INTERVISTA AL SOTTOSEGRETARIO
CURSI «Riconvertire i doppioni in strutture d’eccellenza»
di
SARINA BIRAGHI
ROMA - Terzo millennio, una nuova èra anche per
la sanità. O, meglio, una nuova cultura che si allontana sempre di più
dall’ottica dei campanilismi e delle tessere di partito e punta
decisamente all’efficienza e alla qualità. Un cambiamento di cui è
fermamente convinto il sottosegretario del ministero della Salute, non più
della Sanità, Cesare Cursi, onorevole di An, già assessore alle Attività
produttive della Provincia di Roma. Quindi condivide il «Sirchia-pensiero» chiudere, cioè, 900 ospedali italiani?
«Sinceramente non so se sono 900 o 800, certo però che occorre puntare
alla razionalizzazione delle strutture sanitarie. In questi anni abbiamo
messo in piedi strutture ospedaliere che hanno risentito più delle spinte
localistiche che delle reali esigenze dei cittadini e, quindi, strutture
mai corrispondenti ad un piano ragionato». Ma la gente vuole
l’ospedale in paese... «Non è più così. Oggi i cittadini si rendono
conto che i piccoli ospedali non corrispondono all’esigenza di prestazioni
e servizi di qualità oggettivamente comprovati, tanto è vero che di fronte
le difficoltà gli ospedali trasferiscono e la gente sceglie i grandi
nosocomi». La ricetta? «Per evitare doppioni o sprechi, dobbiamo
trasformare le strutture in ospedali di eccellenza che così diventano
centri di riferimento per patologie precise, dall’oncologia alla
riabilitazione. In questo modo anche i territori si valorizzano per la
presenza di questo tipo di strutture. Naturalmente questo schema andrebbe
portato in tutte le regioni». E da romano, il sottosegretario non può
non fare riferimento al S. Filippo Neri e S. Camillo che sono poli di
cardiochirurgia, al S. Raffaele e al Sant’Andrea, poli oncologici,
strutture che vedono la presenza massiccia non soltanto di malati del
Lazio, ma anche dal Sud dell’Italia. Non basta il taglio dei posti
letto? «No perché è cambiato il profilo dei ricoverati. Ci sono 12
milioni di italiani che hanno superato i 60 e così non c’è più il malato
acuto ma quello cronico che ha bisogno non di un letto ospedaliero ma di
strutture di assistenza sul territorio. Bisogna pensare alla prevenzione,
alla casa famiglia, al buono, all’assistenza domiciliare, tutto evitando
ricoveri impropri. Chi è passato per la sanità, si è sempre lamentato
per la carenza di fondi «Anche qui si cambia cultura: amministratori e
cittadini devono sapere che non si può spendere inutilmente. È certo che
il Governo mette 140 mila miliardi e le regioni devono avere uscite certe,
senza sprechi». La devolution migliorerà il sistema sanitario? «Lo
farà certamente ma ad una condizione: il Servizio sanitario nazionale deve
continuare a garantire l’assistenza per tutti, senza differenze. Poi ogni
regione, responsabilmente, non dovrà più sforare il budget sanitario, gli
stessi direttori generali e manager di Asl non pagando più a piè di lista
ma dovendo presentare un bilancio, devono gestire aziendalmente le Asl e
gli ospedali, raggiungendo gli obiettivi». Le linee guida del
ministero sono condivise? «Le abbiamo appena presentate con il
ministro Sirchia a Camera e Senato. Oltre alla maggioranza c’è l’adesione
anche dell’opposizione, che ragionevolmente condivide l’obiettivo di
ridimensionare la spesa». Altri obiettivi? «Sicuramente il
rilancio della ricerca con nuovi investimenti che daranno occupazione.
Questo presuppone un rapporto corretto con Farmindustria che vorrebbe fare
investimenti sul territorio ma chiede strumenti adeguati». Due
emergenze: infermieri e sangue. «C’è una carenza di infermieri che va
dalle 40 alle 100 mila unità. Il ricorso agli extracomunitari è un
palliativo. Vanno potenziati e promossi i corsi di formazione, ormai una
laurea breve, ma va adeguato il trattamento economico. Per il sangue non
siamo un Paese autosufficiente e per questo, a settembre, lanceremo una
grande campagna informativa sui mass media per far sì che la maggior parte
dei cittadini diventino donatori».
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