Dopo avere ascoltato le
analitiche ricostruzioni contenute nelle relazioni precedenti, e in attesa di
soffermarci nel pomeriggio sulle questioni d'ordine tecnico-interpretativo, io
farò alcune brevi annotazioni e riflessioni d'ordine più generale su come ha
funzionato il sistema di relazioni sindacali inaugurato all'inizio dello scorso
quadriennio contrattuale, su alcuni dei suoi pregi e difetti, e su alcuni
problemi che si presentano per l'immediato futuro.
1. Come il sistema di relazioni sindacali si inquadra nella
riforma
La prima osservazione, che
vorrei fare, riprendendo spunti già illustrati dalle relazioni, è che il sistema
di relazioni sindacali tracciato dal Decreto 29, ma soprattutto dal 396 è uno
strumento profondamente, direi quasi simbioticamente coerente con gli obiettivi
della riforma del lavoro pubblico tracciata a più riprese nel corso degli anni
novanta.
Quanto già detto in precedenza
mi esime dall'entrare troppo nel dettaglio. In estrema sintesi, si può ricordare
che l'impianto fondamentale della riforma della cosiddetta privatizzazione
metteva in stretta connessione tra loro l'obiettivo di trasformare la pubblica
amministrazione nel senso di una maggiore efficienza, e l'esigenza di
convogliare sugli obiettivi di riforma un ampio consenso
sociale.
L'idea di fondo era
estremamente ambiziosa, perché si trattava di introdurre nella pubblica
amministrazione e nella gestione del personale modificazioni estese e profonde,
come quelle che sarebbero poi state introdotte legislativamente ma soprattutto
per via contrattuale: si pensi alla riforma della dirigenza, alla trasformazione
profonda dei sistemi d'inquadramento del personale, ai nuovi strumenti della
flessibilità, al trasferimento del contenzioso dai TAR alla giustizia civile e
alle sedi alternative della conciliazione e dell'arbitrato.
Agli autori della riforma era ben presente la difficoltà
dell'impresa, e probabilmente anche le resistenze e gli ostacoli che essa
avrebbe incontrato. E tuttavia vi era in loro la convinzione che se vi era una
possibilità per condurla in porto, essa era appunto quella di convogliare
attorno al progetto un vasto consenso sociale, innanzi tutto da parte dei
lavoratori della pubblica amministrazione stessa.
Nasce da qui, mi sembra, l'idea della contrattualizzazione e
del suo primato: l'idea cioè che la riforma potesse marciare soltanto
utilizzando uno strumento flessibile e consensuale come la contrattazione
collettiva, e affermando addirittura il suo primato sulla
legge.
Dentro questo disegno vi era
tuttavia anche la consapevolezza, ben viva nel dibattito giuridico e sindacale
degli anni ottanta e novanta, delle debolezze e dei difetti del sistema
contrattuale pubblico, così come esso si era venuto costruendo a partire dalla
fine degli anni settanta. Problemi e difetti che è così possibile sintetizzare:
a) un eccesso di politicizzazione, determinato soprattutto dal diretto
protagonismo delle autorità politiche ai tavoli contrattuali, con il risultato
di falsare lo scambio contrattuale, che rischiava di essere, e spesso
concretamente diventava, uno scambio tra risorse economiche e consenso
politico-elettorale;
b) un eccesso di frammentazione degli interlocutori
sindacali, che determinava un forte corporativismo delle rivendicazioni, e una
sensibile difficoltà nel raggiungere gli accordi;
c) una bassa tenuta del
sistema contrattuale, sottoposto sovente ad un ampio contenzioso, sia in sede
giudiziaria che conflittuale, sia rispetto alle intese raggiunte, che alla
legittimazione dei soggetti contrattuali a sedere al tavolo delle trattative e a
raggiungere accordi.
Appariva evidente,
agli autori della riforma, che un sistema contrattuale così instabile e
caratterizzato da regole tanto precarie era inadatto a sorreggere un così ampio
sforzo riformatore. Da qui, appunto, la ricerca di una profonda riforma delle
regole della contrattazione, capace di dare stabilità ed autorevolezza al
sistema contrattuale.
