1.
Premessa
2. La legge quadro sul pubblico impiego
3. La «maggiore rappresentatività» nella legge n. 93 del
1983
4. Il
D.P.R. 23 agosto 1988, n. 395. Aspetti generali
5. Il D.P.R. 395 del 1988: la rappresentatività
nazionale e la rappresentanza nei luoghi di lavoro
6. La rappresentatività nazionale ed i soggetti della contrattazione
decentrata nell'originario art. 47 del D.Lgs. 29 del 1993
7. Gli effetti del referendum abrogativo del 1995
sull'accertamento della rappresentatività nazionale
8. Gli effetti del referendum abrogativo del 1995 sui
soggetti dei luoghi di lavoro
9. La rappresentatività nazionale negli artt. 47 e 47 bis del D.Lgs. 29 del
1993, modificato dai D.Lgs. n. 396 del 1997 e n. 80 e n. 387 del 1998
10. La rappresentanza nei luoghi di lavoro nell' art. 47 del
D.Lgs. 29 del 1993, modificato dai D.Lgs. n. 396 del 1997 e n. 80 e n. 387 del
1998
11.
Problematiche sulla delegazione trattante nelle sedi di lavoro
12. Conclusioni
1. Premessa
Scopo di questo lavoro è quello di fornire una ricostruzione storica e
legislativa del sistema delle relazioni sindacali nel pubblico impiego
dopo l'ingresso della contrattazione come metodo generalizzato per la
definizione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, segnalando le
più significative variazioni nello sviluppo del dialogo sociale nel
sistema pubblico che ha consentito la partecipazione delle parti sociali
al processo di riforma, tuttora in corso, nelle amministrazioni statali,
regionali e locali.
La dottrina e la giurisprudenza hanno offerto un
grande contributo in questo contesto e ad entrambe le fonti si dovrà fare
rinvio per gli approfondimenti teorici che la materia richiede.
Con riguardo alla normativa citata nel testo,
trattandosi di una ricostruzione storica si fa spesso riferimento agli
originari articoli del D.Lgs. n. 29 del 1993, ora confluiti nel D.Lgs. n.
165 del 2001. Per semplicità i decreti sono indicati solo con il loro
numero.
2. La legge quadro sul pubblico impiego
La legge quadro sul pubblico impiego del 29 marzo 1983, n. 93
rappresenta una pietra miliare nell'avvio dei processi di cambiamento
dell'amministrazione pubblica anche se nei contenuti ed effetti ha
risentito fortemente dei condizionamenti derivanti dalla presenza, durante
la sua formazione, di molti protagonisti ciascuno dei quali portatore di
uno specifico interesse.
In quel clima sono fissati i principi fondamentali cui la normativa del
pubblico impiego si deve ispirare: omogeneizzazione, perequazione,
trasparenza retributiva ed efficienza della pubblica amministrazione.
A tali principi conferiscono maggiore significato
le norme per la definizione degli strumenti organizzativi per la
programmazione e la gestione del personale nel settore pubblico (qualifica
funzionale e profili professionali, mobilità); le procedure di
reclutamento, improntate a criteri di omogeneità; le norme di tutela
dell'attività sindacale nel pubblico impiego e dell'individuazione dei
soggetti da ammettere alla contrattazione.
Il negoziato, sulla base del principio di delegificazione che ispira la
legge quadro nel primo tentativo di flessibilizzazione dell'attività
amministrativa, diviene principio e metodo esteso a tutto il pubblico
impiego per la definizione della disciplina di rilevanti assetti dello
stato giuridico oltre che dell'intero trattamento economico dei pubblici
dipendenti e riguarda anche importanti momenti dell'organizzazione della
pubblica amministrazione, secondo i criteri di ripartizione delle
competenze tra la legge, o atto da essa derivante, e la contrattazione.
L'estensione del metodo della contrattazione si basa sul presupposto del
coinvolgimento dei lavoratori nelle scelte organizzative come strumento
idoneo al recupero dell'efficienza e produttività delle pubbliche
amministrazioni.
La storia si è incaricata di dimostrare che il pur
lodevole tentativo del legislatore, di fatto, non ha raggiunto il proprio
obiettivo di ammodernamento della pubblica amministrazione, introducendo,
al contrario, elementi di consociativismo che hanno reso difficile la
distinzione dei ruoli dei soggetti pubblici e sindacali coinvolti nel
processo e, quindi, l'individuazione delle responsabilità per il mancato
raggiungimento degli obiettivi di efficienza ed efficacia. Ciò nonostante,
proprio l'esperienza della legge 93 del 1983, ha consentito di realizzare
con le successive riforme del 1993 l'avvio di un reale processo di
privatizzazione del pubblico impiego.
Infatti, dal momento che la contrattazione è stata posta dalla legge
quadro come principio e metodo nella definizione di parte cospicua del
trattamento giuridico ed economico del personale pubblico, si deve ad essa
l'avvio della costruzione del sistema della rappresentatività sindacale
nel pubblico impiego, frutto inizialmente di accordi e di autoregolazione
sino alle attuali regole legislative che la disciplinano.
3. La «maggiore rappresentatività» nella legge n. 93 del 1983
L'art. 6 della legge n. 93 del 1983 stabilisce la composizione delle
delegazioni trattanti a livello nazionale nei comparti del pubblico
impiego, sia di parte pubblica che sindacale. Per le organizzazioni e le
confederazioni sindacali viene introdotto il principio della «maggiore
rappresentatività» su base nazionale in ciascun comparto, senza, tuttavia
che siano stabiliti i parametri di riferimento. La stessa legge individua
i comparti in cui sono suddivise le amministrazioni pubbliche ed estende
l'applicazione di parte della legge n. 300 del 1970 ai pubblici
dipendenti.
La prima stagione negoziale degli anni ottanta si conclude a ridosso
dell'emanazione della legge n. 93, il cui nuovo sistema non influenza i
negoziati che vengono portati a termine con le regole precedenti e, cioè
con la sottoscrizione di accordi recepiti con regolamenti del Presidente
della Repubblica che conferiscono agli stessi valore erga omnes, regola,
peraltro, confermata dalla legge quadro.
La stagione contrattuale 1985-1987, pur essendo condotta sotto l'egida
della nuova normativa, non porta innovazioni dal punto di vista
dell'identificazione dei soggetti sindacali maggiormente rappresentativi.
Infatti, ai fini di tale riconoscimento, risulta ancora applicato, come
unico criterio, quello analogo al settore privato derivante dalla forza
contrattuale attestata dalla firma dei contratti relativi alla stagione
negoziale immediatamente precedente.
Come è possibile rilevare dalle premesse dei regolamenti di
recepimento degli accordi dell'epoca, le organizzazioni sindacali operanti
nel pubblico impiego erano assai numerose ed a fianco delle grandi
organizzazioni e confederazioni comparivano sigle di sindacati autonomi
non presenti nel settore privato.
La diversità degli interessi rappresentati (per i sindacati minori spesso
coincidenti con quelli di piccoli raggruppamenti di mestiere) e le
dimensioni della delegazione sindacale hanno - quasi regolarmente -
comportato la richiesta, da parte delle organizzazioni più
rappresentative, della separazione dei tavoli. Questa possibilità, ammessa
da una costante giurisprudenza sulla base del principio della libertà
sindacale (cfr. per tutte Cass. n. 742 del 1992, in Foro it., 1992, I,
2735; pretore di Roma, n. 12407 del 22 settembre 1998) ha reso (e rende
tuttora) le trattative nazionali (ma anche quelle di secondo livello)
assai complesse e fonte di contenzioso per la presunta disparità di
trattamento e la possibile discriminazione lamentate dai sindacati
autonomi.
4. Il D.P.R. 23 agosto 1988, n. 395. Aspetti generali
La definizione dei criteri di misurazione della rappresentatività delle
organizzazioni sindacali del pubblico impiego, nel periodo di vigenza
della legge quadro n. 93, si deve all'accordo intercompartimentale
recepito con D.P.R. 23 agosto 1988, n. 395, che si caratterizza anche per
altri aspetti significativi diretti alla regolazione dei diritti e delle
relazioni sindacali, anticipatori della disciplina legislativa degli anni
successivi (cfr. artt. da 8 ad 11 del decreto).
