1. Perché le Rsu
Sono varie le angolature da cui
analizzare la questione della rappresentanza sociale. Qui scegliamo di farlo dal
lato delle rappresentatività: delle modalità con cui si misura l'effettiva
consistenza rappresentativa dei diversi soggetti sindacali. L'introduzione delle
Rsu (Rappresentanze sindacali unitarie) nel 1993 ha colmato questa lacuna del
sistema italiano di relazioni industriali, ma con differenze tra i diversi
settori produttivi.
Per la prima volta
nel 1998 e poi ancora nel 2001, in coincidenza con le elezioni dei
rappresentanti sindacali nel lavoro pubblico, si è assistito ad una campagna
elettorale in piena regola.
Manifesti,
riunioni di candidati, primarie, persino affissioni per le strade: è il caso ad
esempio dell'Ugl, che, da neofita, ha partecipato massicciamente e diversamente
dal passato a questo momento elettorale.
Con il decreto legislativo Bassanini che ha aperto la strada, in questa
occasione elettorale lo scenario si è modificato rispetto ad un processo
elettorale a singhiozzo e intermittente.
Si è così prodotto un avvicinamento tra elezioni politico-partitiche e
elezioni delle rappresentanze funzionali. Un avvicinamento che presenta
sicuramente la faccia positiva di una maggiore solennità e generalità
dell'elezione dei rappresentanti dei lavoratori. Ma che presenta - come insegna
il caso francese - anche il rischio di un sindacato troppo legato al momento
elettorale, e che trascura - o è inadeguato rispetto a - altre dimensioni
dell'azione collettiva.
Per questa
ragione è utile tornare sull'esperienza applicativa delle Rsu nel corso del
primo ciclo elettorale post 93-94, e interrogarsi anche sul ruolo e sul senso
delle strutture di base nell'azione sindacale.
Ragionare sulle Rsu prossime venture è possibile farlo in modo più
fondato a partire dai risultati pratici, tanto positivi che critici, conseguiti
sul campo.
Un atteggiamento più
sanamente empirico che può aiutare le organizzazioni sindacali a migliorare le
loro prestazioni nei luoghi di lavoro.
Ed anche un utile rovesciamento rispetto ad un'ottica deduttiva -
purtroppo radicata negli attori sociali - che tende a ricavare i comportamenti
da principi o idee molto generali. Un vizio di questo genere è presente
sicuramente - ed è un limite - nel dibattito che ha accompagnato in passato i
progetti di legge sulla rappresentanza, che si proponevano di estendere
all'insieme del tessuto produttivo criteri di misurazione stabili della
rappresentatività sindacale.
Infatti le regole del gioco nel
campo della rappresentanza - perché di questo si tratta - debbono tradurre
alcune istanze sindacali, come quelle di una maggiore trasparenza democratica.
Ma debbono - o dovrebbero proporsi - anche di dare risposte efficaci ad alcuni
quesiti pratici: come quello di una piena funzionalità di questi organismi tanto
sul versante della capacità di canalizzare le domande dei lavoratori, che su
quello di un approccio competente e problem solving verso le questioni
contrattuali.
Ad una legge sulla
rappresentanza è più opportuno chiedere quello che può dare e non di
più. Se i sindacati hanno una crisi di
rappresentanza è difficile che la legge da sola possa
risolverli. Perché la legge può incentivarli
- e soltanto incentivarli - ad essere più rappresentativi e più
democratici.
La legge - qui parliamo di
un metodo, piuttosto che di una proposta precisa che in questo momento non è
all'ordine del giorno - ha un ruolo ben preciso ed essenziale: quello di offrire
all'insieme dei lavoratori dipendenti, in modo generalizzato, l'opportunità di
accesso a rappresentanze organizzate dei loro interessi nei luoghi di
lavoro.
E' probabile che nei settori
privati questa generalizzazione continuerà ad incontrare ostacoli strutturali, a
causa del carattere frammentato e di piccole dimensioni della struttura
produttiva. Ciononostante si potranno ottenere soglie di copertura decisamente
più ampie di quelle conseguite negli anni passati.
Accanto a questo la legge può gettare le basi non per la
soluzione di aspetti che sono divenuti sempre più metafisici: come se bisogna
rappresentare di più e meglio tutti i lavoratori o solo gli iscritti, rispetto a
cui la legge - come già fa il decreto legislativo n. 396 - più modestamente può
trovare criteri per pesare e far pesare voti e iscritti.
Piuttosto le norme possono aiutare alla costruzione di una
strumentazione efficace per lo svolgimento delle funzioni tipiche delle
strutture di base (almeno in Italia, dove godono di una contitolarità
negoziale): di espressione della base lavoratrice e sua rielaborazione in
attività contrattuale utile (e quindi capace di contemperare gli interessi in
gioco) e non solo dimostrativa.
In
diversi paesi europei ed anche all'estero si assiste ad una rinnovata stagione
di interesse e di studi nei confronti delle rappresentanze di base (si vedano
per esempio Rogers e Streeck, 1995).
Le
ragioni sono di diverso tipo.