Ne sarebbero
derivate alcune delle principali riforme contenute in parte nel testo originale
del D.Lgs. 29/93, ma soprattutto nei D.Lgs. 396/97 e 80/98: la creazione prima,
e poi la riforma e il rafforzamento dell'Aran; il conferimento di più incisivi
poteri e responsabilità ai dirigenti anche nel campo dei rapporti sindacali; il
nuovo sistema di rappresentatività; la creazione di un sistema contrattuale
analogo a quello bipolare esistente nei settori privati, e regolato dalle norme
dell'accordo del 23 luglio 1993.
Non è
possibile soffermarsi, in questa sede, sui primi due aspetti. Desidero invece
analizzare brevemente gli ultimi due.
2. Come ha funzionato il sistema di rappresentanza/rappresentatività a
livello nazionale
Le relazioni che
mi hanno preceduto hanno già chiarito in modo esauriente quale fosse, e come
fosse instabile, lo scenario della rappresentanza/rappresentatività sindacale
nel lavoro pubblico prima della riforma. Come è noto, per lungo tempo anche il
settore pubblico ha poggiato sul fragile principio statutario della maggiore
rappresentatività. La ricerca di criteri interpretativi in materia ha portato
bensì all'elaborazione di criteri definiti per legge, ma essi sono stati poi
smisuratamente ampliati dagli effetti del contenzioso davanti ai TAR. Il
referendum del 1995 ha, come è stato ricordato, imposto di mettere finalmente
ordine nella materia. Le soluzioni transitorie, dovute all'Aran, hanno poi
anticipato l'attuale assetto «misto», che fa poggiare il riconoscimento della
rappresentatività su due basi, quella associativa e quella
elettorale.
Le ragioni per cui si è
adottato questo sistema «a doppia chiave» sono molteplici. Da un lato vi sono
ragioni storiche: non bisogna dimenticare infatti, che il sindacalismo italiano
ha, come è noto, due anime, una più associativa, legata cioè ad una concezione
del sindacato che procura vantaggi soprattutto ai suoi iscritti, ed una più
movimentista, che valorizza cioè il ruolo del sindacato come strumento di
progresso per l'intiera classe lavoratrice. Anche per questo, la storia delle
rappresentanze sindacali d'azienda, nelle sue varie forme, ha sempre cercato di
coniugare, attraverso un unico canale rappresentativo, la rappresentanza degli
iscritti con quella della generalità dei lavoratori. Accanto a queste ragioni,
se ne possono ricordare almeno altre due: innanzitutto, l'esistenza di
un'efficacia erga omnes dei contratti collettivi, sia pure ottenuta
indirettamente, attraverso quanto previsto dall'art. 45 del D.Lgs. 165, ha
indotto a cercare un consenso vasto, almeno per quanto riguarda la firma dei
contratti collettivi. Occorre infine sottolineare che proprio la rilevanza del
disegno di riforma complessivo che sta alla base, come abbiamo ricordato, anche
della riforma del sistema di relazioni sindacali, richiedeva che protagonisti
delle relazioni sindacali stesse, e quindi della riforma, fossero organizzazioni
sindacali rappresentative non soltanto dell'insieme degli iscritti al sindacato,
ma dell'universo dei pubblici dipendenti.
Abbiamo detto che la riforma del sistema di relazioni sindacali era
funzionale, in sostanza, alla realizzazione della riforma del lavoro pubblico.
Ma quali erano, nello specifico, gli obiettivi che il legislatore si proponeva,
e in che misura sono stati raggiunti?
Un
primo obiettivo era certamente quello di dare stabilità al sistema contrattuale,
cioè di dare legittimità alle trattative e agli accordi, evitando la
conflittualità e il contenzioso collegati alla non ben precisa misurazione della
consistenza rappresentativa, e quindi al diritto di stare alle trattative, e
alla possibilità di fare accordi con organizzazioni
minoritarie.