Prima del breve commento sui principi per l'individuazione delle
organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, vale la pena di
accennare proprio a tali disposizioni che dettano criteri per la
disciplina dei distacchi e permessi sindacali nonché delle assemblee del
personale, rinviando per il dettaglio agli accordi di comparto (art. 9 del
decreto).
Né di minore importanza sono le disposizioni che,
confermando l'obbligo per le organizzazioni sindacali di adozione di
codici di autoregolamentazione dell'esercizio del diritto di sciopero, da
allegare agli accordi di comparto, stabiliscono la necessità - prima
dell'inizio delle trattative per il rinnovo dei contratti - di un previo
accordo tra le parti per fissare le norme dirette a garantire la
continuità delle prestazioni indispensabili, in relazione all'essenzialità
dei servizi, nel rispetto dei valori e dei diritti costituzionalmente
garantiti (art. 11 del decreto).
Le regole dell'accordo intercompartimentale sulle citate materie sono
particolarmente apprezzabili dal punto di vista storico in quanto
anticipano, come già detto, scelte legislative sull'esercizio del diritto
di sciopero nei servizi pubblici essenziali e, in tema di diritti
sindacali conducono alla piena contrattualizzazione dei relativi istituti
sancita dalla riforma Bassanini e dai relativi decreti delegati.
Molte sono state, a suo tempo, le critiche sull'idoneità dello strumento
regolamentare a disciplinare la rappresentatività ed i diritti sindacali
data la sua provenienza pattizia, ma nessuno può negare il valore e
l'importanza che l'autoregolazione dei diritti sindacali, compreso quello
costituzionale relativo allo sciopero, sia pure recepita in un decreto,
hanno rappresentato nel raffreddamento dei conflitti assai frequenti e
numerosi - alla fine degli anni settanta e nella prima metà degli anni
ottanta - nei settori del pubblico impiego, specie nella scuola e nella
sanità.
A
fronte dell'autoregolazione dei propri diritti, il quadro normativo
propone, sin dall'epoca, un sistema di relazioni sindacali forte e
partecipativo che ha trovato un suo equilibrio nel panorama della riforma
Bassanini con la chiara distinzione dei ruoli dei vari soggetti.
L'ultima stagione contrattuale conclusasi con le regole della legge
quadro n. 93 (che ha riguardato il triennio 1987-1990) è stata, quindi,
caratterizzata dall'attuazione delle innovative disposizioni dell'accordo
intercompartimentale, fonte di una disciplina trasversale (inserita negli
accordi di comparto poi recepiti in altrettanti decreti), relativa ai
distacchi, permessi ed agli altri diritti sindacali, ispirata alla legge
n. 300 del 1970. Si è così inaugurata una stagione di trasparenza nella
fruizione delle prerogative da parte delle organizzazioni sindacali che -
pur nel mantenimento e rispetto delle relative garanzie - ha contribuito
alla razionalizzazione della spesa pubblica destinata allo scopo,
ulteriormente perfezionata dalla legge 537 del 1993 (collegata alla
finanziaria valida per il 1994), dalla quale è scaturito il D.P.C.M. 25
ottobre 1994, n. 770, rimasto in vigore con modifiche sino all'attuazione
delle riforme del 1998.
In concomitanza con la fine dell'ultima stagione negoziale della legge
quadro, il sistema delle relazioni sindacali nel pubblico impiego,
delineato dal D.P.R. n. 395 si evolve ulteriormente. Con la
legge n. 146
del 12 giugno 1990, riguardante le norme sull'esercizio del diritto di
sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti
della persona costituzionalmente tutelati, è istituita la Commissione di
garanzia. I codici di autoregolamentazione allegati agli accordi del
triennio 1987-1990 si rivelano preziosi, costituendo la base delle
delibere della Commissione di garanzia che regolano la materia sino a
quando, con i primi contratti di natura privatistica stipulati nella
stagione contrattuale 1994-1995 dopo la riforma del pubblico impiego del
1993, non è stato possibile definire i servizi pubblici essenziali con
veri e propri accordi da sottoporre al giudizio di idoneità della
Commissione. Tali accordi sono attualmente in corso di rinnovo per essere
adeguati alla legge 11 aprile 2000, n. 83 che ha previsto la definizione
di procedure di conciliazione e raffreddamento dei conflitti non inserite
negli accordi già validati.
5. Il D.P.R. 395 del 1988: la rappresentatività
nazionale e la rappresentanza nei luoghi di lavoro
L'accertamento della maggiore rappresentatività di cui all'art. 6 della
legge quadro n. 93 del 1983, riferito alle organizzazioni e confederazioni
sindacali da ammettere alle trattative nazionali, non più fondato sul
principio della mera apposizione della firma dei precedenti contratti, è
stato reso possibile dall'art. 8 del citato accordo intercompartimentale
con la fissazione dei relativi criteri e principi guida.
La disposizione affida il compito della rilevazione dei dati e della
misurazione della rappresentatività al Dipartimento della Funzione
Pubblica che vi provvede con l'invio a tutte le amministrazioni della
circolare-direttiva n. 24518/88-8.93.5 del 28 ottobre 1988 (pubblicata
sulla G.U. del 2 novembre 1988, n. 257) e modificata con circolare n.
2759, dell'11 marzo 1991. La rilevazione è diretta ad accertare:
- la consistenza associativa dei sindacati rilevata
in base alle deleghe rilasciate dai dipendenti alle singole amministrazioni
per la ritenuta del contributo sindacale;
- l'adesione ricevuta in occasione di elezione di membri sindacali in
organismi amministrativi previsti dalle leggi all'epoca vigenti, costituiti
nell'ambito dei vari comparti, ovvero di altre consultazioni elettorali (ad
es. il Consiglio superiore della pubblica amministrazione, etc);
- la diffusione e consistenza delle strutture
organizzative dei sindacati negli ambiti territoriali di ciascun comparto di
contrattazione, valutate sulla base dell'applicazione del criterio indicato
nel primo alinea.
Trattandosi di normativa ormai ampiamente superata, in questo
contesto non è affrontato il dibattito sulle questioni di
costituzionalità, sorte all'epoca in dottrina, circa l'affidamento ad una
fonte negoziale (sia pure recepita in provvedimento regolamentare) della
definizione dei criteri di rappresentatività e sulla possibilità che il
perfezionamento e l'applicazione dei criteri stessi fosse, addirittura,
demandato a circolari-direttive del Dipartimento della Funzione Pubblica.
Peraltro, alcune delle considerazioni dell'epoca, prevalentemente rivolte
all'autoreferenzialità del sistema di accertamento proveniente da un
accordo tra le parti, sono riprese nel parere espresso dal Consiglio di
Stato dopo l'esito del referendum sull'originario art. 47 del D.Lgs n. 29,
che aveva nuovamente affidato la definizione delle regole di
rappresentatività delle organizzazioni sindacali del pubblico impiego ad
un analogo strumento.
Da un sommario esame del complesso delle
disposizioni dell'epoca emerge, comunque, che erano ammesse alle
trattative nazionali le organizzazioni sindacali che superavano il 5%
delle deleghe complessive del personale del comparto ovvero dei voti nelle
elezioni degli organismi rappresentativi individuati dalle leggi di
settore. Tali criteri erano alternativi tra loro ma non sufficienti -
isolatamente presi - a produrre l'ammissione se non accompagnati dal dato
della consistenza territoriale, attestato dalla percentuale di presenza in
almeno un terzo delle regioni e province. La percentuale richiesta per il
riconoscimento della rappresentatività saliva al 6% per le organizzazioni
sindacali della dirigenza. A tal fine si deve rammentare che nei comparti
in cui la dirigenza era già allora «contrattualizzata» (comparto delle
Regioni-Autonomie locali, Sanità, Enti ed Istituzioni di ricerca),
l'accordo di lavoro era unico o, al più, come nel Servizio sanitario
nazionale, formato da due separate aree negoziali all'interno del medesimo
accordo.
Le confederazioni erano considerate
rappresentative a livello nazionale a condizione di avere, in almeno due
comparti, l'adesione di organizzazioni di categoria rappresentative sulla
base dei criteri sopra indicati o, in alternativa, di essere presenti nel
CNEL.
Per
sottolineare la peculiarità del precedente sistema, si evidenzia che le
confederazioni riconosciute rappresentative erano ammesse a partecipare
anche alle trattative per gli accordi quadro e a qualsiasi altra
trattativa di comparto, anche se prive di organizzazioni di categoria
aderenti e rappresentative in ciascuno di essi.