La più
importante è che in un periodo - ormai ultradecennale - di difficoltà della
sindacalizzazione in molti paesi le strutture di base costituiscono l'antidoto
più importante per rafforzare il radicamento sociale dei sindacati. Non vi sono
sindacati forti e rappresentativi senza solidi e diffusi organismi nei luoghi di
lavoro. Si può verificare piuttosto il contrario. Ed in effetti possiamo
segnalare almeno due casi interessanti. Quello olandese, nel quale proprio il
rilancio di questi organismi ha consentito - insieme ad altri aspetti - di
invertire un lungo trend di difficoltà e di declino organizzativo dei sindacati,
gettando le basi per costruire l'inversione del ciclo. L'altro è quello inglese,
dove proprio le rappresentanze aziendali hanno contribuito a tamponare il
collasso nelle iscrizioni subito nell'ultimo ventennio dalle Unions, il più grave e accelerato caso di caduta sindacale
della storia recente (in parte imputabile, oltre che alla politica antisindacale
dei governi conservatori, allo stesso modello britannico di decentramento
organizzativo e contrattuale).
Questa
ragione di interesse è stata rafforzata negli ultimi anni dal ritorno in molti
paesi - dopo la parentesi degli anni ottanta - di politiche di concertazione
centralizzata (spesso denominate patti sociali), dovute alla necessità di
costruire politiche dei redditi consensuali per impostare provvedimenti
economici rigorosi, ma anche equi, come richiesto dai parametri di Maastricht.
Proprio il carattere di scambio centrale - tra le leadership politiche e quelle
delle grandi organizzazioni di rappresentanza dei datori e dei lavoratori - ha
imposto l'esigenza di rafforzare un contrappeso socialmente più radicato in
ambito decentrato, peraltro in sintonia con la domanda di decentramento e di
flessibilità che viene dalle imprese.
A
questo riguardo è importante notare come cambi la natura del rapporto tra centro
e periferia del sistema di relazioni industriali. La concertazione classica -
quella descritta nella letteratura degli anni settanta e ottanta - configurava
forme di decentramento (di poteri e contrattuali) compatibili con le decisioni
centrali, che fungevano da baricentro del sistema. Ora la situazione si presenta
rovesciata. E' piuttosto il momento di coordinamento centrale - via
concertazione tripartita - ad essere impostato ed accettato solo in quanto
compatibile con il tasso di decentramento necessario per il dinamismo
dell'intero sistema socio-economico. Del resto le stesse Rsu e le modalità del
decentramento contrattuale (il secondo livello di contrattazione) sono nate
attraverso un Protocollo centrale triangolare, come quello del luglio 1993. In
effetti si parla di «decentramento controllato» o anche di «decentramento
centralizzato»: ma senza evocare un gioco di parole potrebbe anche essere usata
la metafora dell' «accentramento decentrato». In questo bilanciamento
centro-periferia che sembra destinato a caratterizzare anche in futuro le
relazioni industriali, le strutture di base sul modello delle Rsu sembrano
quindi destinate a giocare un ruolo di equilibrio e di contemperamento tra
istanze differenti.
Un'altra ragione che
motiva l'importanza delle rappresentanze di base consiste nei fenomeni di
localismo in campo politico ed economico e di allocazione decentrata di
decisioni che praticano molte imprese (anche se le più grandi e transnazionali
adottano comunque una verticalizzazione delle decisioni strategiche).
L'affermazione di questo scenario era stata già segnalata (Streeck, 1984)
all'inizio degli anni ottanta, ma è diventata più impetuosa e problematica con
il progredire della crisi del modello produttivo fordista. Ciò che viene deciso
e realizzato, in termini di performance economiche, in ambito aziendale conta
più che in passato, e c'è una sfera maggiore di autonomia e di possibilità di
incidere sui risultati della propria unità produttiva (e questo riguarda nello
stesso modo i servizi e il pubblico impiego).
L'effetto di questo cambiamento - nel senso di una regolazione (ancora
incerta) postfordista - è duplice. Le strutture di base diventano più importanti
tanto nel sistema sindacale che in quello aziendale. Infatti esse sono premute -
per essere utili - a passare da attività di controllo a funzioni di intervento
attivo e partecipativo nella vita produttiva. Per poter incidere nella loro
realtà debbono essere più propositive. E in questo senso giovano anche agli
interessi datoriali, perché aiutano a migliorare la comunicazione interna e i
rapporti con i dipendenti (questa è la tesi di Streeck che li interpreta come
organismi con funzioni sempre più sostanzialmente bilaterali). La conseguenza per i sindacati è che se in passato le
strutture di base - i vecchi consigli dei delegati - potevano anche limitarsi ad
un ruolo di terminale passivo delle strategie di rappresentanze, ora sono
chiamate a svolgere un ruolo di terminale attivo, più esposto e nello stesso
tempo più autonomo nella ricerca di soluzioni.
E questo è in effetti l'interrogativo più importante: le Rsu nei loro
cicli di attività sono riuscite a funzionare bene, a non essere stritolate dal
triangolo in cui si muovono: condannate ad essere utili per i lavoratori, per i
datori di lavoro pubblici e privati, per il sindacato? Ma anche a svolgere il
ruolo di garante essenziale e di promozione delle domande e degli interessi dei
lavoratori rappresentati? Nel settore pubblico l'Aran ha ben mostrato che solo
un'assistenza continua, rivolta tanto alle amministrazioni che ai sindacati, può
consentire di fronteggiare in modo adeguato i microproblemi - spesso procedurali
- che si ripresentano continuamente e che richiedono agli attori una costante
capacità di adattamento.