Da questo punto di vista,
il nuovo assetto ha conferito al sistema pubblico una trasparenza e una
legittimazione perfino superiori a quelle del sistema privato. Basti pensare che
negli ultimi anni nel privato si sono moltiplicati gli accordi separati, nei
quali è immanente il sospetto di aver firmato accordi con organizzazioni non
abbastanza rappresentative. Si pensi a vicende come quella del contratto dei
metalmeccanici, all'accordo sui contratti a termine, alle stesse vicende della
concertazione sociale. Si pensi al settore dei trasporti, che è per molti
aspetti, organizzativi e sindacali, affine a quelli del lavoro pubblico, e nel
quale l'assenza di regole certe continua a produrre estrema polverizzazione
della rappresentanza ed estrema instabilità degli accordi stipulati. Al
contrario, nel settore pubblico proprio la possibilità di misurare precisamente
la rappresentatività sembra avere ridotto - a livello nazionale - le spinte
centrifughe, e dato stabilità al sistema contrattuale: la maggior parte dei
contratti è stata firmata con maggioranze di molto superiori al 51 per cento,
quando non addirittura con il consenso di tutte le organizzazioni sedute intorno
al tavolo. Rarissimi sono stati inoltre i casi di delegittimazione successiva di
un accordo firmato. Il solo caso - peraltro clamoroso - è stato quello del
contratto Scuola, con la vicenda del concorsone, caso peraltro rientrato con la
firma dell'accordo di secondo biennio.
Un secondo obiettivo del nuovo sistema di rappresentatività era quello di
ampliare la partecipazione dei lavoratori al processo di riforma, attraverso
l'elezione delle rappresentanze. Anche questo obiettivo può dirsi ampiamente, e
forse anche inaspettatamente, raggiunto, se è vero come è vero che le elezioni
hanno registrato, nelle due tornate in cui si è votato, e nonostante le
diversità del contesto economico, sindacale e politico in cui si sono svolte le
elezioni, una partecipazione superiore ai due terzi degli aventi
diritto.
Un terzo obiettivo, infine, era
quello di semplificare il panorama delle organizzazioni sindacali ammesse alla
contrattazione, non solo «premiando» le organizzazioni più rappresentative, ma
anche stimolando processi di aggregazione tra le organizzazioni minori. Il primo
effetto, quello di premiare le organizzazioni storicamente più forti, si è
prodotto subito, riducendo in misura rilevante il numero delle organizzazioni
ammissibili ai tavoli. Oggi esso si aggira, nella maggior parte dei comparti
intorno alle 5 sigle, con punte minime di 4 e massime di 7 organizzazioni
ammesse per comparto. Un poco maggiore è il numero delle associazioni
ammissibili nelle aree dirigenziali. Si può dire, inoltre, che si è prodotto,
sia pure con gradualità, e dopo una fase caratterizzata da un contenzioso di un
certo rilievo, anche un processo di aggregazione tra le diverse sigle dei
sindacati minori, e ciò produce positivi effetti di tipo inclusivo sia a livello
di comparto, sia a livello confederale, dove infatti, in questo quadriennio,
sono presenti confederazioni che non erano presenti in precedenza. I sindacati
insomma stanno imparando il meccanismo, ed adeguandosi ad esso, e ciò era
proprio quanto si voleva ottenere con le norme e gli accordi sulla
rappresentatività.
Naturalmente, accanto
agli effetti benefici del nuovo meccanismo della rappresentatività in ambito
nazionale, non si può negare che vi siano alcuni problemi. Il primo è indotto,
per dir così, dalla moltiplicazione dei comparti, che produce comparti sempre
più piccoli. Questa tendenza è già in atto, e non è escluso che possa
proseguire: essa determina però un effetto paradossale, perché nei piccoli
comparti la rappresentatività la si raggiunge abbastanza facilmente, e dunque è
proprio nei comparti più piccoli che si ha maggiore frantumazione
rappresentativa e maggiori difficoltà a raggiungere accordi. Inoltre, questa
proliferazione di piccole organizzazioni con il requisito della
rappresentatività rischia di produrre squilibri nella rappresentatività a
livello confederale che si raggiunge, com'è noto, avendo almeno due
organizzazioni aderenti rappresentative nei comparti.