L'unica eccezione alla regola era rappresentata dall'area della dirigenza
medico-veterinaria al cui tavolo, all'epoca, erano ammesse solo le
organizzazioni sindacali di categoria.
I criteri così definiti, essendo meramente numerici e, quindi, troppo
rigidi, erano stati temperati dalle stessi circolari-direttive del
Dipartimento, con il riconoscimento - in capo a quest'ultimo - di un
potere discrezionale nel valutare l'ammissibilità alle trattative
nazionali anche di organizzazioni di categoria che - pur non avendo
raggiunto la soglia di rappresentatività richiesta - fossero
sufficientemente vicine ad essa ovvero risultassero rappresentative di
minoranze di lavoratori di particolare o alta professionalità, comunque,
significative nell'ambito del comparto preso in considerazione.
Le modalità di esercizio del potere discrezionale
da parte del Dipartimento della Funzione Pubblica hanno dato luogo ad un
notevole contenzioso e ad una copiosa e significativa giurisprudenza dei
TAR, ai quali si deve la concettualizzazione delle specifiche tipologie
professionali e categorie settoriali che ha consentito l'ammissibilità
alle trattative delle piccole organizzazioni rappresentative di
professionisti o di settori (ad esempio, nel caso degli enti locali, delle
camere di commercio o dei vigili; nella sanità dei chimici etc), ritenute
meritevoli di tutela sindacale per la loro specificità, a prescindere dal
raggiungimento della percentuale di rappresentatività richiesta alla
generalità delle organizzazioni (cfr. per tutte le più recenti: TAR Lazio
n. 518 del 1994; Cons. St., sez. IV, 23 marzo 1998, n. 347; idem 3
dicembre 1998, n. 948; idem 27 aprile 1999, n. 525, tutte relative a
controversie instauratesi prima del D.Lgs. n. 396 del 1997).
Aderendo a tali decisioni, le successive integrazioni della
circolare-direttiva del 1988 hanno, comunque, dettato apposite regole
anche per l'ammissione alle trattative nazionali di tali organizzazioni,
individuando criteri di calcolo della consistenza associativa basati sul
personale sindacalizzato appartenente alla categoria o settore anziché sul
complesso del personale del comparto.
Da sottolineare, infine, che le circolari in
questione dettavano regole identiche a quelle nazionali per l'accertamento
della rappresentatività e l'individuazione delle organizzazioni sindacali
da chiamare alla contrattazione decentrata; sicché poteva verificarsi che
i soggetti di quest'ultima fossero in tutto o in parte diversi dai
sottoscrittori dell'accordo nazionale. Il compito era affidato alle stesse
amministrazioni. Sulla legittimità del principio cfr. TAR Lazio, Sez. I, 4
ottobre 1996, n. 1748, che si è espresso sulla normativa vigente prima del
referendum. La rappresentanza del personale nei luoghi di lavoro era
dunque affidata agli stessi soggetti ivi riconosciuti come
rappresentativi, non essendo richiamata dall'art. 23 della legge quadro n.
93, che riguarda l'applicazione nel pubblico impiego dei principi della
legge n. 300 del 1970, proprio la norma sulla rappresentanza del personale
nei luoghi di lavoro (art. 19), a dimostrazione della specificità del
pubblico impiego.
Ai criteri di rappresentatività del D.P.R. 395 del 1988 e
delle successive circolari del Dipartimento della Funzione Pubblica, si
deve un altro fenomeno: l'aggregazione delle sigle sindacali ai fini del
raggiungimento della percentuale richiesta, che - se da una parte - ha
prodotto il risultato di far scomparire una miriade di piccoli sindacati,
in precedenza ammessi singolarmente alle trattative nazionali, dall'altra
è stato sinonimo di una elevata conflittualità all'interno delle sigle
sindacali che si federavano tra di loro più per motivi contingenti, legati
al raggiungimento della prevista consistenza associativa, che per la
condivisione di una strategia e politica sindacale comuni; il che ha
comportato un'alta mobilità associativa, inducendo il Dipartimento a
cambiare con molta frequenza ed anche in corso di trattativa, i decreti di
individuazione della delegazione di parte sindacale da ammettere alle
trattative.
Come ulteriore considerazione si deve annotare che la
procedura della rilevazione ed il riconoscimento dell'ammissibilità
avevano assunto, nel quadro di riferimento dell'epoca, anche per la natura
degli atti adottati (decreti) la chiara connotazione di provvedimenti
amministrativi pur vertendosi in materia di diritti sindacali, con
conseguente tutela giurisdizionale dinanzi al giudice amministrativo.
6. La rappresentatività nazionale ed i soggetti della
contrattazione decentrata nell'originario art. 47 del D.Lgs. 29 del 1993
Per effetto delle leggi collegate alla manovra finanziaria di metà anno
1992, la contrattazione del pubblico impiego è stata sospesa e rinviata al
1 gennaio 1994 in attesa della riforma avvenuta con il D.Lgs. del 3
febbraio 1993, n. 29, recante le norme per la razionalizzazione delle
amministrazioni pubbliche e la revisione della disciplina in materia di
pubblico impiego, al quale si deve l'avvio del processo di privatizzazione
del rapporto di lavoro dei dipendenti e dirigenti pubblici.
In tale contesto, l'originario art. 47 del citato decreto, con riguardo
alle organizzazioni e confederazioni sindacali da ammettere alle
trattative nazionali e decentrate conferma, in via transitoria, la
regolamentazione del D.P.R. n. 395 del 1988 e delle successive
circolari-direttive del Dipartimento della Funzione Pubblica, sino alla
conclusione di un ulteriore accordo con il quale avrebbe dovuto essere
nuovamente disciplinato l'accertamento della maggiore rappresentatività
sul piano nazionale delle confederazioni ed organizzazioni sindacali.
La contrattualizzazione di tutta la dirigenza
pubblica determina, comunque, almeno una novità sostanziale: il
superamento del contratto di lavoro unico per i dipendenti ed i dirigenti,
con la costituzione di separate aree di contrattazione per questi ultimi e
per le specifiche tipologie professionali di cui un esempio è formato dai
professionisti del comparto degli Enti pubblici non economici (medici,
avvocati etc.).
L'onere di individuare i soggetti sindacali da chiamare al tavolo
negoziale nazionale e, quindi, la competenza dell'accertamento, continua a
far capo al Dipartimento della Funzione Pubblica che vi provvede con
numerosi decreti pubblicati in Gazzetta Ufficiale tra il 1994 ed il 1995,
nel rispetto delle regole ormai codificate da tempo.
Il mantenimento, in via transitoria, della preesistente regolamentazione,
vincola il contratto nazionale al rispetto delle modalità già stabilite
dalle circolari-direttive per l'individuazione dei soggetti
rappresentativi dei lavoratori e titolari dei diritti e prerogative
sindacali in sede decentrata (cfr. precedente paragrafo), limitando, come
si vedrà, almeno in parte, la libertà dei soggetti negoziali
nell'attuazione dell'art. 45 dello stesso decreto che, nella sua
originaria versione (ma anche in quella attuale modificata), demanda al
contratto nazionale la definizione della delegazione sindacale e dei
soggetti della negoziazione di secondo livello.
A tal fine, per una corretta ricostruzione delle vicende susseguitesi nel
primo biennio 1994-1995, con riferimento ai soggetti sindacali della
contrattazione decentrata, è necessario rammentare che i Ccnl, stipulati
agli inizi del 1995 (comparto Ministeri, Enti pubblici non economici,
Regioni-Autonomie locali), pur richiamando diligentemente la normativa
vigente (anche se provvisoria come indicato dall'art. 47), non hanno del
tutto rinunciato ad una espressione di autonomia. Infatti, secondo le
clausole contrattuali di quel periodo, le organizzazioni riscontrate
rappresentative in sede locale sulla base delle circolari-direttive, sono
affiancate dalle RSU (Rappresentanze sindacali unitarie del personale),
ove elette.