2.
L'apprendimento organizzativo
Che
senso ha parlare delle Rsu a quasi un decennio di distanza dalla loro prima
istituzione?
Si è già detto che si è
messo in opera un ciclo con caratteri largamente inediti, che hanno messo alla
prova il modello organizzativo Rsu e la capacità degli attori sociali di
misurarsi con un sistema di rappresentanza più esteso.
Ma soprattutto un'indagine sul funzionamento delle
rappresentanze di base - quale quella cui si fa riferimento - si situa intorno
alle esperienze effettuate e ai risultati conseguiti in chiave di apprendimento
organizzativo.
Rispetto alle intenzioni
originarie i sindacati si sono trovati ad operare in una situazione diversa. I
rapporti tra le tre confederazioni che sembravano avviati all'unità non hanno
certamente fatto passi avanti (ed anzi hanno subito forti battute d'arresto).
Questo ha reso più arduo far funzionare molte Rsu come organismi davvero unitari
e coesi. In alcuni casi, soprattutto nel pubblico impiego, questo eccesso di
pluralismo (con conflitti tra le organizzazioni, anche quelle confederali) ha
reso impraticabile la continuazione di un'esperienza comune. Inoltre molte
organizzazioni autonome ed extraconfederali non hanno partecipato al primo ciclo
elettorale, rendendo più difficile il cammino dei rappresentanti eletti,
continuamente chiamati a dichiarare la loro effettiva
rappresentatività.
Questi difetti sono
ora in buona misura superati grazie alle norme che regolano la rappresentanza
nel settore pubblico. Esse infatti costituiscono un buon compromesso tra
competizione e solidarietà tra i sindacati. Costringono tutte le sigle a
misurare - attraverso il voto (ed anche le deleghe) - la loro rappresentatività
effettiva, se vogliono accedere alla contrattazione. Ma impongono di pensare
alle Rsu - una volta superata la competizione elettorale - come a organismi
unitari e pluralisti, se vogliono svolgere in modo efficace le loro funzioni di
rappresentanza e di contrattazione.
Per
Cgil, Cisl e Uil si tratta di mettere alla prova quanto hanno appreso negli anni
passati, quando dopo una prima fase di investimento e di entusiasmo legato alle
potenzialità delle Rsu (qualche volta sopravvalutate) c'è stato il rientro - in
molti casi non sempre - in una routine disattenta.
Questa è stata l'ottica con la quale abbiamo analizzato i
dodici casi, che sono stati oggetto delle interviste in profondità che hanno
caratterizzato l'indagine.
Lo scopo era
capire quello che ha funzionato e quello che non ha funzionato nell'esperienza
applicativa delle Rsu, partendo dalle percezioni e dalle osservazioni dei
delegati - spesso per la prima volta - direttamente impegnati in questa
esperienza.
In modo da identificare
punti di forza e aree critiche e aiutare progetti organizzativi dei sindacati
più mirati.
In particolare le aree
indagate sono state:
- il rapporto con i lavoratori, per capire se
l'introduzione delle Rsu hanno incentivato, o meno, rapporti migliori e più
costanti;
- il rapporto con le
organizzazioni sindacali esterne per verificare la capacità di coordinamento
tra «sindacato interno» e «sindacato esterno»;
- il rapporto con le controparti, mirato a mettere a fuoco
l'evoluzione delle relazioni con i datori di lavoro;
- il funzionamento interno degli organismi eletti, per
inquadrare la loro efficacia e il fabbisogno di competenze necessarie per
affrontare i loro diversi compiti.
3.
Rappresentanti e rappresentati
Alla
radice della costituzione delle nuove rappresentanze si trova un lungo dibattito
sull'affievolimento dei rapporti tra sindacati e lavoratori che si è trascinato
lungo tutti gli anni ottanta.
Alle Rsu si faceva quindi carico di
ristabilire un canale di rapporto costante, un termometro continuamente in
funzione degli umori e delle domande dei lavoratori.
Non c'era una reale dotazione di nuovi strumenti. Piuttosto
si può parlare di incentivi verso un rapporto più democratico con i delegati
eletti.
Infatti l'incentivo più
importante consiste proprio nel ritorno all'elettività periodica degli
organismi.
Questo avrebbe dovuto
favorire un ricambio di quadri rispetto ad una lunga fase di ingessatura nella
quale molti delegati erano rimasti in carica per lungo periodo, mescolando
tratti di militanza disinteressata e di professionismo politico
separato.
In alcuni casi, come nei
meccanici e in altre categorie, i sindacati si erano accordati per procedure di
verifica democratica più stringente e più diretta (come consultazioni e
referendum) rispetto alle decisioni più rilevanti, come quelle sulle materie
contrattuali.
Quindi la normalità è
costituita dal ripristino di una corretta democrazia rappresentativa. Mentre in
alcuni casi si dà luogo anche a meccanismi di democrazia partecipativa, che
assume un carattere necessariamente integrativo rispetto alla
prima.
La sfera della rappresentanza è
stata quella nella quale sono stati conseguiti i migliori risultati, soprattutto
nella fase iniziale di mobilitazione collettiva: una mobilitazione sicuramente
non spontanea come quella che portò alla nascita del «sindacato dei consigli»
(secondo la classica definizione di Trentin), ma prodotta dalle organizzazioni,
e quindi diversamente dall'altra molto più legata all'impegno e alla volontà del
sindacato.