Un secondo problema può derivare dal processo di
competizione tra le sigle sindacali che a volte deriva dalla verifica della
rappresentatività «sul campo», attraverso un meccanismo elettorale. Se è
probabilmente vero che nei periodi immediatamente circostanti alle elezioni
delle RSU si innescano meccanismi di competizione tra le organizzazioni che
rendono più difficile il raggiungimento di accordi, è però altrettanto vero che
la possibilità di misurare oggettivamente la rappresentatività delle
organizzazioni, e l'esistenza di regole certe per la stipulazione degli accordi
può essere un formidabile aiuto proprio in momenti di conflittualità
intersindacale come potrebbero essere - noi ovviamente speriamo di no - i
prossimi mesi.
Nel complesso, insomma,
un bilancio della riforma della rappresentatività a livello nazionale può essere
giudicato in attivo, pur senza trionfalismi, e il sistema può essere
complessivamente considerato un fattore di trasparenza e di stabilità delle
relazioni sindacali del settore pubblico.
Un discorso a parte va fatto invece per quanto riguarda le relazioni
sindacali a livello della contrattazione integrativa. Ma per parlarne occorre
inquadrare il discorso nell'altro argomento su cui vorrei brevemente
soffermarmi: il bipolarismo del sistema contrattuale.
3. Il bipolarismo contrattuale. Come funzionano le relazioni
sindacali a livello decentrato
Come
abbiamo detto all'inizio, anche il bipolarismo del sistema contrattuale può
essere considerato una scelta del legislatore, strumentale alla riuscita della
riforma della pubblica amministrazione. Come è noto, la storia sindacale del
settore pubblico negli ultimi trent'anni è stata caratterizzata, come del resto
quella delle relazioni industriali in senso stretto, da un accentuato
pendolarismo tra assetti centralizzati e assetti invece a forte decentramento.
La scelta del Decreto 29, ma soprattutto del 396, è invece caratterizzata
dall'intenzione di mantenere un maggiore equilibrio tra relazioni sindacali
centralizzate e decentrate. Da un lato, la contrattazione nazionale è
considerata necessaria per mantenere il negoziato sindacale all'interno degli
equilibri e dei vincoli macroeconomici generali, equilibri fissati, in base al
protocollo del 23 luglio 1993, dalla concertazione sociale. Inoltre, la
contrattazione nazionale è ritenuta necessaria per mantenere un tessuto di
diritti e doveri omogeneo in tutto il paese, e per far penetrare in modo
uniforme l'innovazione per via contrattuale.
La contrattazione integrativa a livello di ente, dal canto suo, è
considerata necessaria per adeguare le norme generali alla specificità
dell'organizzazione del lavoro, che quasi sempre è diversificata tra le diverse
amministrazioni, e talvolta è differente anche nelle articolazioni interne della
stessa amministrazione. La contrattazione integrativa ha, insomma, come dice il
termine stesso, una funzione di integrazione delle norme nazionali, e insieme
una funzione di adattamento delle norme stesse alle realtà locali. Ma più in
generale, occorre dire che non solo la contrattazione, ma tutto il sistema di
relazioni sindacali a livello decentrato, nelle sue diverse forme, informative,
partecipative e contrattuali, ha il compito di rendere trasparente e partecipato
il processo di mutamento organizzativo, e dunque ha un ruolo fondamentale
nell'attuazione della riforma. Le relazioni sindacali decentrate insomma, può
sembrare inutile ricordarlo, ma forse non lo è, non sono fini a sé stesse, ma
sono strumentali a rendere partecipato, e dunque consensuale, il processo di
cambiamento di cui le amministrazioni devono essere protagoniste. Ciò serve a
ricordare un dato su cui vorrei ritornare più avanti: che è cioè fondamentale
che il processo negoziale sia strumentale al cambiamento e alla progettazione
organizzativa, che in tale processo è opportuno che vi sia un più marcato
protagonismo delle amministrazioni, e che le relazioni sindacali non dovrebbero
essere, dunque, soltanto un modo per «tenere a bada» l'iniziativa dei
sindacati.
Se questi sono, sia pure
enunciati in modo assai grossolano, gli obiettivi generali del sistema
contrattuale bipolare nella pubblica amministrazione, cosa si può dire sul suo
funzionamento, in particolare a livello decentrato?