La costituzione di tali rappresentanze, previste
dall'Accordo sul costo del lavoro del 23 luglio 1993, si era resa,
infatti, possibile anche per il pubblico impiego in virtù dei protocolli
di intesa interconfederali, firmati il 20 aprile 1994 da Cgil, Cisl, Uil
e, successivamente con accordi separati del 14, 16 giugno e 22 settembre
1994, da tutte le altre confederazioni dei sindacati autonomi e della
dirigenza. Nel quadro di riferimento dell'epoca, sotto il profilo della
rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro, questi organismi elettivi
hanno rappresentato il vero elemento di novità anche se non destinato, in
quel contesto, a una immediata affermazione.
Infatti, ai citati protocolli quadro avrebbero
dovuto far seguito accordi di comparto per la disciplina di dettaglio
delle elezioni, ove ritenuta necessaria dalle organizzazioni di categoria,
rimasta, invece, senza esito tranne che per il comparto dei Ministeri e
delle Regioni-Autonomie locali, oggetto degli accordi del 12 e 26 maggio
1994.
I protocolli quadro, trasmessi a tutte le
amministrazioni dal Dipartimento della Funzione Pubblica con circolare n.
14 del 1994 per dare inizio alle operazioni elettorali dei rappresentanti
delle RSU nelle varie sedi, sono stati bloccati dall'impugnazione della
circolare da parte della Confsal-Snals
dinanzi al TAR Lazio che l'ha sospesa con ordinanza che ha fatto molto
discutere. Pur avendo il Consiglio di Stato revocato con decisione del
gennaio 1995 la sospensione della circolare sulle elezioni citate, la
quasi contemporanea proclamazione del referendum abrogativo, tra gli
altri, dell'art. 47 del D.Lgs. n. 29 (riconosciuto ammissibile dalla Corte
Costituzionale con sentenza n. 1 dell'11 gennaio 1994), ha reso
inopportuna, nei fatti, la prosecuzione delle elezioni nei comparti del
pubblico impiego.
La previsione contrattuale delle RSU, come organismo di rappresentanza dei
dipendenti e soggetto della trattativa decentrata nei primi contratti
stipulati tra il 1994 e1995 ha avuto, pertanto, solo carattere
programmatico.
Le successive vicende, legate al referendum abrogativo del 1995, hanno,
tuttavia, pesato diversamente sulla individuazione dei soggetti
rappresentativi a livello nazionale e decentrato.
7. Gli effetti del referendum abrogativo del 1995 sull'accertamento della
rappresentatività nazionale
Come noto, il referendum abrogativo dell'11 giugno 1995 ha avuto esito
positivo, decretando la caducazione dell'art. 47 che regolava, in via
transitoria, l' accertamento della rappresentatività dei soggetti da
ammettere alle trattative nazionali e decentrate. In tal senso si è
espresso anche il Consiglio di Stato, il quale, con il parere del 27
settembre 1995, n. 355, ha individuato in una fonte normativa,
presumibilmente di legge, la fonte abilitata a rivedere, per il futuro, il
sistema della rappresentatività e rappresentanza sindacale, come poi
avvenuto con la legge 59 del 1997 ed i successivi Decreti Legislativi n.
396 del 1997 e n. 80 del 1998 cui sarà fatto un cenno più avanti.
L'abrogazione dell'intero art. 47 ha prodotto effetti diversi
sull'individuazione dei soggetti da ammettere alle trattative nazionali e
decentrate, incidendo sia sulla rappresentatività che sulla rappresentanza
del personale. Infatti a livello nazionale, si è verificato un totale
vuoto normativo, arrivato in un momento assai critico, caratterizzato -
nell'imminenza dell'avvio dei negoziati dei contratti collettivi relativi
al secondo biennio 1996-1997 - dalla necessità di un nuovo accertamento
della rappresentatività (ferma ai dati rilevati dal Dipartimento della
Funzione Pubblica oltre tre anni prima), anche nel rispetto dei principi
stabiliti dalla sentenza della Corte Costituzionale 4 dicembre 1995, 497
che aveva considerato illegittima ogni forma di cristallizzazione della
rappresentatività.
Per affrontare la momentanea emergenza ed in mancanza di un atto
normativo, il Governo - con propria direttiva - ha conferito all'Aran
(«Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni»
costituta dal D.Lgs. n. 29 per la contrattazione nel pubblico impiego) il
mandato di individuare nuovi criteri di rappresentatività per l'ammissione
alle trattative delle organizzazioni e confederazioni sindacali nel
biennio citato.
Essendo l'Aran priva, all'epoca, di qualsiasi competenza in materia di
accertamento della rappresentatività - funzione rimasta ancora al
Dipartimento della Funzione Pubblica - la forzatura delle direttive
governative appare evidente, anche se giustificabile, sul piano logico,
perché, in fondo, coerente con il sistema privatistico nel cui ambito il
potere del riconoscimento della propria controparte compete al soggetto
negoziale datore di lavoro, anche se tale qualificazione è impropria
rispetto all'Aran. Il difetto di competenza dell'Agenzia, eccepito dalle
organizzazioni sindacali nei giudizi instauratisi avverso i successivi
accertamenti della rappresentatività, si è, comunque, definitivamente
sanato con la legge n. 59 del 1997 ed i successivi decreti delegati.
L'Aran, sempre nella logica che l'accertamento fosse un provvedimento
amministrativo, ha assolto il mandato affidatole con deliberazioni assunte
il 9 e 13 febbraio 1996 che presentano qualche spunto di novità rispetto
alle circolari-direttive del Dipartimento, poi ripreso dalla successiva
legislazione delegata. Infatti, fermi rimanendo i criteri relativi alla
consistenza associativa ed alla diffusione territoriale, viene meno il
criterio dei voti riportati nell'elezione degli organismi sindacali
interni, ove previsti, essendo questi ormai stati soppressi dalla
legislazione della riforma; rimangono anche invariate le differenti
percentuali di rappresentatività richieste per i comparti e per le aree
della dirigenza dalle circolari-direttive del Dipartimento della Funzione
Pubblica.
Spariscono dai comparti le verifiche della rappresentatività per le
categorie settoriali e le specifiche tipologie professionali mentre, in
ottemperanza all'art. 46 del D.Lgs. n. 29, non toccato dal referendum
abrogativo, il personale appartenente a queste ultime è annesso alle aree
della dirigenza e, quindi, la flessibilizzazione delle percentuali di
rappresentatività si rinviene solo con riferimento a queste aree. I
criteri numerici fissati dalle deliberazioni sono vincolanti per l'Aran e
non consentono a questa di esercitare alcun potere discrezionale circa
l'ammissione alle trattative delle organizzazioni di categoria vicine alla
soglia di rappresentatività. Le confederazioni sono ammesse alle
trattative di tutti i comparti o di tutte le aree dirigenziali solo se,
rispettivamente negli uni o nelle altre, hanno due organizzazioni di
categoria rappresentative ad esse aderenti, a differenza del passato in
cui era sufficiente avere due organizzazioni in totale (indifferentemente
di comparto o di area) per essere ammessi a tutte le trattative, comprese
quelle degli accordi quadro.
La modifica di parte dei criteri di accertamento della rappresentatività
ha provocato l'esclusione dalle trattative del secondo biennio 1996-1997
di alcune confederazioni ed organizzazioni di categoria di settori
particolari con la conseguente impugnativa dinanzi al giudice
amministrativo.
Le istanze cautelari sono state accolte (con conseguente ammissione con
riserva dei soggetti esclusi alle trattative dei relativi comparti o aree)
sorprendentemente, non con riferimento ai criteri prescelti o al difetto
di competenza dell'Aran (pur rilevato da alcuni ricorrenti), ma al fatto
che l'esclusione avrebbe comportato l'impossibilità, per le organizzazioni
e confederazioni non più rappresentative, di partecipare al rinnovo dei
contratti di lavoro del secondo biennio di parte economica, ritenuti dal
TAR non contratti autonomi ma prosecuzione del contratto quadriennale di
parte normativa e I biennio economico (cfr. per tutte TAR Lazio, sez. I,
ordinanza motivata 899 del 1996; id. dec. 2 dicembre 1997, n. 2007).