Piuttosto il problema più
critico sul versante della democrazia e della rappresentanza - e non va
sottovalutato - è quello del (relativamente) limitato numero di Rsu elette. Come
già altre volte è stato detto il bacino di utenza delle Rsu fuori del settore
pubblico non ha superato i tre milioni di lavoratori.
Quindi il nodo maggiore è che la maggioranza dei lavoratori
dipendenti è allo stato priva di una rappresentanza sindacale di base. Aspetto
sul quale ha ovviato, almeno nel settore pubblico, il quadro normativo delineato
nel 1997.
La materialità dei rapporti
quotidiani, pur non esente da difficoltà e problemi, si è svolta lungo una linea
di sviluppo positiva, come indicano i nostri studi di caso.
L'istituzione delle Rsu ha portato ad un ricambio, parziale
o più largo, dei delegati, accompagnato da un buon
rinnovamento generazionale. Ha quindi consentito, anche se non
dappertutto, di superare il collo d'imbuto costituito dai professionisti della
rappresentanza sindacale, spesso divenuti poco
rappresentativi.
Soprattutto l'elezione
è stata vista come un'occasione per rafforzare i legami con i lavoratori, come
un vincolo ad assumere le decisioni più importanti in stretto contatto con la
base.
Il consenso effettivo, e non il
semplice atto dell'elezione, è stato il punto di riferimento dell'azione della
maggioranza dei delegati: a conferma che la rappresentatività non è data una
volta per tutte, ma si conquista sul campo.
Ciò non toglie che non emerga un ritratto idilliaco o senza
problemi.
I delegati sono al centro di
una rete di comunicazioni. Su di loro si scaricano molte e disparate richieste,
che toccano anche gli aspetti più privati. In genere si tratta di domande
individuali legate a microproblemi dentro le quali i delegati corrono il rischio
di perdersi. Spesso queste domande si traducono in tensioni e
microconflittualità che il delegato deve sapere contenere e
regolare.
C'è quindi la prevalenza della
comunicazione informale faccia a faccia. Le sedi formali - come le assemblee -
sono spesso svuotate di significato. O hanno un senso quando sono affrontate in
modo non retorico e per gruppi di lavoratori più piccoli e più
specifici.
Ma nello stesso tempo si
lamenta spesso la carenza di comunicazione e la necessità di rafforzare e
socializzare l'informazione: in questo campo contano più i contatti personali
con i lavoratori che i mezzi di comunicazione (tipo comunicati e volantini
tradizionali e un po' standardizzati).
Il profilo del delegato che emerge è quello di un assistente a tempo
pieno, una specie di confessore pronto ad ascoltare ed assorbire le questioni
più disparate: a cui si richiede un grande impegno sul luogo di lavoro, ma
spesso anche molta disponibilità fuori, dal momento che viene raggiunto da
telefonate a casa.
La democrazia
sindacale si è arricchita, ma anche in questo caso con la prevalenza di
meccanismi informali piuttosto che con il rispetto di procedure ben
codificate.
Non c'è dubbio che vi sia
l'esigenza di rispettare regole precise, per evitare di cadere, com'è successo
in passato, in rapporti con i lavoratori casuali e burocratizzati. Non bisogna
però dimenticare che secondo molti si tratta di una questione interna alle
organizzazioni, che difficilmente può tradursi in norme
generali.
Accanto all'effetto positivo
di questa maggiore trasparenza democratica, bisogna però segnalare il rischio di
un effetto non voluto: la spinta a dissociarsi di una parte dei lavoratori, la
spinta verso l'incrementalismo, verso il chiedere di più rimanendo
insoddisfatti.
Questo è un profilo che
si intravede in alcune situazioni limite da noi analizzate (specie in presenza
di ristrutturazioni e riduzioni di personale). In questi casi i delegati si
trovano su una frontiera ripida e sono continuamente criticati, per il solo
fatto di poter proporre ai lavoratori rappresentati solo concessioni e non anche
acquisizioni.
La sfera della democrazia
nell'ambito delle rappresentanze del lavoro rimane dunque in un equilibrio
delicato, dal momento che non è facile mantenere il consenso in presenza di
risorse scarse, e in mancanza di ricette sicure.
Il bilancio che si può fare in questa sfera è quindi
sostanzialmente positivo anche se si vede il rischio di inclinare verso il
delegato omnibus che per svolgere bene la sua attività dovrebbe intendere il suo
ruolo come militanza a tempo pieno e con un impegno totale.
E questa disponibilità non scompare, ma appare
ridimensionata dalla prevalenza di ragioni pratiche e pragmatiche nella scelta
di fare i delegati: il voler fare qualche cosa di utile, il voler intervenire
sulle condizioni di lavoro della proprio azienda prevalgono rispetto a
motivazioni generali e politiche. Ma questo significa anche che per molti
delegati l'impegno non ha i caratteri di una scelta globale, ed è collegato al
fatto di essere o di sentirsi utili, di modificare i dati della
realtà.
In molte risposte i delegati
fanno vedere che le loro aspettative iniziali sono state deluse e di non
ritenere utile la loro attività, almeno nel senso della capacità di produrre
effetti collettivi (beni pubblici).