Molte risposte in merito sono già state date dalle relazioni
che mi hanno preceduto. Qualche ulteriore flash può essere dato dai risultati di
una ricerca che l'Aran ha recentemente condotto sulla contrattazione integrativa
in oltre trecento amministrazioni. Si tratta di una ricerca che non pretende di
essere esaustiva, ma che fornisce tuttavia diverse utili indicazioni sulle
caratteristiche del cambiamento in corso.
Vorrei toccare brevemente tre aspetti, che mi sembrano cruciali: il
sistema di rappresentanza/rappresentatività a livello di ente, il problema del
rapporto tra le diverse tipologie di relazioni sindacali e, infine, il problema
dei contenuti, cioè delle materie che costituiscono l'oggetto del «gioco»
negoziale.
3.1. La
rappresentatività
Quanto al primo
problema, è stato opportunamente ricordato che le regole della rappresentatività
che valgono a livello nazionale non valgono invece, per non casuale dimenticanza
del legislatore, ma anche della contrattazione collettiva, a livello decentrato.
Si tratta di una lacuna che ha costituito più volte oggetto di riflessione da
parte degli osservatori. Un autorevole giuslavorista, Bruno Caruso, per spiegare
quella che lui ha definito «insipienza regolativa» avanzava due ipotesi: «o la
mancata maturazione di una definitiva scelta regolativa nel momento del rinnovo
dei contratti nazionali, con una sorta di rinvio più o meno consapevole alla
prassi, all'insegna del "chi vivrà vedrà", ovvero - ipotesi più maliziosa - un
gattopardismo di ritorno di matrice sindacale: aspettare lungo l'argine del
fiume il decesso anticipato delle RSU, magari per consunzione interna, per
continuare come se nulla fosse cambiato».
Le osservazioni di Caruso, scritte all'indomani della prima tornata delle
elezioni delle RSU, dovrebbero essere in parte smentite, almeno per quanto
riguarda la seconda ipotesi, dal fatto che l'investimento, per dir così, dei
sindacati e dei lavoratori nelle RSU non sembra essere diminuito nel tempo, come
rivela la partecipazione dei lavoratori alla più recente seconda tornata
elettorale, e gli stessi risultati elettorali. D'altra parte, i dati che
emergono dalla ricerca Aran che ho citato poc'anzi tenderebbero a sdrammatizzare
il problema: nel nostro campione, ben l'85 per cento degli accordi in sede
decentrata sono firmati unitariamente da sindacati e RSU, poco più del 3 per
cento sono firmati dalle sole RSU, e poco più dell'11 dalle organizzazioni
sindacali da sole. Il fenomeno di una contrapposizione all'interno della
delegazione sindacale sembra insomma essere certo significativo, ma tutto
sommato marginale. Del resto, il fatto che le organizzazioni maggiori, che sono
le firmatarie dei contratti collettivi nazionali, siano anche largamente
maggioritarie nelle RSU, rappresenta ovviamente un indizio a favore della
sostanziale compattezza dei soggetti sindacali anche nelle relazioni sindacali
decentrate.
Anche qui, insomma, il
bilancio del funzionamento del sistema contrattuale potrebbe considerarsi
complessivamente in attivo.
Tuttavia, non è il caso di rimuovere
o sottovalutare i problemi. Da un lato, ci si può chiedere quanto i risultati
conseguiti siano anche il frutto di una stagione di sostanziale unità sindacale,
che non è detto prosegua per sempre. D'altro lato, non si deve dimenticare che i
dati cui facciamo riferimento sono relativi al prodotto (il contratto) e non al
processo (la contrattazione). Vi sono infatti numerosi segnali che il processo
contrattuale a livello decentrato sia in diversi casi abbastanza difficoltoso, e
dunque ci si può anche chiedere quanto i risultati unitari siano frutto di
un'azione di più o meno estenuante «arbitraggio» svolto dalle amministrazioni
tra le diverse componenti; «arbitraggio» che può anche rendersi necessario, ma
che, in assenza di regole certe, può in qualche misura snaturare il ruolo
dell'amministrazione come controparte. Insomma, vi è certamente la necessità di
una maggiore e più puntuale regolazione della materia, regolazione cui
dovrebbero provvedere i prossimi contratti collettivi.