Vale la pena di ricordare che, nel corso di tali giudizi, l'Aran ha
proposto il regolamento di giurisdizione ritenendo che le controversie in
tema di diritti sindacali fossero, anche nel sistema pubblico, ormai di
competenza del giudice ordinario. La Corte di Cassazione a sezioni riunite
con sentenze 1398 del 1997 e 7179 del 1998 (confermative della sentenza
dello stesso giudice 17 marzo 1989, n. 1354) ha attribuito alla
giurisdizione del giudice ordinario la tutela degli interessi propri ed
esclusivi delle organizzazioni sindacali, anche quando tali interessi si
concretizzino nell'ambito dell'impiego pubblico. Principio ormai
confermato nell'art. 68, comma 3 del D.Lgs. n. 29 del 1993 (ora
art. 63 del D.Lgs. 165 del 2001).
Nessuno dei giudizi relativi ai ricorsi presentati
avverso le delibere dell'Agenzia si è concluso nel merito per la mancanza
di interesse a proseguirli da entrambe le parti, anche dinanzi al giudice
ordinario, essendosi ormai concluse le trattative dei comparti o delle
aree interessate tra il 1996 ed il 1997. Non è dato, quindi, conoscere
quale sarebbe stato il giudizio finale sul contenzioso dell'epoca,
ripresentatosi, come vedremo più avanti, con altri esiti, anche nella
stagione contrattuale 1998-2001.
8. Gli effetti del referendum abrogativo del 1995 sui soggetti dei luoghi
di lavoro
Gli effetti del referendum abrogativo sull'individuazione dei soggetti
della contrattazione decentrata non sono stati tali da determinare un
vuoto normativo come per la verifica della rappresentatività a livello
nazionale. Dal momento che l'individuazione dei soggetti del secondo
livello di contrattazione è regolata dai contratti collettivi nazionali,
la fonte pattizia si è rivelata lo strumento idoneo a prendere atto dei
cambiamenti dei soggetti conseguenti alla sopravvenienza delle leggi. Nel
quadriennio 1994-1997 i criteri sono stati, infatti, modificati ben due
volte: a seguito del referendum e per effetto del D.Lgs. 396 del 1997.
Non va, inoltre, dimenticato che, a differenza del sistema privato in cui
vige un regime di libertà negoziale, nel sistema pubblico il meccanismo di
individuazione è oggetto di una tutela legale specifica essendo collegato
alla misurazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali ed
i contratti collettivi - pur nell'ambito della loro autonomia, non possono
derogare a tale disciplina.
Di conseguenza, essendo venuta meno - per effetto del
referendum abrogativo - la speciale disciplina pubblicistica che regolava
precedentemente la materia della rappresentatività in sede decentrata, è
scattato il principio - codificato negli artt. 2 e 55 del D.Lgs. n. 29 -
del passaggio alla disciplina privatistica, regolata per la parte che qui
interessa, dall'art. 19 della legge n. 300 del 1970, anch'esso riformulato
dopo l'esito referendario.
I dubbi che ancora persistevano sulla norma dello Statuto dei lavoratori
anche dopo il referendum sono stati definitivamente fugati dalla Corte
Costituzionale con sentenza n. 244 del 12 luglio 1996, nella quale si
afferma, tra l'altro, che «secondo l'art. 19, pur nella versione
risultante dalla prova referendaria, la rappresentatività del sindacato
non deriva da un riconoscimento del datore di lavoro, espresso in forma pattizia, ma è una qualità giuridica attribuita dalla legge alle
associazioni sindacali che abbiano stipulato contratti collettivi
(nazionali, locali o aziendali) applicati nell'unità produttiva».
Ciò sta a significare l'esigenza di «una partecipazione attiva
al processo di formazione del contratto» ossia l'affermazione del
principio del collegamento negoziale ed il superamento della
«rappresentatività presunta» derivante dalla formulazione dell'art. 19,
precedente all'esito referendario. La citata sentenza n. 244 ha, quindi,
chiuso il contenzioso pendente sulla norma definendo la rappresentatività
sindacale endoaziendale per via legale al di fuori di ogni potere
discrezionale del datore di lavoro.
I Ccnl del quadriennio 1994-1997, stipulati dopo il referendum, hanno,
pertanto, stabilito che i soggetti sindacali in sede decentrata - in
attesa delle elezioni delle RSU - dovevano essere individuati nelle RSA
(rappresentanze sindacali aziendali) ai sensi del principio legale di cui
al predetto art. 19 (unico applicabile come sostenuto dalla citata
autorevole sentenza), da costituirsi nell'ambito delle associazioni
sindacali «firmatarie del Ccnl applicato nell'unità operativa».
Pertanto la titolarità della contrattazione nella sede decentrata di tali
ultimi soggetti, si configura come un diritto pieno che esclude qualsiasi
potere di supremazia e discrezionalità di cui l'amministrazione potrebbe
godere nell'individuare i soggetti sindacali a tale livello.
A completamento della delegazione trattante, i citati contratti nazionali
hanno anche previsto che le RSA fossero affiancate dai componenti
territoriali delle organizzazioni sindacali firmatarie dei contratti
collettivi nazionali, a garanzia del rispetto del principio di
collegamento con il contratto nazionale.
Lo scardinamento del principio della possibilità di un
accertamento autonomo della rappresentatività delle organizzazioni
sindacali locali da parte delle singole amministrazioni (come
precedentemente previsto dalle circolari-direttive del Dipartimento della
Funzione Pubblica travolte dall'esito referendario), se da una parte ha
ingenerato una iniziale situazione conflittuale, dall'altra ha evitato
ogni onere di riconoscimento alle amministrazioni stesse, vincolate al
rispetto delle norme del contratto nazionale.
Infatti, subito dopo l'applicazione dell'art. 19, è accaduto che
organizzazioni non rappresentative a livello nazionale e, quindi, non
firmatarie di tali contratti, ma presenti in forte concentrazione in
alcune amministrazioni, non siano più state ammesse alla trattativa
decentrata, esigendo la norma in esame (a differenza del periodo
prereferendario e delle circolari del Dipartimento) la perfetta
corrispondenza tra soggetti firmatari del contratto nazionale ed ammessi
alla contrattazione di secondo livello. In questo nuovo quadro assume
anche particolare rilievo la mancata firma del contratto nazionale che
costituisce una causa di auto esclusione dal sistema di contrattazione
decentrata da parte del sindacato che non condivide in tutto o in parte le
clausole contrattuali nazionali.
9. La rappresentatività nazionale negli artt. 47 e 47 bis del D.Lgs. 29
del 1993, modificati dai D.Lgs. n. 396 del 1997 e n. 80 e n.387 del 1998
Per completare la ricostruzione del quadro normativo relativo alla
rappresentatività delle organizzazioni e confederazioni sindacali e della
rappresentanza dei dipendenti nei luoghi di lavoro, vale la pena
rammentare che, in ottemperanza al parere del Consiglio di Stato citato
nel paragrafo n. 7, la materia è interamente disciplinata, in attesa di
una legge generale valida per il settore pubblico e privato (all'epoca
all'esame del Parlamento) dagli artt. 47 e 47 bis del D.Lgs. n. 29 (ora
artt.
42 e
43 del D.Lgs. 165 del 2001).
L'art. 47 ha demandato alla contrattazione collettiva il compito di
completare il nuovo quadro normativo delle relazioni sindacali nelle
pubbliche amministrazioni, fondando su regole certe e, per quanto
possibile, condivise le forme di rappresentanza dei lavoratori e delle
organizzazioni sindacali nei luoghi di lavoro nonché le competenze in
materia di partecipazione sindacale e di contrattazione collettiva
integrativa.
In sintesi, a regime, con le nuove regole (art. 47 bis, comma 1) sono
ammesse alle trattative nazionali le organizzazioni sindacali che, nei
comparti o aree, abbiano raggiunto una rappresentatività non inferiore al
cinque per cento, considerando a tal fine la media tra dato associativo
(deleghe rilasciate dai lavoratori per il versamento del contributo
sindacale) ed elettorale (voti conseguiti nell'elezione delle
rappresentanze unitarie del personale).
Alle trattative nazionali dei comparti o delle aree dirigenziali (inclusa
ora quella medico-veterinaria) partecipano anche le confederazioni solo se
vi siano, in quel comparto o area, organizzazioni rappresentative ad esse
aderenti. Le confederazioni, a loro volta, ai fini dell'ammissione alle
trattative per la stipulazione degli accordi quadro, di loro esclusiva
competenza, devono essere presenti con le proprie organizzazioni di
categoria in due comparti o in due aree, come a suo tempo deliberato dall'Aran.