Molto spesso si assiste ad un paradosso: che i delegati dichiarino di
aver tratto un vantaggio individuale da questa esperienza - aver aumentato le
conoscenze, essere «cresciuti» - ma senza ricadute significative sugli
altri.
Se il rapporto con i lavoratori è
sostanzialmente buono e rinvigorito, pure emerge la difficoltà di tradurre i
problemi più avvertiti da semplici esigenze individuali in richieste collettive
e negoziali: come nel caso di aspetti specifici dell'organizzazione del lavoro e
dei carichi, degli orari, della mobilità e della
professionalità.
E' evidente che un
miglioramento in questo campo dipende non solo da una migliore capacità di auto
organizzazione delle Rsu (più facile nelle realtà produttive con molti
delegati), ma da un impegno attivo delle organizzazioni sindacali a non lasciare
soli i delegati, a inserirli in una rete.
A supportarli, in primo luogo con le attività di formazione che sono
molto richieste, e poi aiutandoli a smistare richieste (verso strutture
specializzate, o verso i competenti in materia), oppure con staff tecnici:
spesso il ruolo preferito del sindacato esterno è quello del
consulente.
4. Rsu e
sindacato
Le Rsu, come dice il loro
nome, sono anche un pezzo di organizzazione sindacale, quella che appunto opera
nei luoghi di lavoro. Si tratta di una specificità italiana e di pochi altri
paesi, che si traduce nell'esercizio del potere negoziale in ambito decentrato:
un potere che è appunto in generale riservato alle organizzazioni sindacali e
non a semplici organismi elettivi dei lavoratori.
Questa peculiarità italiana appare
destinata a restare. Infatti l'ipotesi avanzata inizialmente dal disegno di
legge Gasperoni della passata legislatura di rafforzare il carattere di
rappresentanze solo dei lavoratori (e non anche sindacali) delle strutture di
base appare tramontata. Anche sul piano lessicale. In quanto la sigla Rul
(rappresentanze unitarie dei lavoratori), molto contestata per questo suo
significato simbolico, è stata nuovamente rimpiazzata da quella Rsu
(rappresentanze sindacali unitarie).
Ma
il loro inserimento nel tessuto vivo dell'organizzazione sindacale è tutt'altro
che automatico.
Ed è anche largamente
incerta l'area di attività concretamente occupata dalle Rsu e dalle
organizzazioni territoriali (esterne ai luoghi di lavoro), che - in base al
Protocollo del luglio 1993 - condividono la responsabilità della contrattazione
nel secondo livello, aziendale o territoriale. Che cosa fa l'uno, e cosa
l'altro. Cosa significa e come si esercita questa
contitolarità?
In mancanza di risposte
definitive e di una chiara divisione dei ruoli su questo punto - e non sembra
che neppure il disegno di legge sopra richiamato ne dia di precise - appare
quindi utile capire come hanno funzionato concretamente i rapporti tra questi
diversi segmenti, tra il «sindacato interno» e quello esterno, come sono stati
definiti efficacemente.
Sarà utile
richiamare qui schematicamente la possibilità che si dia vita a tre tipi di
rapporto, che corrispondono anche a culture diverse (ed obiettivi strategici
sensibilmente diversi):
- rapporti bilaterali a dominante sindacale, nei
quali è il sindacato esterno a giocare il ruolo principale e gerarchicamente
sovraordinato;
- rapporti centrati
sull'azienda e il ruolo di perno delle rappresentanze aziendali, con relazioni
più meno conflittuali con il sindacato esterno, che appare come una
appendice;
- rapporti che tendono a
strutturare su basi sostanzialmente paritarie una rete di cooperazione e di
lavoro comune dai ruoli non nettamente definiti tra rappresentanze in azienda
e sindacato organizzazione.
Questa terza è
la modalità più diffusa nei casi che abbiamo esaminato. In una sostanziale linea
di continuità con il passato, come avevano dimostrato ricerche sul funzionamento
dei Consigli dei delegati (in particolare quelle condotte da Ida Regalia), in
quanto questi rapporti erano un aspetto intrinseco all'attività sindacale e
quindi ricercati come abituali, anche se con intensità variabile ed oscillante e
non sempre con produttività (e con soddisfazione di entrambi i
soggetti).
E' vero che sono presenti - e ne abbiamo trovato le tracce - le altre due
culture, quella del dirigismo sindacale, che nel settore pubblico conserva
importanti eredità, e quella dell'autosufficienza delle strutture di base, che
inseguendo il miraggio dell'autonomia, sconfina assai spesso in una chiusura
corporativa (particolaristica).
Ma c'è sicuramente una novità che va
valorizzata, e cioè che si è attenuata l'idea di un dirigismo meccanico e
verticale da parte degli organismi territoriali del sindacato, che hanno
imparato a fare i conti - senza riuscirci sempre in modo efficace - con il
pluralismo delle spinte e delle domande presenti nella base
lavoratrice.
5. Il rapporto con le
controparti
Ogni organismo di base
si regge se è sostenuto da leggi, che ne promuovono l'attività, o se è
riconosciuto da entrambe le parti, e quindi anche dai datori di lavoro, come
essenziale canale di espressione delle domande dei dipendenti.