3.2 Le relazioni sindacali
Per quanto riguarda il secondo problema, cioè il rapporto
tra le diverse tipologie di relazioni sindacali, i dati di cui disponiamo non
sono analiticamente probanti, ma molte esperienze dimostrano la tendenza ad un
certo «slittamento» delle caselle, per dir così, in cui sono state divise le
relazioni sindacali stesse: informazione, preventiva e successiva,
consultazione, concertazione, contrattazione. Ad essere sotto accusa è
soprattutto lo slittamento, che avverrebbe in numerosi casi, tra concertazione e
contrattazione. Naturalmente, tale slittamento, quando è palese - quando cioè
materie che il contratto nazionale delega alla concertazione vengono fatte
oggetto di veri e propri accordi contrattuali - rappresenta un'inosservanza del
contratto nazionale, tale quindi da determinare la nullità delle norme così
prodotte (art. 40, comma 3 del D.Lgs. 165/2001). In parte diversa, ma alla fine
convergente, può essere la tendenza non già a scavalcare tout court la procedura concertativa per trattarne le materie in sede contrattuale, ma a trasformare i
verbali di concertazione in veri e propri accordi, analiticamente
vincolanti.
E' noto che
la concertazione
costituisce una tipologia sostanzialmente «inventata» nel settore pubblico (non
esiste nulla di simile nel settore privato), allo scopo principale di arginare
le richieste sindacali di portare a contrattazione integrativa una serie troppo
ampia di materie, e di «recintare», per dir così, i poteri del datore del
lavoro. E' opportuno sottolineare che la formulazione contenuta nei contratti
(un confronto con precisi termini temporali, al termine del quale si stende un
verbale dell'eventuale consenso o dissenso: verbale che, in caso di consenso,
costituisce il presupposto delle conseguenti decisioni dell'amministrazione)
configura una procedura non di tipo contrattuale, e dunque bilaterale, ma
piuttosto la necessaria proceduralizzazione preventiva di un atto unilaterale.
Certo, pur con tutte queste considerazioni, è difficile negare la natura assai
delicata di questo istituto, il suo essere terra di confine, attraverso cui
passa esattamente la frontiera tra l'esigenza di assegnare al dirigente i poteri
e le responsabilità che attengono al suo ruolo, e quel bisogno di consensualità
che costituisce, come abbiamo ricordato, lo «spirito» della
riforma.
Proprio per questo, tuttavia,
occorre esercitare in questa materia il massimo dell'attenzione. E' in qualche
misura nota, infatti, la concezione contratto-centrica dei sindacati,
soprattutto a livello periferico, così come è nota la tendenza a fare delle
relazioni a livello di singolo ente la sede di un controllo sindacale a 360
gradi non solo sulle materie aventi riflessi direttamente o indirettamente
retributivi, ma sull'organizzazione stessa del lavoro e degli uffici. Occorre
dire con chiarezza che la tendenza a una sorta di pancontrattualismo prima
ancora di essere in contrasto con leggi e contratti, snatura la riforma, perché,
anche quando non produce effetti negativi sull'efficienza, alimenta, lo si
voglia o no, la deresponsabilizzazione dell'amministrazione.
Occorre dunque, in questi casi, un atteggiamento corretto
ma, come suggerisce Lorenzo Zoppoli, «guardingo», volto cioè a mantenere il
confronto sulle linee generali della varie materie sottoposte a concertazione, e
a salvaguardare lo spazio e l'autonomia della decisione dirigenziale. Detto
questo si può probabilmente ritenere che anche la contrattazione nazionale possa
fare qualcosa per aiutare il lavoro dei negoziatori a livello locale,
riconfermando ed esplicitando con maggior chiarezza la distinzione esistente tra
concertazione e contrattazione e forse anche contenendo, nella misura possibile,
ulteriori ampliamenti della concertazione stessa. Si può ritenere infatti che,
con l'ottima intenzione di non allargare troppo l'ambito della contrattazione
integrativa, in alcuni contratti nazionali si sia finito con l'allungare
notevolmente, e forse perfino troppo, l'elenco delle materie soggette a
concertazione, includendovi tematiche che, in quanto cruciali dal punto di vista
organizzativo, sollecitano molti appetiti da parte sindacale. Sarà opportuno che
gli atti d'indirizzo dei comitati di settore riflettano sull'argomento, e
tengano conto di tutto questo, nel dettare all'Aran il tracciato delle relazioni
sindacali per il prossimo quadriennio.