La convocazione è unitaria quando le materie da trattare riguardino
indistintamente il personale e la dirigenza (come, ad esempio, in tema di
Ccnq sui diritti sindacali, arbitrato etc).
Quella delle confederazioni è, pertanto, una rappresentatività «derivata»
dalle organizzazioni di categoria. L'osservazione non è irrilevante se si
considera che i contratti di comparto sono validamente stipulati se
sottoscritti da organizzazioni di categoria che rappresentino, nel loro
complesso almeno il 51 % come media tra il dato associativo ed il dato
elettorale nel comparto o area, ovvero, almeno il 60% del dato elettorale
nel medesimo ambito. Per i contratti collettivi quadro non è, invece,
previsto un analogo parametro. Vale in questi casi il principio del
raggiungimento del maggior consenso, valutato discrezionalmente dalla
parte pubblica, anche in relazione al peso espresso dalle categorie
aderenti alle confederazioni sottoscrittrici.
Una ulteriore differenza rispetto alla pregressa
normativa riguarda le specifiche tipologie professionali il cui rapporto
di lavoro è sottratto alla disciplina delle aree dirigenziali e ricondotto
all'interno dei comparti. Scelta ampiamente convalidata dalla
giurisprudenza (cfr. per tutte Tribunale di Roma, n. 14448 del 1 agosto
2000).
Per
realizzare le novità del dettato legislativo con riguardo alla
rappresentatività e rappresentanza, l'art. 47 ha previsto che «prima
dell'avvio delle trattative per il rinnovo dei Ccnl» del quadriennio
1998-2001, l'Aran e le confederazioni e le organizzazioni sindacali
rappresentative, definiscano con appositi accordi le modalità di elezione
e funzionamento degli organismi di rappresentanza unitaria del personale.
Il dato elettorale ha un duplice valore in quanto è utilizzato anche per
l'accertamento della rappresentatività delle organizzazioni sindacali da
ammettere alle trattative nazionali per il rinnovo dei contratti
collettivi di lavoro.
La disposizione, attuata con l'Accordo quadro del 7 agosto 1998 sulla
costituzione delle RSU, ha consentito di eleggere detti organismi in tutti
i comparti nel novembre dello stesso anno, periodo dal quale sono
subentrati alle RSA ereditandone le competenze e le garanzie di tutela e
libertà sindacale. Per le aree della dirigenza l'accordo non è stato,
invece, raggiunto per le ragioni e con le conseguenze che saranno
esaminate più avanti.
Il primo accertamento della rappresentatività
svolto dall'Aran ha riguardato l'ammissione dei sindacati alle trattative
dei contratti collettivi relativi al quadriennio 1998-2001 per la parte
normativa e primo biennio economico 1998-1999. In base alla disciplina
transitoria sono state riconosciute rappresentative le organizzazioni
sindacali con il quattro per cento di rappresentatività calcolato solo sul
dato associativo. (cfr. l'art. 8 del D.Lgs. n. 396 del 1997, modificato
dall'art. 44 D.Lgs. n. 80 del 1998, disciplina che, in base al D.Lgs.. 165
del 2001, ha esaurito i propri effetti).
Gli esiti relativi all'accertamento dei soggetti
rappresentativi per il biennio citato sono stati riportati nel
Contratto
collettivo nazionale quadro del 7 agosto 1998 per i comparti e nel
Ccnq
del 25 dicembre 1998 per le aree della dirigenza (entrambi modificati dal
Ccnq del 27 gennaio 1999), stipulati per la ripartizione dei distacchi e
permessi nonché per la definizione delle flessibilità nella fruizione
delle prerogative spettanti alle organizzazioni sindacali rappresentative,
materia ormai completamente affidata alle parti negoziali (cfr.
art. 50
del D.Lgs. 165 del 2001).
Come previsto dal legislatore, con il subentrare del biennio
2000-2001, la disciplina della rappresentatività è entrata a regime per i
comparti ove si sono tenute le prime elezioni delle RSU nel 1998 (cfr. per
gli esiti del secondo biennio il
Ccnq del 9 agosto 2000). L'accertamento è
avvenuto, previo esperimento della complessa procedura di certificazione
dei dati associativi ed elettorali, rilevati dall'Aran, attuata da un
Comitato paritetico formato dalla stessa Agenzia e dalle organizzazioni
sindacali rappresentative (art. 47 bis del D.Lgs. 29, ora
art. 43 del D.Lgs. 165).
Si è confermata, in tal modo, la biennalità dell'accertamento
della rappresentatività, coincidente con il rinnovo della parte economica
dei contratti ed, al fine di assicurare stabilità alla delegazione
sindacale per tale arco di tempo, i movimenti associativi intervenuti dopo
l'accertamento, (che riguardano, in particolare, le federazioni di più
sigle sindacali, fenomeno in aumento per il raggiungimento della
percentuale di rappresentatività), producono i propri effetti solo dal
biennio successivo (cfr l'art. 19 del Ccnq del 7 agosto 1998).
Il concretizzarsi del principio del periodico avvicendamento
dei soggetti rappresentativi, è stato, ancora una volta, contestato dai
sindacati esclusi dalle trattative e dalla fruizione delle prerogative per
non aver mantenuto, anche nel secondo biennio, la percentuale di
rappresentatività richiesta. Questa volta i ricorsi presentati sono stati
respinti dal giudice ordinario, che, diversamente da quello
amministrativo, ha ribadito l'imperatività della disciplina legislativa
sulla rappresentatività nonché l'autonomia dei singoli contratti che
vengono stipulati all'interno del quadriennio (ad. es. quello relativo al
secondo biennio economico ovvero i contratti integrativi meglio conosciuti
come «code contrattuali», riferiti ad istituti per i quali le parti
prevedono una successiva contrattazione all'interno della stessa stagione
negoziale), convalidando il principio che i soggetti possano mutare in
ciascuno dei due bienni di contrattazione senza cristallizzazione della
rappresentatività (cfr. per tutte Tribunale di Roma, sez. IV lavoro,
ordinanze di merito sui giudizi cautelari del 16 giugno e del 3 agosto
2000).
Molto delicata è la situazione delle aree della dirigenza ove più di
qualche perplessità è sorta sull'entrata a regime delle regole della
rappresentatività per la mancata stipulazione dell'accordo sulla
costituzione delle RSU, nonostante i ripetuti tentativi dell'Aran che da
ultimo ne ha preso atto con un verbale del 15 novembre 2001. Le
organizzazioni sindacali delle aree della dirigenza si sono divise
sull'opportunità di creare tali organismi, soprattutto in considerazione
del fatto che il comma 9 dell'art. 47 (ora
art. 42 del D.Lgs. 165) in
esame sembra lasciare alle parti un margine di discrezionalità con il
richiamo alla coerenza delle funzioni dirigenziali. Peraltro anche nel
settore privato non vi è riscontro di elezione di RSU per la dirigenza,
sia pure tenuto conto del diverso e meno strutturato sistema di relazioni
sindacali rispetto al pubblico impiego.
La mancanza delle elezioni delle RSU ha comportato la necessità di
risolvere il problema della rappresentatività delle aree dirigenziali per
le quali l'art. 47 bis, comma 1 (ora
art. 43 del D.Lgs. 165) ha previsto
- come per i comparti - il 5% di rappresentatività come media tra il dato
associativo ed elettorale.
La mancanza di questo secondo elemento ha indotto l'Aran (a seguito di
conforme parere del Dipartimento della Funzione Pubblica) a calcolare la
percentuale predetta solo sul dato associativo senza applicare il criterio
della media. Tre organizzazioni sindacali che, nello scorso biennio, non
hanno raggiunto il cinque per cento hanno inoltrato ricorso al giudice del
lavoro, il quale in due istanze cautelari ha ritenuto non terminato il
periodo transitorio per la mancata elezione delle RSU (per il quale era
sufficiente il 4% del dato associativo) e nella terza ha, invece, accolto
le osservazioni dell'Aran relative al fatto che il mancato accordo sulla
costituzione della rappresentanza del personale (che richiede l'assenso
del sindacato) non può bloccare in perpetuo l'entrata a regime della
rappresentatività (cfr. ordinanze del giudice monocratico del Tribunale di
Roma il 27 marzo 2000 favorevole; 2 marzo 2000 e 22 settembre 2000,
sfavorevoli; questa seconda è stata emendata dallo stesso giudice in
composizione collegiale a favore dell'Aran. Per le altre si è in attesa
del giudizio finale di merito).