La presenza dei
consigli di fabbrica, subiti più che riconosciuti dalle controparti, era stata
troppo a macchia di leopardo, anche per la difficoltà di trovare un accordo
generale tra le grandi organizzazioni di rappresentanza: almeno le tre
Confederazioni e la Confindustria.
Con
le Rsu si è arrivati per la prima volta dall'epoca delle Commissioni interne ad
accordi tra le parti sull'implementazione delle strutture di base. Non solo
l'inserimento solenne nel Protocollo triangolare del 1993, ma anche accordi
bilaterali, incluso - e si tratta di un'importante innovazione - il settore
pubblico (Accordo Aran-sindacati dell'aprile 1994).
E' stato fatto un passo avanti, ma non è bastato ad
allargare in modo sostanziale la base del sistema di
rappresentanza.
Dalle indagini condotte
negli anni scorsi emerge un faticoso processo di apprendimento del gioco, che ha
consentito una migliore circolazione di informazioni e di conoscenze tra le
parti. E nella sostanza il riconoscimento delle Rsu si è tradotto in regole
materiali condivise.
Ciò non toglie che
questo passaggio non si sia accompagnato a nuovi stili relazionali da parte del
mondo imprenditoriale. Nel settore pubblico spesso stenta ad emergere un vero e
proprio profilo datoriale nelle amministrazioni periferiche. Gli atteggiamenti e
i modelli organizzativi rimangono sostanzialmente inalterati. E se prevale
l'accettazione delle rappresentanze sindacali - uno stile «costituzionale» - i
comportamenti oscillano come sempre tra paternalistici, strumentali,
collaborativi, e non mancano anche momenti o atteggiamenti conflittuali: tutti
ingredienti che nel settore pubblico possono scivolare verso non dimenticate
confusioni di responsabilità e sovrapposizione di ruoli.
In realtà non sono modificate in profondità le culture
precedenti dei datori di lavoro privati e pubblici e non si verifica un
passaggio chiaro a una cultura più cooperativa, nonostante la spinta a muoversi
in questa logica venuta dall'introduzione del salario legato ai risultati (perno
della contrattazione decentrata post-luglio 1993). E' possibile che la
responsabilità sia da attribuire ad entrambi i soggetti - sindacati e datori di
lavoro -, ma in molti casi sono questi ultimi ad apparire, nelle indagini sul
campo, i più restii ad incamminarsi su una strada
innovativa.
L'istituzione delle Rsu ha
toccato solo la superficie del sistema delle imprese (e dei datori di lavoro
pubblici).
Questo appare vero:
- sul piano dell'estensione dal momento che
larga parte delle unità produttive più piccole ha mantenuto un orientamento
diffidente, ed è stata estranea alla penetrazione del sistema di
rappresentanze di base;
- sul piano
della profondità dell'impegno, dal momento che non si è verificato un forte
investimento di risorse organizzative dei datori di lavoro in questa
direzione. Cosa che ha reso spesso le aziende (e i padroni pubblici in
particolare) poco attrezzati tecnicamente ai compiti della contrattazione
decentrata.
Le Rsu sono state viste
dall'insieme di questo mondo come una necessità, piuttosto che come una risorsa
per migliorare le relazioni di lavoro, e canalizzare le domande collettive dei
lavoratori in modo più funzionale, per coinvolgere i dipendenti e migliorare le
performance d'azienda (non parliamo di più democrazia nei luoghi di lavoro,
perché dal punto di vista dei datori di lavoro questa è una variabile
residuale).
L'ipotesi di Streeck (nel
volume citato, 1995) che le rappresentanze di base stiano diventando -
all'interno dello sviluppo di forme di partecipazione - uno strumento di lavoro
per entrambe le parti non prende piede in Italia. E non tanto per la permanenza
di una tradizione conflittuale del movimento operaio (che è stata sicuramente
rielaborata negli anni scorsi), ma per la staticità organizzativa del tessuto
diffuso dei datori di lavoro. Quindi non tanto le organizzazioni collettive di
rappresentanza datoriale, quanto i comportamenti micro di imprenditori, manager
e dirigenti pubblici (come mostrato nell'indagine condotta per l'Aran da
Bordogna) come attori individuali stentano ad adeguarsi alla nuova
situazione.
Alla freddezza media del mondo datoriale, va aggiunto un altro elemento
complicante, che ha riguardato in modo peculiare il settore pubblico (come
emerge dalla già citata ricerca). I rappresentanti dell'azienda-Stato hanno
dimostrato nei nostri casi resistenza a farsi responsabilizzare: manca in ambito
decentrato una rappresentanza adeguata degli interessi degli enti pubblici in
quanto datori di lavoro. Non solo scarsa responsabilizzazione, ma anche
attitudini tecniche ed operative spesso insufficienti. A quanto sembra, nel
settore pubblico sono proprio le controparti dei sindacati ad avere maggiore
necessità di apprendimento delle implicazioni della contrattazione decentrata
(comunque più regolata che negli altri settori).
Le Rsu si sono comunque pienamente legittimate, nelle realtà
in cui operano, come rappresentanze nei luoghi di lavoro, e sono state anche
legittimate dalle loro controparti.
Ma
anche nei casi nei quali i rapporti tra le parti sono buoni e costanti - cosa
che avviene nella maggior parte delle realtà - questo non garantisce
automaticamente buoni risultati condivisi, di natura «sistemica». Perché manca
un investimento verso la piena bilateralità, capace di utilizzare appieno il
potenziale non solo contrattuale (più tradizionale), ma anche partecipativo
delle Rsu.