Nello stesso tempo deve essere tenuto presente che, a differenza del
settore privato, la contrattazione nel settore pubblico si deve confrontare
ancora con la tendenza, di cui parlavo prima, all'eccessivo protagonismo degli
attori politici sui tavoli contrattuali (sia a livello nazionale che
integrativo). Questa situazione incide o può incidere su una eccessiva timidezza
della dirigenza nei confronti dei vertici politici quando tali vertici tendono a
considerare le richieste sindacali in termini elettoralistici, piuttosto che
valutare adeguatamente il bilanciamento tra esigenze dell'amministrazione ed
esigenze delle controparti. Ovviamente se la contrattazione, soprattutto
decentrata, viene vista dalla dirigenza come un obbligo o come un necessario
tributo al sindacato invece che come un'opportunità per creare consenso e
sperimentare nuove forme organizzative, sarà lasciato eccessivo campo libero al
protagonismo politico. C'è invece la necessità di una crescita culturale per un
rapporto equilibrato tra vertice politico e dirigenza, due poli necessari ed
ineliminabili per un atteggiamento «datoriale» ricco, articolato, ed
innovativo.
3.3 La contrattazione e
il filo d'Arianna
Avviandomi infine
alla conclusione, vorrei riflettere brevemente sul terzo aspetto, che attiene
non tanto alle regole ed agli attori, quanto ai contenuti della contrattazione
stessa. Su questo tema ci fornisce materiali interessanti la ricerca Aran che ho
già più volte menzionato. Tale ricerca ci fornisce un'immagine se non completa,
certo assai attendibile di ciò che accade a livello dei singoli enti. Essa ci
dice, innanzitutto, che nei pochi anni che ci separano dalla firma dei contratti
nazionali (in fondo, solo due o tre) sono avvenuti una serie di avvenimenti che
appaiono, se non miracolosi, certo assai importanti, e perfino sorprendenti, in
una pubblica amministrazione spesso accusata di tenere comportamenti pigri,
quando non di ripulsa, verso le dinamiche dell'innovazione. La ricerca ci
rivela, in realtà, che, durante il quadriennio contrattuale la macchina delle
relazioni sindacali si è messa in moto con tempestività ed energia. Si sono
attivate le amministrazioni, rafforzando e accentuando la specializzazione delle
strutture preposte alla gestione del personale e delle relazioni sindacali, così
come si sono attivati i sindacati lavorando attivamente alla costituzione delle
RSU.
Nel quadriennio l'attività
negoziale decentrata ha avuto ritmi molto intensi. La nostra ricerca, che si è
limitata a rilevare solo le intese contrattuali vere e proprie, ha registrato un
numero medio di quattro accordi sottoscritti in ogni sede contrattuale
decentrata, ma tale media si innalza addirittura ad 8 accordi per i ministeri.
L'attivismo negoziale (e dunque l'iper-regolazione contrattuale) nella pubblica
amministrazione appare poi del tutto evidente se si pensa che in più del 50 per
cento dei casi la contrattazione integrativa è arrivata a regolare più di dieci
materie. Almeno dal punto di vista contrattuale, insomma, la pubblica
amministrazione non può certo essere accusata di pigrizia, se si considera che,
a differenza che nel settore privato, dove la contrattazione aziendale riguarda
appena il 30 per cento delle imprese, nella pubblica amministrazione si
contratta praticamente dappertutto.