Il perpetuarsi della situazione ha, comunque, suggerito di chiedere al
Dipartimento della Funzione Pubblica una conferma, anche per il prossimo
quadriennio 2002-2005, della utilizzazione del criterio precedentemente
applicato, ma la delicatezza del problema ha indotto quest'ultimo ad
inoltrare una richiesta di parere al Consiglio di Stato per una
interpretazione delle norme legislative di riferimento dalle quali trarre
una adeguata indicazione atta ad evitare, fin dove possibile, il ripetersi
del contenzioso.
10. La rappresentanza nei luoghi di lavoro nell' art. 47 del D.Lgs. 29 del
1993 come modificato dai D.Lgs. n. 396 del 1997, n. 80 e n. 387 del 1998
I decreti legislativi del 1998 hanno avuto incidenza anche
sulla rappresentanza dei dipendenti nei luoghi di lavoro nonché sui
soggetti sindacali ammessi alle trattative di secondo livello (ora
contrattazione integrativa) che già nella pregressa stagione contrattuale
erano stati oggetto di modifica per effetto del referendum abrogativo del
1995.
Infatti, abbastanza inopinatamente, in tali decreti, oltre ad
una disciplina transitoria per la verifica della rappresentatività delle
organizzazioni sindacali a livello nazionale, è stata dettata anche una
normativa provvisoria per l'individuazione dei soggetti da ammettere alla
contrattazione decentrata, che essendo parzialmente diversa da quella
formulata con i contratti, ormai già stipulati nei vari comparti ed aree
della dirigenza, l'ha automaticamente sostituita, incidendo fortemente
sulle trattative ancora in corso nelle sedi di lavoro (cfr. l'art. 8 del
D.Lgs. n. 396 del 1997, come modificato dall'art. 44 del D.Lgs. 80 del
1998).
La normativa sopravvenuta ha confermato l'ammissione alle
trattative locali solo di quelle organizzazioni sindacali che - firmatarie
dei Ccnl di comparto o area del quadriennio 1994-1997 (art. 19 della legge
n. 300 del 1970) - alla data di entrata in vigore della modifica
legislativa avessero mantenuto una percentuale nazionale di
rappresentatività non inferiore al quattro per cento, tenendo conto del
solo dato associativo ovvero che - in mancanza di detto requisito -
contassero in sede locale una percentuale di deleghe non inferiore al
dieci per cento del totale dei dipendenti. La disciplina transitoria,
applicata nel marzo 1998 dall'Aran nell'ambito della nuova competenza
affidatale dai decreti legislativi, ha destato non poco scalpore tra le
organizzazioni sindacali, sovvertendo gli equilibri raggiunti con le norme
pattizie e determinando un nuovo contenzioso.
I ricorsi presentati in via cautelare ancora al TAR
(nonostante le pronunce della Cassazione sul difetto di giurisdizione) ed,
in secondo grado, al Consiglio di Stato sono però stati respinti (cfr. per
tutte TAR Lazio, ordinanze 1503 del 25 maggio 1998 e 1869 del 24 giugno
1998) essendo le norme dei decreti legislativi insuscettibili di
applicazione discrezionale. Il giudizio di merito su tali ricorsi non è
stato più riacceso poiché nel frattempo le trattative decentrate sono
state ultimate.
A regime, il rinnovellato art. 47 del D.Lgs. n. 29 (ora
art.
42 del D.Lgs. 165), al fine della costituzione delle rappresentanze del
personale nei luoghi di lavoro, come già accennato nel precedente
paragrafo, è stato attuato con l'Accordo quadro del 7 agosto 1998. Le
prime RSU sono state elette in tutti i comparti nel novembre dello stesso
anno e sono rimaste in carica, come previsto per un triennio e rinnovate,
dopo nuove elezioni nel novembre 2001. Ha fatto eccezione il comparto
Scuola, dove per effetto della legge n. 69 del 1999, le elezioni sono
avvenute nel dicembre 2000, dopo l'entrata in vigore dell'autonomia
scolastica.
Dopo l'elezione delle RSU, al posto delle RSA, nelle sedi di lavoro sono
rimasti in funzione terminali associativi delle organizzazioni sindacali
rappresentative e non, che hanno aderito all'accordo. Tanto l'accordo
sulla costituzione delle RSU quanto il Ccnq sui diritti e prerogative
sindacali, entrambi del 7 agosto 1998, nel passaggio delle competenze ai
nuovi organismi elettivi, hanno previsto la possibilità per i contratti di
comparto di utilizzare la facoltà, ammessa dall'art. 47 del D.Lgs. n. 29,
di affiancare, nella delegazione sindacale di secondo livello, agli
organismi elettivi di rappresentanza del personale, i componenti, quasi
sempre territoriali, delle organizzazioni sindacali firmatarie del
contratto collettivo nazionale di comparto.
Con l'applicazione generalizzata di tale regola nei contratti collettivi
relativi ai comparti relativi alla stagione negoziale 1998-2001, nelle
sedi di lavoro si è realizzata una combinazione tra presenza organizzata
delle associazioni sindacali e partecipazione diretta dei lavoratori
all'attività sindacale. Ciò è avvenuto anche in modo parzialmente diverso
dall'art. 19 della legge n. 300 del 1970, in quanto mentre il collegamento
tra associazione sindacale e iniziativa dei lavoratori previsto in tale
norma si svolge nell'ambito delle organizzazioni firmatarie e, quindi
rappresentative, nell'organismo di rappresentanza elettivo possono essere
presenti anche componenti di liste non appartenenti alle organizzazioni
rappresentative. Il che giustifica nella delegazione trattante la presenza
dei componenti delle organizzazioni sindacali firmatarie con lo scopo di
garantire il principio del collegamento con le scelte negoziali nazionali.
Il principio non si realizza, invece, nelle aree della dirigenza dove i
soggetti della contrattazione integrativa, in attesa dell'elezione degli
organismi elettivi, sono ancora costituiti dalle RSA di cui all'art. 19
della legge 300 del 1970 e dai rappresentanti, per lo più territoriali,
delle organizzazioni sindacali di categoria firmatarie del contratto.
11. Problematiche sulla delegazione trattante nelle sedi di lavoro
La particolare composizione della delegazione trattante di parte sindacale
nei comparti è stata fonte di notevoli problemi, specie nelle sedi di
lavoro ad alta conflittualità interna. Infatti essa risulta formata da due
componenti eterogenee ma entrambe necessarie, la prima delle quali (RSU)
esprime il suo parere a maggioranza. Nulla, invece, è rinvenibile
nell'Accordo quadro del 7 agosto 1998 circa le modalità con le quali le
due componenti sindacali si collegano tra di loro per esprimere
unitariamente la propria volontà; sicché, in caso di disaccordo tra
l'organismo elettivo e le componenti sindacali delle organizzazioni
firmatarie, la contrattazione integrativa può rimanere bloccata o peggio
ancora, nel tentativo di superare lo scoglio, l'amministrazione può essere
costretta a svolgere un improprio ruolo di arbitro tra le due componenti
sindacali al fine di pervenire alla sottoscrizione del contratto.
Le modalità di raccordo delle due componenti della delegazione sindacale
di secondo livello avrebbero dovuto essere oggetto di un regolamento
interno tra di esse ovvero di criteri definiti nell'accordo quadro del 7
agosto 1998. La mancanza comporta problemi di vario ordine e grado: dalla
richiesta di separazione dei tavoli tra RSU e componenti delle
organizzazioni sindacali firmatarie; alle dimissioni a catena dei
componenti delle RSU dissenzienti, per provocarne la decadenza. In tale
ultimo caso un accordo di interpretazione autentica stipulato il 13
febbraio 2001 prevede l'immediata rielezione delle RSU, pur non impedendo
la continuazione delle trattative con i rappresentanti di esse non
dimissionari e gli altri componenti delle organizzazioni sindacali
firmatarie. Rimane tuttora insoluto il primo problema anche se, dal punto
di vista interpretativo, data l'unicità della delegazione, gli elementi di
valutazione a sfavore della tesi della separabilità dei tavoli tra RSU ed
organizzazioni sindacali per pervenire a contratti separati, sono
decisamente prevalenti.