Piuttosto le attività
condotte dalle strutture di base hanno contribuito a far crescere tra i delegati
eletti uno stile di rappresentanza più complesso, attento non solo alle esigenze
della base, ma anche ai vincoli e obiettivi aziendali: aspetto su cui si
registra una novità rispetto alla storia dei Consigli e sulla quale aveva
giustamente richiamato l'attenzione Bruno Manghi.
6. Il funzionamento interno
Lo stile più complesso di rappresentanza a cui sono
costrette le Rsu ci introduce al principale nodo-sfida dell'azione recente delle
rappresentanze di base.
Una
rappresentanza con più variabili si presenta di per sé faticosa e di difficile
riuscita. Questo era già vero in passato, visto che nel nostro paese si è
configurato un sistema a canale unico, nel quale un solo soggetto (in questo
caso la Rsu, ma in precedenza i consigli dei delegati) assomma un insieme di
funzioni, dalla rappresentanza dei lavoratori, a quella delle organizzazioni,
fino alla stessa azione negoziale. E in passato Aris Accornero (1992) aveva
messo in guardia i sindacati dal rischio di far soccombere i delegati sotto il
peso di una volontà titanica di rappresentanza: in cui però forte era la forbice
tra intenzioni e capacità operative.
Questa forbice ha sicuramente inciso sul lento declino dei consigli e il
loro progressivo deperimento in termini di capacità di esercizio di funzioni:
dato accompagnato spesso da vitalità e andamenti sussultori, come ha ben
evidenziato Ida Regalia (1984), mostrando anche che molti consigli hanno fatto
bene anche dopo gli anni felici, e che si sono verificati percorsi ed esiti
quantomeno differenziati.
E questo
problema si è riproposto sotto specie di dilemma anche negli anni scorsi. A
fronte di una crescita potenziale del ruolo di questo organo di rappresentanza,
impegnato non solo ad aggregare la pluralità di interessi presenti nei luoghi di
lavoro (attività anch'essa complicata dalla diversificazione delle domande e di
questi interessi), ma anche a muoversi in un logica più partecipativa, aiutando
le aziende a essere più efficienti e competitive. Quindi la ricerca di un
difficile - e non scontato - equilibrio tra interessi dei dipendenti e obiettivi
aziendali.
Per questa ragione è stato
messo l'accento su due diverse esigenze:
- la costruzione di azioni formative più o meno
permanenti per assicurare la crescita di competenze dei
delegati;
- l'attenzione, maggiore che
in passato, da riservare al modo di lavorare, in modo da evitare il doppio
rischio della sovrapposizione e della dispersione delle attività condotte dai
delegati.
Un bilancio sul primo punto è
sostanzialmente positivo. Varie iniziative hanno contribuito a sviluppare
un'offerta di questo tipo. Anche se non bisogna dimenticare che molte aree sono
state trascurate, e molti interventi sono risultati frammentari. Ma non c'è
dubbio che la formazione viene percepita dentro i sindacati come una risorsa
importante, sia credendoci che magari semplicemente adeguandosi ad un
trend.
Quanto alla seconda direzione,
una prima traccia è costituita dall'introduzione di criteri di divisione del
lavoro tra i delegati, certo possibili a partire da Rsu di medie dimensioni. Una
qualche divisione del lavoro che impegni alcuni in modo più specialistico sul
versante contrattuale, altri nel collegamento con i microproblemi quotidiani dei
lavoratori, altri in modo pressoché esclusivo come rappresentanti per la
sicurezza (infatti i delegati eletti in questo ambito non contrattuale fanno
parte della Rsu) e così via.
L'idea di
una qualche divisione del lavoro piace ai delegati intervistati. Sia perché li
sgrava potenzialmente da alcuni compiti, e quindi riduce le tensioni e il
dispendio di tempo di una vita condotta in prima linea. Sia perché il modello
del delegato-leader, generalista e impegnato a tempo pieno, perde colpi
nell'immaginario dei nuovi delegati, soprattutto più
giovani.
Ma nonostante questa idea
riscuota successo, essa si è tradotta poco in linee di azione strutturate, dando
vita al massimo a forme embrionali di lavoro comune.
Piuttosto che una specializzazione troppo marcata, in modo
adattivo ed informale i delegati hanno coltivato più conoscenze e più attività,
riuscendo sembra - nella maggioranza dei casi - ad evitare il pericolo del
sovraccarico e dell'implosione.
Per
definizione il delegato tende a muoversi su più fronti e a fare più cose:
l'importante è che le sappia fare bene.
Emerge così un ruolo dei delegati polivalente, ma più informato, non
generico ed omnicomprensivo come in passato.
Una recente indagine condotta in Emilia parla di delegati
«policompetenti» e smentisce anch'essa la diffusione di prassi di
specializzazione (Poli, 1997).
Altra
questione riguarda le regole di funzionamento organizzativo della Rsu, che resta
un organo unitario e plurale: più opinioni, ma anche più organizzazioni
sindacali rientrano nel suo perimetro.
Prevale l'informalità nella definizione delle modalità di riunione, di
selezione dei problemi e delle decisioni.