Quali sono i risultati? Come non era difficile prevedere, la
contrattazione integrativa si è immediatamente, fortemente applicata al tema che
era di maggiore interesse per i sindacati e, forse, anche per le
amministrazioni, cioè l'applicazione dei nuovi sistemi d'inquadramento del
personale. Più del 90 per cento degli accordi ha regolato il tema delle
progressioni orizzontali, mentre decisamente meno, poco più del 50 per cento
degli accordi hanno avuto come oggetto le progressioni verticali. Naturalmente
molto contrattati sono stati anche i sistemi di produttività (quasi il 90 per
cento degli accordi) e le altre tematiche aventi riflessi economici diretti,
come gli straordinari, le varie indennità. Il «primato», per dir così, della
progressione economica orizzontale appare abbastanza facilmente spiegabile: si
tratta dell'istituto più rapidamente e semplicemente impiegabile per dare un
qualche sfogo alle tensioni retributive accumulatesi negli anni, ma anche, da
parte delle amministrazioni, per riconoscere situazioni di arricchimento
professionale che si erano venute anch'esse accumulando, e alle quali non era
possibile dare sfogo con il vecchio sistema di classificazione. Come dire che,
se è vero che l'obiettivo dell'efficienza della pubblica amministrazione va
certamente perseguito anche con un adeguato ingresso di forze fresche,
l'efficienza stessa non è raggiungibile, in una logica privatistica, se non si
riconosce, si premia e si stimola - con criteri selettivi rigorosi e realmente
meritocratici - l'apporto di chi nella pubblica amministrazione già opera da
anni.
E' questo che spiega, almeno in
parte, le ragioni per cui un sia pure sommario sguardo sui criteri che le
amministrazioni hanno impiegato per le progressioni economiche, orizzontali ma
anche verticali, assomigli ad un gioco a incastro, nel quale le capacità
individuali si incontrano con l'anzianità, il possesso di titoli di studio, la
frequenza di corsi di formazione, in un mix che è stato più equilibrato in
alcuni comparti, assai meno in altri, rivelando la varietà di culture aziendali
e sindacali esistenti nella pubblica amministrazione, e probabilmente anche
l'esigenza crescente di processi di formazione alla negoziazione, e di
circolazione di informazioni e di esperienze pilota tra le amministrazioni,
anche di diversi comparti.
Insomma, più
si guarda alle relazioni sindacali nella pubblica amministrazione, più ci si
accorge che in questa macchina che gira in continuazione vi sono luci ed ombre,
punti di eccellenza ed incredibili ritardi. Anche per questo è necessario che,
nel rispetto dell'autonomia e delle differenze, vi siano precise e condivise
regole di funzionamento, che quelle esistenti siano osservate, e che di esse
venga fatta un'adeguata manutenzione.
Tuttavia, dopo aver guardato alla contrattazione, e sia pure soltanto a
uno spicchio di contrattazione come quello che la ricerca Aran ci ha squadernato
davanti, o più in generale a quella con cui la nostra attività ci pone quasi
quotidianamente a contatto, credo che sorga spontanea una domanda: a che serve
tutta questa attività, che ricorda quella di un operoso formicaio; tutto questo
informare, concertare, contrattare, questo cercare e creare continuamente
regole. E' soltanto l'adempimento di un obbligo generalizzato scritto nei «sacri
testi» e per questo comunque da osservare, il periodico sacrificio ad una
divinità, la concertazione sociale, i cui fedeli sembrano peraltro ormai
assottigliarsi a vista d'occhio, oppure è funzionale a un progetto? In tutto
questo movimento, in tutto questo agire e relazionarsi si è conservato il filo
d'Arianna che la riforma aveva cominciato a tessere, il filo d'Arianna della
riforma della pubblica amministrazione, anzi, dello sforzo comune tra
amministrazioni, sindacati, personale, per realizzare la modernizzazione e
l'efficienza del settore pubblico in Italia? Questo filo d'Arianna è possibile
rintracciarlo ancora? Ed esistono la possibilità, la volontà, gli spazi,
politico-culturali prima ancora che contrattuali e materiali, per continuare ad
annodarlo?
E' una domanda che pongo
innanzitutto a noi stessi, cioè all'Aran, ma che credo vada posta anche alla
politica, alle amministrazioni, ai sindacati. Il fatto stesso che ce la poniamo,
questa domanda, significa che non siamo ancora del tutto certi di poter dare una
risposta positiva, ma anche che non abbiamo perduto né l'ambizione né la
speranza. Si tratta di fare della contrattazione un'opportunità e non un
vincolo, come scriveva uno dei «padri» della riforma, Massimo D'Antona. E' una
possibilità, e un rischio, allo stesso tempo.
Credo che sia necessario sforzarsi di tener ferma la barra in quella
direzione.
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