Meno problematica è la situazione nelle aree dirigenziali ove, data
l'omogeneità della delegazione sindacale, il dissenso può portare
effettivamente alla trattativa a tavoli separati, ammessa in questi casi
anche dalla giurisprudenza.
Nella negoziazione di secondo livello non trova, comunque,
applicazione la regola valida per il contratto collettivo nazionale che si
considera legittimamente sottoscritto se le organizzazioni ammesse alle
trattative che vi aderiscono, raggiungono il 51% complessivo di
rappresentatività come media tra dato associativo ed elettorale o almeno
il 60% del solo dato elettorale. Ciò significa che le amministrazioni, in
presenza di dissenso tra RSU e l'altra componente sindacale (o per le aree
dirigenziali tra organizzazioni sindacali) devono valutare
discrezionalmente, se il grado di consenso raggiunto è tale da essere
considerato sufficiente per la sottoscrizione, tenendo conto del «peso»
che, nel loro complesso, le varie rappresentanze favorevoli esprimono.
Due altri temi di notevole spessore turbano il
regolare svolgimento della contrattazione integrativa con riferimento
all'individuazione dei soggetti. Il primo riguarda le organizzazioni
sindacali costituite dalla federazione di più sindacati, non tutti
presenti contemporaneamente nella sede di lavoro. In questi casi la
titolarità delle prerogative compete sempre e solo alla federazione
unitariamente intesa e non ai singoli sindacati che la compongono e,
pertanto, sia la fruizione di esse, così come la partecipazione alle
trattative locali, può avvenire solo in nome e per conto della federazione
di appartenenza che vi provvede con «accredito» formale del dirigente
sindacale abilitato a svolgere tali compiti. In tal senso dispongono sia
l'art. 10, comma 2 che l'art. 19, commi 1 e 3, del Ccnq del 7 agosto 1998
che disciplina le modalità di utilizzo dei distacchi, aspettative,
permessi e delle altre prerogative.
Il secondo tema riguarda il periodico accertamento della rappresentatività
nazionale, che, avendo attualmente cadenza biennale, può comportare
cambiamenti tra i rappresentanti delle organizzazioni di categoria
firmatarie ammessi al livello di contrattazione integrativa qualora nel
secondo biennio non risultino più rappresentativi a livello nazionale, con
incidenza così sulla composizione della delegazione trattante in sede
aziendale. Anche tale problema è stato risolto in via pattizia con il Ccnq
del 9 agosto 2000 il quale, all'art. 6, comma 3, prevede che il subentro
della nuova delegazione trattante nella contrattazione di secondo livello
avvenga - con riferimento a tali nuovi componenti - solo con la
sottoscrizione del contratto collettivo nazionale relativo al biennio cui
si riferisce l'accertamento della rappresentatività.
12. Conclusioni
Dall'esame delle norme legislative citate negli
ultimi paragrafi e dal contributo fornito, alla loro realizzazione e
completamento, dai contratti collettivi quadro per la parte di competenza,
emerge con molta chiarezza che nel pubblico impiego esiste un sistema
forte di relazioni sindacali che - pur nel rispetto dei reciproci ruoli -
trova la sua ragione nella partecipazione delle parti sociali al processo
di riforma, voluta espressamente allo scopo di ottenere il massimo
coinvolgimento e la condivisione dei lavoratori interessati al cambiamento
(art. 9 del D.Lgs. 165 del 2001).
L'affidamento alla fonte pattizia della regolazione delle relazioni e dei
diritti sindacali, oltre a prevedere la partecipazione di tali soggetti
alla trasformazione del modello organizzativo, contribuisce a garantire un
confronto costruttivo tra le parti, frutto dell'auto disciplina come
regola di comportamento.
La rappresentatività e la rappresentanza nei luoghi di lavoro
sono due concetti del tutto diversi ma strettamente interconnessi al punto
che spesso è difficile distinguerli.
La misurazione della rappresentatività dei sindacati a livello nazionale
per l'ammissione alle trattative si fonda, infatti, sul consenso
manifestato dai lavoratori attraverso l'iscrizione ed il pagamento del
contributo sindacale e con il voto espresso nell'elezione degli organismi
di rappresentanza nei luoghi di lavoro, dati che, congiuntamente,
concorrono a formare la media sulla quale si calcola la percentuale di
legge.
La partecipazione alle elezioni delle RSU, pur
rimanendo facoltativa, diventa, nei fatti, un evento irrinunciabile e
quasi obbligatorio per le organizzazioni sindacali che altrimenti
metterebbero a rischio la propria rappresentatività nazionale (cfr.
Tribunale di Roma, sentenza del 5 novembre 1999, n. 16451).
La misurazione di quest'ultima è periodica ed esaurisce i suoi effetti con
riguardo al biennio di riferimento. I risultati raggiunti, per lo stesso
arco di tempo non sono intaccati né dai mutamenti associativi delle
organizzazioni sindacali ammesse né dalle vicende degli organismi di
rappresentanza elettivi (decadenza, mancato funzionamento).
Per tale motivo, mentre la rappresentatività delle organizzazioni
sindacali è garantita a livello nazionale per un biennio e tale garanzia
si estende anche ai componenti territoriali delle stesse che - se
firmatarie - fanno parte della delegazione sindacale dei luoghi di lavoro,
per le RSU, in caso di loro decadenza prima del termine naturale del
triennio, si deve immediatamente procedere alla rielezione in quanto esse
vivono di vita propria. La rielezione non influenza più i dati elettorali
della rappresentatività nazionale poiché quelli presi a riferimento
coincidono con i risultati ottenuti dai sindacati nei giorni fissati per
le elezioni generali.
Come si è sottolineato nel paragrafo n. 10, nella
sede di lavoro la rappresentanza del personale assume una forma complessa
che si esprime, al suo massimo livello, attraverso l'elezione della RSU -
che è il risultato di una scelta liberamente espressa, con il voto, dai
lavoratori a prescindere dalla loro iscrizione al sindacato - non meno che
attraverso l'appartenenza al sindacato stesso che, se firmatario dei
contratti collettivi nazionali, diventa soggetto negoziale con dignità e
peso pari a quello della RSU.
In questo contesto si potrebbe affermare che la rappresentanza dei
lavoratori nel pubblico impiego non è univoca e mantiene un carattere di
specialità, non potendosi negare che essa possa essere esercitata
disgiuntamente dai due soggetti (RSU o sindacato rappresentativo, comunque
presente nella sede di lavoro) o congiuntamente, da entrambi, nell'ambito
della delegazione trattante di cui fanno unitariamente parte.
Ecco anche, perché molto spesso, quando indicano i soggetti sindacali
della sede decentrata, i contratti collettivi preferiscono fare
riferimento più alla delegazione nel suo complesso che ai soggetti che la
compongono, benché la contrattazione integrativa non esaurisca tutti gli
altri livelli di relazioni sindacali del luogo di lavoro che possono
essere attivati singolarmente dalla RSU a tutela dell'interesse dei
lavoratori.
La compresenza nella sede decentrata di più soggetti di rappresentanza
(elettivi o designati) determina nell'attuale sistema anche una forma di
competitività che porta ad azioni di lotta interna fra i soggetti
sindacali, come si è evidenziato nel precedente paragrafo.
Non va poi trascurato il fatto che una forma di rappresentanza, sia pure
molto limitata e singolare, sia esercitata anche dai sindacati non
rappresentativi (specie nei casi di alta concentrazione di essi in alcune
sedi di lavoro) i quali, oltre a poter essere presenti tra i componenti
eletti nella RSU, sono comunque abilitati a costituire i terminali di tipo
associativo, eredi delle tramontate RSA, in virtù della loro
partecipazione alle elezioni; organismi con i quali essi attestano la loro
presenza nella sede di lavoro, quanto meno, ai fini del proselitismo (art.
10 dell'accordo collettivo quadro del 7 agosto 1998).
In ogni caso, pur con le incertezze e le
specificità che la rendono peculiare, la riforma del 1998 della
rappresentatività e della rappresentanza delle organizzazioni sindacali
nel pubblico impiego costituisce un esempio significativo di regolazione
delle relazioni sindacali, quale insieme di norme legislative e pattizie,
le quali, nella loro piena attuazione, si sono, da ultimo, consolidate
anche con il conforto di una costante favorevole giurisprudenza del
giudice ordinario.
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