E l'informalità costituisce l'abito tradizionale del sindacalismo
italiano. Difficile da modificare, spesso utile, ma in molti casi inadeguata
alle necessità di rapporti interni allo stesso tempo snelli e democratici.
Comunque distante da procedure codificate e seguite con impegno, come in altri
sistemi: ad esempio quello tedesco che soffre all'opposto di un eccesso di
giuridificazione e di dettaglio procedurale.
Una maggiore strutturazione della vita interna si ha attraverso la nomina
di un esecutivo (nelle realtà più grandi) o di un coordinatore, che rientrano
nel campo della continuità con l'esperienza precedente dei Consigli. Oppure con
l'inserimento di clausole che vincolano la Rsu a riunioni periodiche allo scopo
di evitare che la gestione quotidiana sia in mani ristrette: e qui si vede
qualche novità in più, che delinea delle terapie apprezzabili per i rischi di
isolamento autoreferenziale dei delegati.
Vale qui solo la pena di ricordare che questo rimane il punto dolente
dell'azione sindacale nel nostro paese (e forse configura anche caratteri tipici
dell'identità nazionale). Un'azione capace di grandi slanci e quindi di sussulti
organizzativi in congiunture importanti o epiche. Ma incapace di gestire la
quotidianità senza cadere in routine poco efficienti e qualche volta
paralizzanti (del resto le modalità di lavoro interno del sindacato sono state
bel descritte nei loro paradossi da Manghi, 1996, che le interpreta come «tempo
perso», ma anche come un pedaggio da pagare per coinvolgere corpaccioni
organizzativi così grandi).
E comunque
l'informalità ha alcuni pregi, ma anche gravi difetti. Il pregio principale è il
non ingessamento del lavoro e dei rapporti (anche umani) tra i delegati.
Favorisce adattamenti omeostatici a situazioni nuove.
Ma c'è un grande difetto.
L'informalità è il terreno che favorisce meccanismi chiusi ed elitari, e
tutt'altro che democratici. Grazie ad essa si affermano i più attivi, i più
militanti. Se decide chi c'è, sono premiati i più presenti. Grazie ad essa sono
avvantaggiate le minoranze nel governo di questi organismi: minoranze che però
non sono legittimate, e tendono a rinchiudersi in circuiti di comunicazione
parziali.
L'informalità non è più
trasparente: è meno trasparente e meno controllabile. Essa allontana
dall'impegno lavoratori e delegati che si sentono messi ai
margini.
Per questa ragione anche le
interpretazioni sociologiche più favorevoli all'informalità sono divenute più
problematiche. E colgono che questa, se è stata in passato una risorsa, si
traduce oggi in problema per l'azione collettiva dei sindacati.
7. Una sintesi
provvisoria
Nel bene e nel male le
rappresentanze di base sono un riflesso della regolazione sociale italiana. In
cui è elevata la dimensione informale e volontarista, spesso virtuosa. Ma è
carente, e da rafforzare, quella della istituzionalizzazione dei processi, in
modo da favorire vantaggi di sistema (Regini, 2000). Questa appare anche la
condizione perché non si disperda l'impegno sociale volontario dei delegati, che
in questo momento è poco noto, e poco valorizzato anche dagli stessi sindacati.
E possa favorire reti sociali più ampie
mediante il quale si possono innescare meccanismi di sviluppo «virtuosi» a
livello micro nelle pubbliche amministrazioni e nei luoghi di
lavoro.
Tanti operatori e tanti delegati
hanno affinato, grazie a questi strumenti, negli anni scorsi la loro cultura
tecnica, hanno arricchito le loro conoscenze e competenze, hanno acquisito
risorse per risolvere problemi.
Spesso
questo lavoro quotidiano, sotterraneo ed ingrato, è poco conosciuto e
misconosciuto. Le iniziative dell'Aran, relativamente al settore pubblico, hanno
avuto il merito di farlo venire a galla e di valorizzarlo.
Si tratta di una delle più grandi esperienze di
apprendimento evolutivo operate in modo sinergico da attori sociali distinti, ma
obbligati a trovare aree di scambio e di cooperazione.
Questo può consentire di evitare la sottoutilizzazione tanto
delle potenzialità della rappresentanza sociale (la risorsa sociale di
disponibilità volontaria su cui abbiamo insistito), che dell'intelligenza
collettiva (la funzione di coordinamento e di indirizzo) delle organizzazioni
formali.
Bibliografia
Accornero
A., La
parabola del sindacato, Bologna, Il Mulino, 1992.
Bordogna (a cura di),
Contrattazione integrativa e gestione del personale nelle pubbliche
amministrazioni, Milano, Angeli, 2001.
Carrieri M., Le Rsu nel sistema italiano di relazioni industriali, in
Lavoro e diritto (1996), n.1.
Manghi
B., Il
tempo perso, Venezia, Marsilio, 1996.
Regalia I., Eletti e abbandonati, Bologna, Il Mulino,
1984.
Rogers J. e Streeck
W. (ed.), Works Council: Consultation,
Representation and Cooperation in Industrial Relations, Chicago, Chicago
University Press, 1995.
Streeck
W., Le
relazioni industriali neo-corporative e la crisi economica in Germania, in
Carrieri e Perulli, Il teorema sindacale, Bologna, Il
Mulino, 1984.
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