto, inoltrando apposita domanda presso le competenti sedi
INPS.
Le pubbliche amministrazioni che abbiano stipulato rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa debbono tener conto che tali
collaboratori sono soggetti agli obblighi assicurativi qualora svolgano una
delle attività previste dall’articolo 1 del Decreto del Presidente della
Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124, Testo unico delle disposizioni per
l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali,
secondo quanto disposto dall’articolo 5 del decreto legislativo 23 febbraio
2000, n. 38, pertanto sono tenute a tutti gli adempimenti posti a carico dei
datori di lavoro dal citato Testo unico.
In pratica, si tratta delle attività già indicate nell’articolo 4 del
Testo unico, integrate dalle attività nelle quali vi sia utilizzo non
occasionale di veicoli a motore per l’esercizio delle mansioni
affidate.
Il
committente è tenuto alla denuncia di esercizio nella quale, oltre ad essere
riportati tutti gli elementi utili alla valutazione del rischio, debbono essere
indicati i nominativi dei collaboratori, la misura dei compensi e la durata del
rapporto di collaborazione. Inoltre, provvederà al pagamento periodico del
premio alle scadenze previste, alla eventuale denuncia di infortunio o malattia
professionale, nonché alla denuncia di cessazione del rapporto di
lavoro.
Il
premio assicurativo è ripartito fra i contraenti nella misura di un terzo a
carico del lavoratore e di due terzi a carico del committente ed è calcolato
sull’ammontare dei compensi effettivamente percepiti. Poiché, come già
richiamato in precedenza, l’articolo 34 della legge n. 342/2000 ha fatto
transitare nella sfera dei redditi di lavoro dipendente i redditi derivanti
dalle collaborazioni coordinate e continuative, la base imponibile ai fini
assicurativi
si
è adeguata al nuovo inquadramento normativo riferendosi,
attualmente, alle disposizioni contenute nell’articolo
52 del Testo unico
delle imposte sui redditi relative ai redditi assimilati a quelli da lavoro
dipendente: “…è
costituito da tutte le somme ed i valori in genere, a qualunque titolo percepite
nel periodo di imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione
al rapporto di lavoro”.
Ai
fini dell’individuazione del tasso applicabile all’attività svolta dal
lavoratore, si deve fare riferimento “a quello dell’azienda, qualora
l’attività stessa sia inserita nel ciclo produttivo; in caso contrario, a quello
dell’attività effettivamente svolta”. In altre parole:
§
qualora
l’attività del collaboratore sia riferibile ad una delle posizioni assicurative
già denunciate dal committente, si applicherà il tasso in vigore per detta
posizione;
§
in caso
contrario, si applicherà il tasso medio previsto per la corrispondente voce
tariffaria prevista dalle tabelle INAIL.
Stante
la formulazione della disposizione di cui all’articolo 5 del citato decreto
legislativo 38/2000, deve ritenersi che i committenti siano tenuti all’obbligo
di registrazione sui libri matricola e paga anche per i collaboratori coordinati
e continuativi. In tal senso, si è espresso anche il Ministero del lavoro e
della previdenza sociale, con nota del 2 gennaio 2001, nella quale è indicata la
possibilità di semplificare la tenuta dei libri paga e matricola per tali
lavoratori, considerata la particolarità della prestazione non riconducibile a
quella del lavoro dipendente.
La presente
direttiva è inviata all’Ispettorato per la funzione pubblica, al quale è
demandata dall’ordinamento vigente l’attività di vigilanza e verifica della
conformità dell’azione amministrativa ai principi di imparzialità e buon
andamento, nonché dell’osservanza delle disposizioni vigenti sul controllo dei
costi, dei rendimenti e dei risultati, ai sensi dell’articolo 13, comma 1, del
D.M. 30 dicembre 2002, recante Organizzazione interna del Dipartimento della
funzione pubblica.
IL MINISTRO
[1]
Si veda il sito www.aranagenzia.it “Gli istituti di lavoro
flessibile nella pubblica amministrazione
e nelle autonomie locali. Indagine quantitativa sul biennio
2000-
[2] Si veda il sito www.funzionepubblica.it alla voce lavoro pubblico
[3] Si veda Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale per il Veneto, 3 novembre 2003, n. 1124/2003 su Giornale di diritto amministrativo n. 1/2004. Sui medesimi principi si rinvia, inoltre, a: Corte dei Conti, Sez. I, 18 gennaio 1994, n.7; Sez. I 7 marzo 1994, n. 56; Sezioni Riunite, 12 giugno 1988, n. 27; Sez. II 22 aprile 2002, n. 137; Sez. controllo enti, 22 luglio 1994, n. 33.
[4] Corte dei Conti, Sezioni Unite, 12 giugno 1988, n. 27.
[5] Corte dei Conti, Sez. contr. Enti, 28 aprile 1992, n. 19
[6] Per i richiami normativi sui rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa via via susseguitisi, si vedano
principalmente: L.335/95 (c.d. Riforma DINI del sistema previdenziale), che ha
incluso tale categoria di lavoratori tra quelli tenuti ad iscriversi (in
mancanza di altra copertura previdenziale) alla gestione separata di cui
all’art.2 (c.d. quarta gestione INPS: art.3, comma 26), prevedendo un’aliquota
previdenziale inferiore a quella vigente per i rapporti di lavoro subordinato
(10% iniziale poi destinata a crescere fino al 20%, mentre quella normale
oscilla intorno al 33%); - L.449/97 (art.59, comma 16), che ha esteso ai
collaboratori autonomi iscritti alla gestione separata di cui sopra anche le
prestazioni dell’assegno per maternità e dell’assegno per il nucleo familiare; -
L. 448/99 (prestazioni anche in caso di malattia con degenza
ospedaliera); - d.lvo 38/2000 (art.5: obbligo per i datori di lavoro di
denunciare i lavoratori parasubordinati all’INAIL, per estendere anche a loro la
tutela dell’assicurazione obbligatoria degli infortuni sul lavoro); - L.
342/2000, che ha previsto l’assimilazione dall’1.1.2001 dal punto di vista
fiscale dei redditi parasubordinati a quelli da lavoro dipendente, con la
possibilità di beneficiare delle detrazioni e delle esclusioni dalla formazione
della base imponibile previste per i dipendenti nonché la valutazione omogenea
anche dei compensi in natura.
[7] Si veda Cassazione Sez. Unite Civili, sent. n. 61 del 13 febbraio 1999.
[8] cfr. Corte Conti, sez. riun. 18.12.1996 n.80/a su Rivista Corte conti 1997, fasc. 1. 67, Foro amm. 1997, 1834